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Sotto le divise militari battevano più cuori ribelli di quanto credesse. Era grazie ad uno di loro che era riuscita a tornare dall'altra parte del muro senza intoppi. Lauren non le aveva rivelato l'informazione prima perché temeva la potesse utilizzare contro di loro, ma adesso i termini erano cambiati.

Lauren non aveva preso nessuna decisione in merito alla richiesta di Camila, solo perché il caso richiedeva più di un "si" o "no". Molti ragazzi le erano grati per tutto l'aiuto ricevuto, ma molti altri pensavano di prenderla in ostaggio come prova dimostrativa contro River Side. Normani era fra questi. Lauren aveva indetto con un'assemblea, in cui si sarebbe deciso il destino della ragazza. Camila avrebbe accettato di buon grado qualsiasi verdetto, perché in fin di conti, in uno o l'altro caso, sarebbe comunque rimasta dalla parte dell'isola che preferiva. E anche perché nessuna minaccia l'attendesse poteva essere peggiore che discendere da suo padre.

La settimana aveva svolto quietamente il suo corso. Tutto era quieto, fuorché dentro di lei. Una rivolta imperversava fra le forze della volontà e quelle della moralità. Non l'appesantiva lasciare tutti i comfort di cui era circondata fin da piccola, ma la preoccupava essere sola. Non avrebbe avuto più nessuno. Certo, i ribelli l'avrebbero accolta -forse-, ma nessuno di loro l'avrebbe accettata tanto da integrarla. Avrebbe perso i pochi amici che aveva avuto. Suo padre l'avrebbe vista come tutti gli altri: una suddita. La ribelle indesiderata, la figlia di nessuno. Malgrado ciò, preferiva perdere tutto che possederlo a discapito degli altri. Meglio essere la figlia rinnegata, che la figlia del Re.

Durante quella settimana aveva tenuto d'occhio l'obiettivo da vicino e Island Side da lontano. Trascorreva gran parte della giornata ad origliare le conversazioni di suo padre, sperando di udirne una, prima o poi, utile allo scopo. Non avrebbe concluso niente senza un punto d'inizio. Alla sera si acciambellava davanti alla finestra e saltava da un albero all'altro, fino a planare sopra gli edifici grigi della città al di là del muro. Era stato suo padre a issarlo, ma era stato il suo stesso nome a concepirlo. Prima di lei non esistevano confini, ma i poveri sì. Saccheggiavano i ricchi, derubavano le proprietà le sopravvivere; la malattia dei primi contagiati rendeva ogni passo insicuro. La morte si nascondeva dietro ogni angolo, così erano state stilate le prime misure di sicurezza e poi erano state rinforzate, e rinforzate, e rinforzate... Prima o poi si sarebbe giunti a quella drastica soluzione, ma il fatto che si fossero convinti il giorno della sua nascita la macchiava di un peccato indelebile. Se irrimediabile fosse solo per lei o per gli altri, non lo sapeva. Ma lo avrebbe scoperto presto. Non era certa di quando, ma il momento sarebbe arrivato. Lei l'aspettava al varco: la resa dei conti.

Quel pomeriggio ciondolava per il palazzo apparentemente annoiata. In realtà teneva orecchie drizzate e vista affilata, per non trascurare alcun particolare. Suo padre era in riunione con degli esponenti militari. Uno di loro aveva la "R" dove Lauren le aveva indicato. Camila tratteneva malamente l'adrenalina. Finalmente uno spiraglio di luce, una possibilità di avvicinarsi all'obiettivo finale.

Le scale del palazzo si aggrovigliavano lungo lo scheletro dorato, conducendo a enormi stanze o piccoli nascondigli. Camila non seguiva l'ossatura delle grandinate però; avvolgeva il filo dei bisbìgli serpeggianti lungo i corridoi. Le guardie parevano statue di sale: impassibili ma impietose. Camila non faceva caso a loro, non a quelle che non potevano precluderle l'accesso alle stanze: non più di una manciata. Suo padre aveva accolto il consiglio nella stanza dell'Elmo. Camila sapeva bene cosa fare. Quanti giorni aveva speso ad origliare le conversazioni, divertendosi a non essere mai scoperta. Una formica a palazzo. Adesso era un po' cresciuta per far passare inosservati i suoi giochi, ma aveva un'idea anche per quello.

La parete accanto alla stanza dell'Elmo era quella della quinta cucina del palazzo. Attraverso un bocchettone con cui si disperdevano i fumi, si creava anche una via diretta per la sala attigua. Quando aveva sette anni non credeva che un giorno l'avrebbe usata per giocare la partita più importante della sua vita. Allora voleva solo distrarsi, ora voleva solo vincere. Gli impiegati stavano cucinando la cena per il Re. Si corrucciarono tutti vedendo un dipendente senza grembiule, ma sgranarono gli occhi quando intuirono il motivo.

«Principessa... Ah, va tutto bene?» Domandò il cuoco, sfrigolando con le parole più del soffritto.

«Si,» non aveva avuto tempo di accampare nessun espediente, presa com'era dallo stringere del tempo. «Ah... Hanno bisogno di voi alla cucina uno.» La più lontana. «Tutti voi.» Deglutì. Non ci avrebbe creduto nemmeno lei, ma nessuno voleva contraddire la figlia del Re. «Subito, subito.» Accelerò i tempi, sollecitando tutti ad abbandonare temporaneamente i loro compiti. La cucina fu sgombra in due minuti.

Si precipitò verso il suo angolo segreto. Avevano tolto il mobile su cui si arrampicava. Grugnì. Afferrò la prima sedia vicina e si elevò su di essa per arrivare all'altezza desiderata. Le voci si confondevano con l'odore stantio del condotto inutilizzato. Quella di Alejandro la investì come fumo.

«...Ottimo, rafforzeremo le difese e incrementeremo le provviste per i nostri accampamenti.»

«Sire, dovremmo sgombrare il sito 47 prima che qualcuno si introduca all'interno per accaparrarsi le ultime scorte.» Non riconosceva il tono baritonale.

«Il prima possibile.» Acconsentì Alejandro, talmente avido da non lasciare nemmeno le briciole a Island City.

«Poi c'è da risolvere la questione del laboratorio Remax a Est.» Bingo! Si sporse ancora di più, incollando l'orecchio alle aperture. In punta di piedi sulla sedia, traballante come il destino contro cui andava.

«Che accade?!» Il vocione indispettito di Alejandro non era per i problemi da risolvere, ma per il ritardo nel segnargli.

«Uno dei nostri scienziati è sospettato di tradimento.» Il brusio strisciò anche per il condotto. Di qualsiasi reato, quello era il peggiore, perché a giudicarlo era proprio Alejandro. E non aveva mai risparmiato nessuno. Nemmeno te, la pungolò il suo subconscio. «Pare che il dottor.Slavik stia distribuendo dosi avanzate ai cittadini di Island City. Che cosa suggerisce di fare?»

«Che cosa suggerisco?! Razza di imbecilli, avreste già dovuto ucciderlo. Al termine di questo consiglio, rimedi ai suoi errori!»

«Sissignore. Inoltre avremo...»

La voce alle sue spalle fu più veloce di quella be nel condotto. «Signorina?»

«Cazzo!» Imprecò sbattendo la testa contro il soffitto.

«Oddio, sta bene?»

Camila si massaggiò annuendo. Rose era accigliata, ma anche visibilmente preoccupata. Perché la principessa parlava con un bocchettone?

Camila si precipitò verso di lei, accrescendo la dilatazione delle sue pupille. Le tappò la bocca con la mano, supplicandola più che intimandola di tacere. «Rose...» Oltre ad avere il fiato corto era anche a corto di spiegazioni. «Ti prego, non... non dire niente.» Mormorò, deglutendo.

Rose teneva le palpebre sbarrate, ansimando nel palmo della ragazza. Camila la liberò dalla presa, rassicurandola: «Non voglio farti male, scusami.» Abbassò lo sguardo. A quanto pare chiunque la vedeva incapace di essere diversa da suo padre. Di quello si vergognava profondamente. Sperava di essere ancora in tempo per guardare qualcuno negli occhi senza intimorirlo.

«Sto.. sto ascoltando...» Ammise facendo nervosamente spola tra lei e il bocchettone.

«Signorina,» il respiro si era leggermente assestato, ma i pensieri per niente, «se il Re lo scoprisse...»

«Lo so, lo so.» Scosse la testa negando sia la possibilità che le sue probabili conseguenze. «Infatti non deve saperlo.» Scandì ogni parola trafiggendola con gli occhi.

Rose annuì fievolmente. Non comprendeva cosa stesse accadendo, ma in qualche modo sentiva che non era niente di buono. Camila era sempre stata diversa, incapricciata col Mondo per averle donato tutto ma non una vita sua. Lo sapeva che prima o poi se la sarebbe presa da sola, ma non immaginava come. Nemmeno ora riusciva a figurarselo, ma iniziava a preoccuparsene. Camila era una principessa, ma non era mai stata una reale, per questo le voleva bene davvero. E per questo temeva davvero: quanto tempo sarebbe passato prima che anche il Re se ne accorgesse?

«Adesso devo andare.» Bisbigliò come un genitore che si raccomandava ad un bambino.

Rose annuì nuovamente. L'addensarsi della paura nelle sue pupille ingrossate, scosse Camila. Un altro motivo per ritenere di fare la cosa giusta. Non importava se lei non aveva mai fatto del male a nessuno, era figlia di suo padre e come tale poteva solo ferire, agli occhi altrui.

Camila l'afferrò gentilmente per le spalle, ma con presa salda, e legò i loro sguardi insieme: «Rose,» voleva tramandarle la scintilla vigorosa della sua anima, ma non aveva né tempo né mezzi. Riassunse ciò che le veniva dal cuore incendiato in un'unica fiamma: «Resisti.»

«A cosa, signorina?» Parve sorpresa, ma non spaesata.

«Arriverà la fine.» Le garantì, poi si involò verso le scale, lasciandola a fare i conti col rebus.

Non aveva molto tempo. Indossò degli abiti comodi e uno zainetto vuoto; poteva servire per raccogliere prove o medicine: l'una più vitale dell'altra. L'affanno non era dovuto alla fretta, ma non vi si soffermò. Imboccò la strada per la sua uscita segreta.

Stavolta aveva un presentimento imponderabile. Niente sarà più come prima, come se la vita non fosse cambiata già abbastanza.

Prima di metter piede fuori dal perimetro, Camila si voltò a guardare il profilo del palazzo. Era un addio. Stava oltrepassando un confine più intransigente del muro: quello della verità. Adesso erano in lotta i loro ideali, ma ben presto si sarebbero irrimediabilmente odiati. Un cuore sporco di fango non può camminare su un pavimento lastricato d'oro; era pronta a scoperchiare il vaso di Pandora e scoprire cosa si nascondesse sotto sotto la gonna del palazzo.

Scavalcò la recinzione, attendendo l'arrivo dell'uomo in divisa. Era accompagnato da una macchina dell'esercito, dunque lei prese un taxi. All'autista non importava niente di dove andassero, sperava solo fosse lontano. Camila aguzzava la vista ogni volta che la macchina blu svoltava l'angolo, chiedendosi quale sarebbe stato l'ultimo. Il tassista sbuffava sommessamente, occhieggiando lo specchietto circospetto: sembrava troppo giovane per pagarlo.

«Signorina, la corsa si sta allungando...» Disse, ma Ticchettando sul parchimetro, come a dirle che non erano i chilometri il problema.

Camila, senza distogliere lo sguardo dalla strada, si sporse in avanti sventolando una mazzetta di banconote. Non aveva vissuto molto nel mondo, ma conosceva i suoi usi e costumi. L'uomo impallidì, farfugliando scuse vane e inascoltate. Finalmente la macchina posteggiò e il militare in divisa scese senza ringraziare. Camila stava per compiere lo stesso errore, quando l'autista le comunicò la tariffa. Lo retribuì senza protestare. Erano più soldi di quanto gli spettassero, ma non le importava: all'inferno si commercia in peccati, non in denaro.

Pedinò furtivamente l'uomo fino all'entrata in un edificio di vetro. Alzò lo sguardo. Nessun nome campeggiava sulla vetta, solo il simbolo dell'esercito unito a quello della famiglia reale. Riconosceva solo il berretto dell'uomo, serpeggiare fra la folla all'ingresso. Camila lo vide salire in ascensore e scomparire. I controlli non venivano effettuati, dovunque la sede non raccoglieva solo i laboratori, bensì li nascondeva. Chissà quanti dei dipendenti sapevano che al piano sotto al loro comodo ufficio morivano delle persone. Una era già nel mirino per la pausa pranzo. Camila era decisa a impedirlo, ma non aveva molto tempo. Si introdusse all'interno, mimetizzandosi con gli altri. Fu una dura battaglia fra gomitate e spallate, ma si fece strada fino all'ascensore. La tastiera non presentava alcuna anomalia. Merda. Le occhiate guardinghe l'affrettarono. Pigiò il numero 4, casualmente.

«Primo giorno.» Disse a mo' di scuse, ma nessuno le sorrise.

Le porte si spalancarono via via, aprendosi infine al suo piano. Uno sfilza di uffici presidiati da una receptionist si materializzarono davanti ai suoi occhi. Piano sbagliato, pensò, ma per non dare nell'occhio scese comunque. La donna al bancone le sorrideva smagliante, inquietandola. Camila si avvicinò senza avere idea di cosa dirle.

«Buongiorno.» Cominciò tentennando. Aveva poche informazioni, ma l'unica a sua disposizione la usò. «Sto cercando il dottor. Slavik.» Ti prego non mi uccidere, ti prego non mi uccidere...

«Oh, che peccato!» Dovrò staccarti la testa con questi denti perfetti. «Ha sbagliato piano.» Camila tirò un sospiro di sollievo.

«Mi dispiace, ho dimenticato...» Gesticolò senza saper cosa addurre.

«Deve scendere al -1. Buona giornata!» Sbandierò la mano come un lenzuolo al vento, facendo impallidire Camila come un lenzuolo.

La ragazza si precipitò da dove era venuta e si assicurò di non sbagliare stavolta. Meno uno, sottoterra. Emblematico, ma per niente consolante.
Era nata tre spanne sopra al mondo, ma per vivere doveva scendere nei suoi meandri.

L'ascensore accompagnò prima tutti gli altri dipendenti e poi invertì la rotta, discendendo verso il basso. Il trillo annunciò l'arrivo. Camila sollevò timorosamente lo sguardo. Al posto di "-1" era apparsa una "R" scarlatta. Inspirò profondamente. Non poté fare a meno di pensare che quella era l'ultima occasione per retrocedere; bastava un passo non tanto per superare un confine, quanto per segnarne uno nuovo. Camila trattenne il respiro varcando la soglia. Attese l'inevitabile a pugni chiusi e occhi aperti, ma niente la investì. Trasalì al trullo dell'ascensore, guardando la sua possibilità di cambiare idea chiuderle, letteralmente, le porte in faccia. 

Deglutì concentrandosi sulla respirazione. Poteva farcela. Era arrivata fin lì, aveva già dimostrato a sé stessa di poter essere più che una marionetta nelle mani del Re. Mosse prudentemente un primo passo, senza conoscere la direzione giusta da prendere. Il corridoio non mostrava differenze. Tutte le porte erano bianche e chiuse. Il silenzio dietro di esse l'agghiacciava. Dopo ciò che aveva visto ad Island Side, le sue fantasie erano divenute più macabre della realtà. Ma in quel luogo nessuna realtà da lei conosciuta sussisteva.

Prima di girare l'angolo, si accertò di essere in sicurezza. Due soldati camminavano parlottando, ma si dirigevano nella direzione opposta. Camila sfruttò il momento per imboccare il corridoio da dove erano venuti. L'architettura si ripeteva. Tutto era asettico e sterile, impossibile da distinguere per un estraneo. E forse era proprio ciò che volevano. Alcune voci, però, adesso erano appena udibili. Provenivano ovattate, lontane quanto un altro mondo; quello dove stava entrando. Un dottore uscì improvvisamente da una porta. Ebbe a malapena il tempo di nascondersi all'interno di un ufficio prima di essere colta in flagrante. Attese qualche attimo. Riempì i polmoni d'aria, stringendo con forza la maniglia.

«Esperimento numero 5.» Una voce alle sue spalle la fece sobbalzare. Non c'era nessuno nella stanza, ma dall'altra parte del vetro sì. «Soggetto numero 167.» L'uomo notato poco prima adesso sostava all'interno della camera bagnata di luce.

Camila si approssimò a piccoli passi, temendo di essere vista, ma ormai aveva capito di essere protetta da un vetro oscurato. Evidentemente chi assisteva da quella parte non doveva essere visto. O non voleva.

«Tre ripetizioni di radiazioni sulla cute, due sulla spina dorsale.» Le direttive giungevano meccanicamente attraverso un interfono, inquietando maggiormente l'aria.

Il dottore schermava il paziente. Era visibile solo una mano, continuamente in contrazione. Apri, chiudi. Apri, chiudi. Camila strizzò gli occhi, ormai talmente vicina al vetro da poterlo infrangere con un respiro.

«Diamo via alla macchina, dottor.Slavik.» Stavolta l'uomo si voltò verso di lei, ma ovviamente nessun comando venne eseguito.

«Dottore, si sente bene?» Chiese l'uomo. Il silenzio perseverava. «Dottore?» Si approssimò al vetro, picchiettando con le nocche su di esso. «Mi aspetti qui, vado a controllare sia tutto nella norma.» Disse rivolto verso la sua assistente, tacitamente ossequiosa.

Camila attese che l'uomo si allontanasse per avere una visuale limpida sul paziente. Voleva capire cosa stessero facendo là dentro, ma la posizione distesa del soggetto non permetteva un'ampia prospettiva. Camila si sporse fino a schiacciare la fronte contro la lastra fredda. La ragazza legata e distesa sul lettino issò di scatto il capo, senza preavviso.

Camila perse il respiro barcollando fino a cadere all'indietro. Il suo cuore voleva schizzare fuori dal petto. Anche lo stomaco era in rivolta. La testa le pulsava, assediata da sangue e ricordi, entrambi ribollenti.

Era stato un secondo, giusto il tempo per vedere il suo volto contratto, i denti digrignati e gli occhi svuotati... Ma era stato abbastanza per riconoscere sua sorella al di sotto.

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