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La dura verità, dopo quello che per un attimo ho osato immaginare come l’apice emozionante della mia settimana, è che lo scaldabagno sta tirando le cuoia in via definitiva.
«Ma cosa ho fatto di male? Cosa?».
Ha dato i primi segnali solo un mese fa, mica un anno. Ora non posso fare a meno di chiedermi perché abbia tutta questa smania di accelerare la sua dipartita.
Se come temo dovesse lasciarmi nel giro di subito, visti i gorgheggi mostruosi e i fiotti di gelo che mi hanno costretta alla fuga, significa che dovrò rivolgermi a un idraulico e questo scherzetto potrebbe anche costarmi un paio di stipendi. A peggiorare il quadretto si aggiunge il fatto che novembre è quello con più spese in assoluto. Ovviamente...
Faccio mente locale e ripasso a voce alta la mia lista nera, contando le ielle sulle dita di una mano.
«... dunque: mutuo, assicurazione semestrale del furgone, materiale per i laboratori di scultura e...».
Se avanza qualcosa ci sarebbe anche da fare la spesa! Ecco.
Che gran brutto tasto. Solo i croccantini di Aria, rigorosamente light, costano più di venti euro al sacchetto e ne occorrono minimo quattro in un mese se non voglio sorbirmi i suoi guaiti notturni per colpa degli spasmi allo stomaco, poveretta.
In più ho la spiacevole sensazione di dimenticarmi qualcosa...
Con l’accappatoio ancora indosso e le infradito, esco di spinta dal bagno e percorro a lunghi passi il corridoio che mi divide dal laboratorio. Una volta lì, e oltrepassata la parete in vetro e ghisa che ne delimita lo spazio, mi accorgo che il cane è seduto in fondo alla stanza accanto alla sua statua ritratto – nella stessa identica posizione! – e non riesco a trattenere una risata.
«Hai senza dubbio bisogno di una distrazione, amica mia!».
La borsetta disintegrata di poco fa è l’ennesima dimostrazione di uno stato emotivo compromesso e credo proprio che prima della fine dell’anno faremo un salto al canile, io e lei, per cercare un compagno.
Mi chino alla sua altezza nel tentativo amichevole di attirarla a me, ma si limita a guardarmi e a scodinzolare sul posto, sollevando uno sbuffo di polvere bianca che le ricade sulla schiena nera e di colpo meno lucida.
«Vieni dalla mamma?», tento di nuovo. Niente da fare.
Quell’animale è l’unica nota di colore che si possa ancora distinguere in questo caos innevato. Colpa della polvere di gesso, insieme a quella di limatura, che ha coperto la stanza da cima a fondo. Il risultato è che finestre, pavimento e mobilia sono impregnate di uno strato bianco e secco che ne ha nascosto la tinta originale e le sculture sembrano scomparire nello spazio, sotto ai lenzuoli candidi. Insomma, allo stato attuale, non mi stupirei se qualcuno uscisse di colpo dall’armadio delle scope gridando “Sono a Narnia!”.
A parte ciò, io adoro questo posto. È proprio quella che in modo romantico si potrebbe definire una vera bottega d’artista, con tutti gli arnesi appesi alle pareti, i disegni, la generale e tollerabile noncuranza. Sarà anche tristemente fuori mano, come Emma dice spesso – del resto non posso permettermi altro che la periferia, al momento – impresentabile al genere maschile e cose così, ma almeno non ho nessuno tra i piedi, lei compresa. E poi non ho niente da dire, agli uomini.
Con pochi movimenti mi accosto alla vecchia credenza in cui conservo l’argilla nuova, do giusto un’occhiata e concretizzo all’istante le mie preoccupazioni. Dell’ultimo blocco da venticinque chili, inaugurato non più di una settimana fa, è rimasta una fetta ridicola dello spessore di un libro. Argh!
«Lo sapevo! Mi tocca aggiungere anche questa!», sbotto seccata. E non si tratta di un dettaglio marginale, perché non intendo rinunciarci. Piuttosto faccio a meno dei biscotti al caramello... Va beh, ci penso su.
Nell’ultima settimana ho dovuto realizzare tutti quei minuscoli vasetti commissionati dal museo per il Junior Lab. Il risultato è che adesso non è rimasto abbastanza materiale per realizzare niente di sensato: una scultura, un soprammobile, niente! Roba che se stanotte mi venisse una folgorazione di quelle belle – diciamo tanto innovativa da farmi raggiungere la Biennale di Venezia – e che per realizzarla mi occorresse con urgenza dell’argilla, potrei ritrovarmi con il filo d’acciaio teso tra le mani a decapitare uno dei mezzi busti già terminati. Tipo assassino seriale in uno di quei thriller alla TV. Con la stessa foga, perlomeno.
Un’altra grande stupidaggine, Giulia, complimenti!
Mi lascio alle spalle l’amarezza dei fallimenti di carriera e sbatto l’anta del mobiletto forse con troppa veemenza, perché Aria sobbalza come se avessero scoppiato un petardo. Faccio per prenderla e, questa volta, non oppone resistenza.
«Bravo cagnolino!», dico sollevandola a mezz’aria tipo vittima sacrificale. «Ma quanto sei lurida, però!?», aggiungo osservandole la pancia e le impronte imbiancate. «Sai che casino se ti lasciassi girare per casa conciata così? Altro che arte postmoderna!».
E lo stesso discorso vale anche per le mie infradito: dovranno restare in questa stanza o addio pulizie del salone. Non che per la cosa mi sbatta particolarmente, ma visto che domani è sabato e passerà Emma per la consueta visita settimanale – Miss Fighettina Perfettini – ci manca solo che mi senta dire che vivo in mezzo al lordume, tipo i maiali. Anche no, grazie.
Quando ci ritroviamo in salone e le zampe di Aria sono linde, il peso frustrante dell’insoddisfazione è ancora troppo vivido per lasciare che si trasformi in rassegnazione. Devo porvi rimedio.
«Senti», mi rivolgo alla sua schiena. Tanto non fa differenza. «Io avrei ancora bisogno di una coccola. Che ne dici se ordinassimo una pizza da asporto? Una cosa leggera tipo... salamino piccante», aggiungo picchiettandole la coda a mo’ di battipanni. Mi sembra ancora un filo impolverata. Infastidita dalle mie percosse, Aria scatta in un lampo nel tentativo di azzannarmi le dita.
«Ahi! E comunque un lieto fine lo pretendo, okay? Penso di meritarlo. Ho lavorato come un cane tutta la sett...». Incrocio lo sguardo, per un attimo attento, della mia unica, vera, compagnia e smetto di dire scemenze.
«Scusa», le rivolgo pentita, edulcorando il momento con una grattatina al muso.
Getto un’occhiata all’orologio sulla parete. «Sono già le sei e mezza?!», e mi rendo conto che se non mi sbrigo a chiamare la pizzeria, questa sera finirà molto peggio di come si è, ahimè, delineata.

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