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9


Ogni buca la sballottava fra i cassoni. Attutire i colpi non era la parte peggiore; la parte peggiore era farlo in silenzio. Elliot era riuscito a farla salire sul camion poco prima che partisse. L'esiguo margine temporale non le aveva concesso di scegliere un luogo più confortevole di quello accapparatosi. Dovendo stimare i danni, arrotondava per eccesso i lividi. Ci avrebbe pensato dopo. Adesso tutto il suo corpo, ogn fibra di esso, era incaricato all'ascolto. Le voci ovattate dei militari giungevano discontinue, allarmandola ad ogni silenzio. Nella concitazione del momento, aveva dimenticato di informarsi sui particolari logisitici. Poteva orientarsi solo in base all'orologio legato al polso, ma calcolare il tempo serviva a poco se non conosceva la durata del tragitto. Il rumore dei clacson le suggeriva di mettersi in guardia: non mancava molto. Una volta sopraggiunti al quartier generale, doveva sgattaiolare fuori rapidamente e darsela a gambe prima che qualcuno la notasse. Si posizionò più vicina all'uscita. Aveva già sbottonato le ultime due asole, costruendo una via di fuga rapida e sicura. Sbirciò da sotto il telo verde. Riconosceva il profilo afflitto della città, ma nessun punto cardinale che l'aiutasse. Improvvisamente il camion decelerò. Una voce non troppo lontana ordinò di fermarsi. Dovevano aver raggiunto la destinazione. Quello era il momento propizio per scendere e correre. Attese che le ruote rallentassero fino a passo d'uomo, quindi abbandonò  il nascondiglio con un balzo goffo. Barcollò e imprecò, ma riuscì a correre verso la città prima che qualcuno la indivduasse. Era già più di quanto si aspettasse. Solo ora, che i suoi piani non erano stati sventati dall'inesperienza, la sua avventura cominciava.  

La prima tappa prevedeva il mercato nero. Era certa ve ne fosse uno, ma non sapeva ancora dove. Trovarlo non sarebbe stato semplice, ma neanche impossibile. Ance attraversare il muro le pareva impossibile qualche settimana prima, adesso camminava assieme agli abitanti di Island Side. Seguì le strade periferiche fino a riversarsi in un centro abitato. Un vecchio bus scalcinato e gremito la condusse in centro. Gli odori di scarico pungevano violentemente le narici; la cortina nebulosa pizzicava gli occhi, eppure la ressa pareva non accorgersene nemmeno. Ciò che invece catturava la loro attenzione, erano le braccia esposte di Camila. Si rese conto che quasi tutti indossavano un cappello e nessuno lasciava indifesa la pelle. Srotolò le maniche della felpa fino ai polsi e issò il cappuccio sopra la testa, confondendosi nella moltitudine. Così conciata nemmeno suo padre l'avrebbe riconosciuta, anche se ultimamente faticava a riconosceral e basta.

Camila indentificò alcune strade percorse con Lauren, ma non avrebbe saputo connettere i punti e tornare all'edificio. Era ancora presto, comunque. Doveva prima scambiare la statuetta con un bouquet di contanti. Non aveva contatti o agganci, non sapeva niente di quel Mondo e tantomeno di come vincerlo. L'unico posto dove poteva sperare di ottenere informazioni, era una taverna. Anche i lavoratori più stanchi accettavano una bevuta in compagnia. Ed era lì che si stava dirigendo.

Il primo bar aperto che incontrò sulla sua strada fu quello che scelse. Uomini e donne ciondolavano sui tavoli. Solo in pochi riuscivano ancora a spicciare parola, gli altri o non avevano proprio iniziato o avevano finito dopo il secondo boccale. Camila perlustrò sommariamente l'interno, poi si avvicinò al bancone. Il barista la squadrò da capo a piedi; conosceva tutti nella zona, ma non lei.   

«Una birra.»Si impegnò per risultare il più scostante possibile.  

«Mh-mh.» L'uomo la spiava con la coda dell'occhio mentre rabboccava il bicchiere fino all'orlo. «Ecco a te, signorina.» Le mise la bevuta sotto al naso, adagiando i gomiti sul bancone. «Sei nuova, vero?» Inclinò il capo per guardarla meglio. 

Camila alzò solo fugacemente lo sguardo. «Qualcosa del genere.»

«Qui ci conosciamo tutti.» Oscillava il grosso capo da una parte all'altra, come se ancora dovesse decidere se crederle o meno.

«Già, ho notato.» Abbozzò un sorriso. L'uomo non aveva ancora terminato la disamina, dunque Camila tentò di persuaderlo bagnandosi le labbra con la schiuma della sua birra. Non subito, ma poco dopo sembrò funzionare.

«D'accordo, allora benvenuta nel quartiere...»

«Karla.»

«È un piacere, Karla. Adesso sei parte della famiglia anche tu!» A quel richiamo roboante, tutti i presenti si sforzarono di innalzare i boccali in un brindisi. Camila ringraziò con un sorriso sghembo, ricmabiando il gesto. 

Il barista tornò alle sue faccende, ignorandola. Camila si guardò attorno. Era davvero una buona idea affidarsi a degli sconosciuti? Non che Lauren beneficiasse di una confidenza maggiore, ma quelle persone si spaccavano la schiena giorno dopo giorno per guadagnare un tocco di pane, mostrargli un oggetto tanto prezioso poteva essere un rischio troppo alto, sopratutto per Camila, che come arma difensiva possedeva solo un libro. Quello che le sembrò più saggio fare, invece, fu chiedere indicazioni. 

«Mi scusi,» richiamò l'attenzione del barista. «Devo raggiungere un edificio.»

L'uomo corrugò la fronte.

«Era un edificio...ehm... Alto. Sicuramente alto e... Si, insomma, ci vivono tante persone. Una di loro si chiama Lauren ed io...»

Colpì il bancone con forza, pietrificando Camila in un sussulto. «Fa' silenzio, vuoi farci ammazzare tutti?!»

La ragazza inarcò un sopracciglio, farfugliando scuse per non sapeva bene quale ragione.

«Potevi dirlo subito.» La redarguì. Si guardò attorno con fare sospettoso. «Non puoi parlare così apertamente di queste cose, ragazzina.»

Camila aprì la bocca per protestare, ma nessun suono si manifestò. Era confusa. «Mi scusi, io...»

«Non so chi ti abbia mandato qui, avevo detto a Normani che mi tiravo indietro.» Si massaggiò la folta barba, contemplando errori di cui Camila non sapeva niente. «D'accordo, ma questa è l'ultima volta. È troppo pericoloso continuare questo gioco.» La fissò come per avvisarla di comunicare il suo verdetto, una volta raggiunta la meta.

Camila annuì flebilmente.

«Va bene. Per arrivare all'edificio devi attraversare il sotto passaggio e poi allontanarti dal cantiere. Ti troverai davanti ad una porta anticendio. È lì che devi entrare.»

Camila appuntò mentalmente tutte le direttive. «Grazie,» disse infine, calando una cospicua mancia sul bancone.

L'uomo le afferrò il polso prima che si allontnasse e l'avvicinò a sé. Camila trattenne il respiro, pregando di non aver fatto nessun passo falso. «Sei sicura di cosa stai facendo, ragazza? I controlli sono incrementati e nessun ribelle viene risparmiato. Unirsi alla resistenza è come scommettere contro la propria vita ogni giorno.»

Resistenza. Si rigirò quella parola in bocca, ne assaporò il gusto, ne immaginò le sfumature. Le balenò in mente il ritratto appeso alla parete del palazzo ed i suoi occhi si adombrarono: «Solo resistendo possiamo chiamarla davvero vita.» Gli dedicò un sorriso incoraggiante, poi si liberò dalla presa e lo ringraziò un'ultima volta prima di uscire dal locale. 

Il tepore del primo pomeriggio riscaldava solamente la sua impazienza. Elliot avrebbe cambiato turno alle undici di sera. Doveva finire ciò per cui era venuta prima di allora. Si mise subito in cammino, mantenendo gli occhi bassi e le orecchie dritte. A quanto pareva non stava sfidando solo suo padre, ma un intero esercito.

                                         *****

L'enorme edificio di fronte ai suoi occhi appariva più dismesso e stanco. La parete dilaniata dal tempo e dalle pallottole non appariva sicura per proteggere un intero sistema clandestino. Camila inspirò profondamente. Quello fu l'unico momento di quiete dopo tutto il trambusto della mattinata in cui si fermò un attimo a riflettere. Ad un passo dall'obiettivo, si domandò se non fosse il caso di fare dietrofront e tornare alla sua comoda vita a River Side. Ma neanche l'egida del palazzo la difendevano dal piombo della vigliaccheria. Non c'è pace per chi combatte una guerra personale.

Raccolse tutto il coraggio che dubitava d'avere, ma che al contempo l'aveva condotta fin lì e spinse il maniglione anticinedio. Il primo piano era deserto, come ricordava. Clandestini si, ma non stupidi. Solo polvere e cenere restava adagiata sul pavimento. Camila si sporcò la punta delle scarpe mentre imboccava l'unica rampa di scale a sua disposizione. Se avesse avuto un'arma avrebbe stretto quella, ma essendone sprovvista si contentò dei suoi stessi palmi. Svoltato l'angolo un'altra porta si affacciò alla vista. La ricordava. Un ricordo sfocato, come il martellante dolore alla testa di quella sera, ma non del tutto svanito. Fece un ultimo passo e vi si ritrovò davanti. Il respiro le arrivò amplificato alle orecchie. Il sangue reale animava un cuore ribelle.

Allungò una mano trattenendo il fiato, ma prima di lambire la maniglia l'uscio venne spalacanto dall'altra parte. Il fucile fu la prima cosa che notò. Stavolta nessun espediente poteva salvarla, solo la verità.

«Che cazzo ci fai tu qui, stronza?» Caricò il colpo in canna, tremando furente. Ricordava a malepena la ragazza dietro il grilletto. Il nome le sovvenne solo perché il barista lo aveva menzionato poco prima. Normani. Non ne era certa, ma non vi erano nemmeno troppi dubbi che fosse lei il braccio destro di Lauren. Lo stesso braccio con cui la teneva sotto tiro.

Camila non alzò le braccia. Se avesse mostrato timore, le avrebbe dato un motivo in più per dubitare. «Sono qui per vedere Lauren.»

La ragazza sogghignò sardonica: «Levati dalle palle prima che ti apra il cervello con una pallottola.»

«Sono venuta a darle cosa le spetta.» 

«Porca troia,» sibilò a denti stretti, avanzando un passo deciso: adesso la canna del fucile respirava nel suo respiro. «Prima la prendi per il culo, poi torni qui, alla base generale, a scondizolare? Non abbiamo bisogno dei tuoi soldi né della tua compassione. Vattene!»

Camila occhieggiò il fucile sotto il suo naso. Non poté fare a meno di pensare che quelle sarebbero potute essere le sue ultime parole. «Voglio parlare con Lareun.» Ribadì impenitente.

«Cazzo ed io che pensavo fossimo noi gli imbecilli.» Ridacchiò. «Non parli la nostra lingua, principessa?» L'epiteto la fece rabbrividire. Normani voleva solo infastidirla, perché se avesse saputo quanta verità vi era nella sua provocazione avrebbe già premuto il grilleto. E non una volta sola. «Devi andartene. Non parlerai con un cazzo di nessuno. Qui non stiamo agli ordini vostri, ti è chiaro o devo fartelo capire diversamente!?» Sbraitò con gli occhi iniettati di sangue.

«Ok, basta. Basta.» Una ragazza accorse attirata dallo scompiglio. «Abbassa l'arma, Normani.» L'affiancò lentamente, con cautela. 

«Col cazzo, Dinah. Non rompere le palle, cazzo. Non capisci cosa sta succedendo qui? Siamo comrpomessi, porca di quella puttana. Compromessi!»

«Nessuno è compromesso, va bene?» Lanciò un'occhiata a Camila. Non era rassicurante, ma era lo sguardo più dolce che aveva incontro fino ad allora. «È solo una ragazzina viziata che ha bisogno di dimostrare a sé stessa di essere migliore dei suoi genitori.» Come darti torto, pensò Camila.

«Non me ne frega un cazzo! Non deve venire qui, non deve entrare qua dentro!» Forse fino ad allora era stata l'unica a non capirlo, ma adesso lo intuiva: la reazione della ragazza non era normale. Il sudore sulle tempie, il tremolio nei polsi, i denti digrignati come un cane rabbioso... La malattia doveva averla colpita. Quel pensiero le fece abbassare lo sguardo. Non aveva più paura, ma solo pena, ma farglielo notare sarebbe stata la sua fine.

«Normani,» la ragazza intervenuta in suo soccorso si interpose fra lei e il fucile. Abbassò la voce, sussurrano solo per l'amica: «Ascoltami. Se vuole parlare con Lauren, è solo un bene, d'accordo? Lauren è infuriata con lei, l'allontanerà una volta per tutte. E ci gudagneremo anche qualcosa.» Le strizzò un occhio dedicandole un sorriso affabile che forse aveva qualcosa di più di amichevole.

«Troppo tardi, troppo tardi...» Ripeteva senza senso, ma pian piano riacquisiva colore in volto.

«Va tutto bene. Ti fidi di me? Ti fidi di Lauren? Ecco, allora va bene. Tutto ok...» Le sfilò l'arma dalle mani, passandola ad un altro ragazzo giunto di soppiatto alle loro spalle. «Visto? Tutto ok.» Camila registrò anche da dietro le spalle sgonfiarsi di sollievo. Dinah carezzò le spalle tese della ragazza, fino a scioglierne i muscoli. Gli occhi dapprima indemoniati tornarono lentamente al colorito naturale. Normani si guardò attorno più atterrita che spaesata. Non era la prima volta che succedeva, ne era sicura dal pentimento nel suo broncio.  

«Va tutto bene. Prenditi un po' d'acqua, ci penso io qui.» La confortò Dinah. Normani si allontanò sconsolata, dimentica anche della presenza di Camila. Non aveva tempo nemmeno per pensare a lei. 

Dinah la osservò finché non fu assieme ad altri ragazzi, dopodiché si voltò verso Camila. Non avevo uno sguardo cupo, ma nemmeno benevolo. «Non dovresti essere qui.»

«Lo so, mi spiace...» Scosse la testa Camila, disorientata da tutti gli avvenimenti della giornata.

Dinah sospirò sonoramente: «Maledizione, ragazza.» Fece una pausa. «Lauren non sarà contenta di vederti.»

«Lo so, nemmeno io.» Azzardò.

Dinah si feste sfuggire un sorriso malcelato. Forse l'avevano sottovalutata. «Sarà più difficile restare in piedi di fronte a Lauren che ad un fucile.» L'avvisò, forse più per constatare la sua determinazione che per dissuaderla dai suoi propositi.

«Almeno che il fucile non sia io.» L'espressione da leonessa, ma il cuore da gazzella. Ecco come si sentiva, ma poco importava: Dinah aveva sorriso una seconda volta, dunque l'aveva convinta... O quasi.

Annuì fra sé e sé. «Andiamo,» la sollecitò superandola: «Ti porto da lei.»

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