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Scoprii troppo tardi che ero veramente un malvivente, come credevo quando mi risvegliai dal coma.

Ero implicato in un'associazione a delinquere, ma ero anche il responsabile reparto di una grande azienda: avevo una doppia vita.

Quando, sul finire dell'estate, volli tornare a lavorare, nel mio ufficio mi aspettava il mio capo.

-Che ci fai qui?- domandò brusco. Era appoggiato alla mia scrivania col fondoschiena, mentre le mani erano elegantemente incrociate sul petto. Tutto il suo corpo trasmetteva calma e sicurezza, ma gli occhi... I suoi occhi fremevano dalla voglia di bruciarmi all'istante.

-V-vorrei tornare a l-lavorare- non riuscii a controllarmi dal balbettare. Me ne vergognai subito dopo.

-Non puoi. Non sei in grado. Non sai più nemmeno gestire te stesso, figuriamoci un reparto intero.- La sua nonchalance fu come un pugno allo stomaco.

-Lei non capisce. Devo lavorare. Devo...- riempire un vuoto.

-Non sei in grado di fare ciò che facevi prima.- Neanche il tempo di ribattere che tirò fuori da non-so-dove una pistola e me la puntò contro.

-Sei scampato alla morte di Dio, ma dalla mia non ci riuscirai. Giocavamo a fare Dio, te li ricordi i nostri discorsi?- il tono della sua voce si alterò.

Non sapevo di cosa stesse parlando, in quel momento fissavo la pistola, pensando che avesse ragione, che non sarei potuto scappare, che quello sarebbe stato l'ultimo istante della mia vita.

Ma stranamente riuscii in quello che lui affermava fosse impossibile. In un momento di distrazione lo aggredii buttandolo a terra, poi come un codardo scappai. Era l'unica possibilità.

Mi salvai, certo, ma... con la mafia russa non si scherza. Mi vennero a cercare a casa, e per poco mia madre non rimase vittima di quel gruppo di delinquenti di cui precedentemente facevo parte.

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