Rebecca
Mi accesi una sigaretta. Da brava sportiva finora non avevo mai fumato se non una sigaretta ogni tanto. Aveva cominciato ad essere un vizio da qualche settimana... da dopo la cena aziendale. Mi sedetti sul bordo del marciapiede trascinandomi dietro la valigia, in attesa del prossimo autobus.
In sole due settimane erano cambiate un sacco di cose nella mia vita. Portai la sigaretta alla bocca e aspirai.
Federico dopo la cena era talmente ubriaco che si era addormentato in macchina e avevo dovuto sorreggerlo per le scale di casa. Gli tenni la testa mentre vomitava e lo misi a letto. I miei genitori, intanto, se ne stavano in salotto a sorseggiare vino rosso e ridere piano tra di loro. La rabbia, frustrazione e delusione che avevo represso tutta la sera aveva bisogno di sfogare. Li raggiunsi in salotto.
"Perché a lui, papà?" mi resi conto di avere le maniche del cardigan sporche del vomito di Federico e così lo sfilai.
"Come tesoro?" mi chiese lui bevendo un altro sorso di vino.
"Sai quanto ci tengo a lavorare nella tua azienda, è da quando sono bambina che..."
Mia madre rise, rise con quell'odiosa risata che sottende un povera idiota "Ma cara, Federico è un maschio. È ovvio che l'azienda sarebbe passata a lui".
Il cardigan mi cadde di mano e finì sul pavimento. Cercai negli occhi di mio padre una qualche emozione ma vidi solo freddo.
"E visto che Federico è un maschio sicuramente gestirà meglio l'azienda di quello che avrei potuto fare io?"
"Andiamo, non fare tante scene! Sono sicura che Fede sarà felice di farti lavorare al suo fianco"
Pensai che lo yoga avesse dato alla testa a mia madre. "Non puoi essere seria"
"Non usare quel tono" mio padre bevve un altro sorso di vino. Fu come se l'altarino su cui l'avevo messo crollasse in pochi istanti.
"Tu la pensi come lei..." mormorai "Tu eri il mio eroe, papà..." penso che più di ogni cosa mi abbia ferita la sua indifferenza. "Ora basta" esclamò mia madre "non discutere le decisioni di tuo padre riguardo la sua azienda".
"Bene. Troverò la mia strada da sola"
Mi voltai e mi diressi verso le scale. "Rebecca" mi madre urlò dalla sala "Cos'hai sulla schiena?"
Cazzo. Avevo tolto il cardigan. Mi voltai giusto in tempo per vedere l'espressione di disapprovazione di mio padre. L'unica altra volta in cui gliel'avevo vista era stato quando avevo dodici anni ed ero caduta da cavallo durante una gara di dressage ma, al tempo, aveva immediatamente cancellato quell'espressione e mi aveva abbracciata mentre piangevo sporca di polvere.
Da lì era stata guerra. Avevo deciso che se i miei genitori non credevano in me avrei fatto tutto da sola. Avevo trovato un lavoro in un piccolo ristorante abbastanza lontano da casa per non farmi vedere dai miei. Il mio obiettivo era mettere da parte qualche soldo prima di andare a vivere da sola. Visto che non potevo permettermi la retta della Bocconi, avevo richiesto il trasferimento in Statale senza che i miei lo sapessero.
Mia madre aveva deciso di lasciarmi fare. Semplicemente mi ignorava. Mio padre non lo vedevo quasi mai: lui usciva prima che io mi svegliassi e io rientravo a casa dal lavoro che già dormiva. Non uscivo più con Federico e i suoi amici. Lo evitavo per quanto lui cercasse di parlare con me.
Arrivò l'autobus e io spensi la sigaretta e presi la mia valigia. Mentre le porte anteriori dell'autobus si aprivano guardai il mio riflesso nel vetro: indossavo calze velate nere sotto un paio di shorts di jeans, una semplice maglietta grigia che mi lasciava fuori l'ombelico e la mia amata giacca di pelle. Quello era sempre stato il mio stile ma mia madre non l'aveva mai approvato. In genere mi nascondevo i vestiti i macchina e mi cambiavo in garage prima di uscire o rientrare a casa. Era stato bello uscire dalla porta principale vestita nei miei panni.
Timbrai il biglietto del pulman e presi posto vicino al finestrino, tenendomi stretta la valigia.
In sole due settimane non ero riuscita a mettere da parte i soldi per affittare un appartamento ma i miei genitori erano venuti a sapere del cambio di università. Penso gliel'abbia detto Federico. Mia madre mi aveva svegliata quella mattina su tutte le furie e mi aveva chiesto spiegazioni. Non ricordo di averla mai sentita urlare tanto. Mio padre, seduto in soggiorno, fumava un sigaro con la sua solita fredda indifferenza che ormai non mi toccava più.
Mia madre non mi aveva nemmeno dato il tempo di rispondere. Mi disse che era pronta ad assecondare tutti i miei capricci ma che non mi avrebbe mai e poi mai fatto lasciare la Bocconi per andare a studiare in Statale. Mi disse che avrebbe immediatamente chiamato il direttore e avrebbe sistemato ogni cosa quella mattina stessa. Le risposi di non scomodarsi. Da quel momento in poi non sarebbe più stato un problema suo. Preparai la valigia e me ne andai. La valigia, in realtà, era già pronta da qualche giorno. Mi ero preparata un piano di riserva nel caso i miei genitori mi avessero scoperta prima del tempo: la mia amica Sofia. Sofia era due anni più grande di me e ci conoscevamo fin da quando eravamo bambine. Le nostre madri erano state compagne di liceo e lavoravano insieme. I genitori di Sofia avrebbero voluto che lei diventasse medico ma Sofy non ne voleva sapere. Lei voleva studiare filosofia. Così se ne era andata di casa e ora divideva un bilocale a Milano con altri cinque ragazzi. Dopo questa sua decisione mia madre mi aveva vietato di frequentarla ancora ma io avevo continuato a vederla in segreto.
Quando le avevo spiegato la situazione, Sofy si era subito offerta di ospitarmi da lei: aveva detto che un posto per una settima persona lo si trovava sempre. Sarei potuta stare da loro finché non avessi trovato un posto mio. L'affitto che avrei dovuto pagare sarebbe stato irrisorio.
L'autobus fermò e salì una signora sulla settantina che prese posto di fianco a me. Mi rannicchiai vicino al finestrino.
La donna teneva i capelli bianchi perfettamente pettinati e portava un paio di grossi occhiali da sole. Se li sfilò non appena prese posto e li ripose accuratamente nella borsetta "Che grigie le giornate qua a Milano" non avevo di certo voglia di fare conversazione con una sconosciuta eppure la donna aveva usato un tono talmente affabile che mi spinse a risponderle con un sorriso. Non ricordo bene come successe ma finì che la signora Mafalda, così mi rivelò di chiamarsi, mi raccontò tutta la sua vita in un'opera a sei atti perché, come mi disse lei stessa, le donne non si accontentano mai del quinto atto.
Mentre la signora Mafalda parlava, la mia testa continuava a ripercorrere quella stessa mattina. Mentre finivo la valigia mia madre urlava come non l'avevo mai sentita fare. Mi strappava i vestiti di mano e io la ignoravo. Quando riuscii finalmente a chiudere la valigia, uscire dalla mia stanza e raggiungere il portone di casa, ad attendermi c'era Federico. Aveva gli occhi cerchiati da profonde occhiaie e i capelli scuri spettinati "Ti prego Bebe..." gli voltai le spalle e lui mi afferrò il polso. Cercai di divincolarmi ma la sua presa era troppo salda "So che sei stato tu a dire a mamma e papà che avevo richiesto il trasferimento in Statale!" ringhiai.
"Ti prego, sai che io non voglio l'azienda di papà. La puoi tenere, te lo giuro" non l'avevo mai visto così. Eppure invece che farmi tenerezza mi fece montare una rabbia cieca "Se davvero non vuoi l'azienda di papà, Federico, perché non ti sei opposto? Perché non hai detto nulla?" non riuscivo più a fermarmi "è da ventiquattro anni che sono gli altri a decidere per la tua vita e tu non fai nulla per cambiare questa cosa! Cazzo, Federico, cresci!"
Riuscì a liberarmi da lui e uscii di casa trascinandomi la valigia e sbattendo la porta. Finalmente libera.
La signora Mafalda scese alla mia stessa fermata e mi salutò con calore, augurandomi buona fortuna. Non ho ancora capito buona fortuna precisamente per cosa ma comunque ringraziai. Presi la metro e poi procedetti a piedi fino al palazzo in cui abitava Sofy. Non prendevo spesso i mezzi ma ero comunque abituata a prenderli da sola. Eppure, quella volta, essere sola mi pesò. Non mi sentivo euforica come mi sarei aspettata, mi sentivo amareggiata. Avrei pagato non so quanto per avere ancora la signora Mafalda seduta di fianco che mi raccontava della sua vita.
Non ero mai stata a casa di Sofia prima di allora. Il palazzo in cui abitava era grigio e anonimo proprio come me l'ero aspettato Doveva avere all'incirca otto piani. Citofonai. "Quarto piano" mi rispose una voce metallica. Niente ascensore... portai la valigia a mano su per le scale e arrivai al quarto piano con il fiatone. Sul pianerottolo ad aspettarmi c'era già Sofia. Sofia era più alta di me solo di pochi centimetri. I capelli biondi spettinati come sempre, gli occhi castani e il naso leggermente aquilino: non rientrava esattamente nei canoni di bellezza di Instagram eppure Sofy aveva una sorta di carisma che attirava immediatamente. Mi abbracciò stretta e mi fece entrare in casa. "Vieni Becky, gli altri sono tutti fuori almeno abbiamo tempo per parlare un po' e sistemare le tue cose".
L'appartamento era maledettamente piccolo. La cucina si affacciava direttamente sul salotto il cui unico complemento d'arredo era un divano con la copertura scucita. Contro ad una parete c'era anche un grosso armadio e per terra un vecchio televisore. C'era un unico piccolo bagno e un'unica camera da letto il cui pavimento era completamente occupato da due materassi matrimoniali. Altri tre materassi erano disposti contro il muro e la sera venivano spostati nel salotto. "Dormirai con me in sala e ti troveremo uno spazio per i vestiti nell'armadio. Vedrai che ti troverai bene" mi disse sorridendo.
Per la prima e unica volta sentii disperatamente la mancanza di casa e per la prima e ultima volta rimpiansi la scelta che avevo fatto ma non sarei tornata indietro, a nessun costo.
SPAZIO AUTRICE:
Hey Pupe/i !! La nostra Rebecca ha preso una decisione difficile: andarsene di casa... Riuscirà ad adattarsi a vivere con altre 6 persone?
Siete d'accordo con quello che Rebecca ha detto a Federico o secondo voi è stata troppo dura?
Fatemi sapere la vostra opinione lasciando un commento ;)
A mercoledì prossimo pupi/e
#TeamBecky
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