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Non riconosceva la stanza, ma l'odore era lo stesso: stantio e rarefatto. Se volevano avere una speranza contro l'esercito, potevano solo tenere un profilo basso e finestre chiuse. Anche aprendole, comunque, non c'era mai aria buona da far entrare. Iniziava a dubitare che in quel posto vi sopravvivesse anche una sola cosa buona. I passi pesanti di Normani le tolsero ogni dubbio.

La ragazza entrò senza bussare e senza guardarla tirò dritto verso la scrivania. Poggiò gli antidolorifici, i pochi che restavano, bofonchiando fra sé e sé. Camila non si aspettava delle scuse, ma nemmeno che a doverle porre dovesse essere lei. Dallo sguardo truce della ragazza si evinceva questo.

«Sia chiaro una cosa.» L'avviso risuonò come una minaccia. «Fosse stato per me, ti avrei lasciato a contorcerti al suolo.» Non impungava nessun fucile stavolta, ma incuteva lo stesso terrore.

Camila non raccolse la provocazione. Aveva già troppi nemici, cominciando dalla sua stessa famiglia; era stanca di concedere terreno ad ognuno di loro. Aveva deciso di alzare la voce solo per le battaglie giuste, o perlomeno per quelle che non la facevano dormire bene la notte. Normani la fissò imperterrita, forse attendendo un espediente per esaudire la sua volontà; infine si arrese, accontentandosi di un'uscita di scena a passo marziale. Chiuse la porta lasciandola ad ascoltarne l'eco.

Spostò prima una gamba e poi l'altra, incamminandosi verso la scatola di medicine. Sperava che Normani non avesse avuto l'istinto di aggiungere delle gocce di cianuro. Ne era convinta solo perché quelle medicine salvavano anche altre vite, oltre la sua. Ne scelse una ad estrazione. Non aveva mai avuto bisogno di cure mediche. Dall'altra parte dell'isola non solo le radiazioni, bensì tutto il dolore era impotente. Versò qualche goccia sotto la lingua e scacciò il retrogusto amaro come un po' d'acqua. Ecco quella poteva essere avvelenata davvero, ma era quasi sicura il cianuro avesse un sapore piacevole in confronto all'antidolorifico.

La porta alle sue spalle si richiuse. Si voltò rapidamente, ignara della presenza altrui.

«Non migliora nel tempo.» Disse Lauren, forse azzardando uno scherzo, ma celandolo sotto una maschera di netrualità.

«Non avevo dubbi.» Rispose, ancora inorridita dal sapore.

«Ho qualcosa che invece può aiutarti a migliorare l'altro problema.» Ticchettò sulla scatola nelle sue mani.

Camila annuì, trascinandosi nuovamente sul lettino improvvisato. Adesso sapeva cosa provavano i carcerati a dormire sul metallo. Lauren strascicò una sedia di fronte alla ragazza, aprendo il kit sul grembo.

«Lo fai spesso?» Camila voleva solo ingannare il silenzio; aveva capito che con Lauren pesava il doppio.

«Aiutare una ragazzina di River Side?» Incurvò l'angolo della bocca, forse sorridendo. Non erano amiche, ma quella fu la prima volta che Camila intravide una possibilità di tolleranza.

«Già.» Arrabattò un sorriso.

Lauren intinse un batuffolo di cotone con una crema lenitiva, poi disse: «Alza la maglietta.»

Camila farfugliò qualcosa, ma di fronte all'impassibilità della ragazza rinunciò. Scostò il tessuto dalla parte lesa, esponendo il fianco scarno.

«Mh, poteva andarti peggio.» Concluse la corvina, applicando una leggera pressione sul livido violaceo. Non era abbastanza grande da ricoprire l'intera ansa, a malapena lambiva le costole, ma comunque aveva appreso a sue spese quanto doloroso potesse rivelarsi anche il più piccolo contraccolpo.

«Non è messo troppo male e non è nemmeno troppo grande. Riuscirai a nasconderlo bene.» Dichiarò, ma le sue parole all'apparenza neutrali solleticarono la curiosità di Camila.

«Beh, eppure tu l'hai visto.» Non la guardò negli occhi, nemmeno quando la corvina scivolò nei suoi come un'auto sull'asfalto.

Si strinse nelle spalle: «Se vuoi sperare di vivere oltre i tredici anni, qui devi avere sempre gli occhi ben aperti e...»

«E i pugni ben chiusi.» Ridacchiò.

Gli smeraldi di Lauren lampeggiarono nella sua direzione: «Come fai a saperlo?» Il detto era un motto prettamente atavico, tramandato tra generazioni e generazioni di Island Side.

«Mia nonna era nata da questa parte dell'isola, prima che effettivamente esistessero delle "parti".» Abbozzò un sorriso. I ricordi con sua nonna erano i più teneri che custodiva, gli unici ad averle instillato una speranza nell'umanità. «Me lo ripeteva spesso.» Tagliò corto, dirottando lo sguardo lontano dal passato, troppo lontano per non dolore.

Lauren la fissò tacitamente, ma più a lungo del dovuto. Per un attimo si dimenticò anche di tamponare il livido, fin quando Camila si schiarì la voce. Distolse di netto lo sguardo, tornando alle sue mansioni. Per un attimo le parve non solo di non avere nessuna responsabilità per essere nata dalla parte sbagliata, ma anche di non poterne attribuire a chi era nato da quella giusta. Scosse la testa. Stavano montando una guerra contro River Side, non era il momento di considerarli innocenti. Fortunatamente non fu un pensiero più durevole di una carezza, ma il segreto delle carezze è che lasciano sempre un segno.

«Ho quasi fatto qui.» Il tono rude e sfiduciato aveva ripreso vigore tutto ad un tratto. Non che Camila immaginasse qualcosa di diverso, ma forse ci aveva sperato. D'altronde aveva affrontato tutte le peripezie di quella giornata non solo per dimostrare qualcosa a suo padre, ma anche per essere vista non solo come una colpevole. Forse, però, dimenticava di poter essere osservata per un aspetto ancora peggiore: una principessa.

«D'accordo, gra...» La porta si spalancò interrompendola. Dinah sostava sulla soglia, trafelata e accaldata.

«Lauren, devi venire subito.» Pronunciò con il poco fiato che le era rimasto.

«Si, un secondo.» Non si scompose, assuefatta alle problematiche e alle loro conseguenze.

«Si tratta di Taylor.»

Quell'affermazione, però, scatenò una reazione del tutto imprevista. Lauren drizzò il capo verso l'amica. Il respiro già ammezzato, i nervi tesi sotto pelle.

«Sta peggiorando, devi venire.» Il tono inconsolabile intensificò l'impulsività apprensiva della corvina, che saettò verso l'uscita rischiando di urtare anche Camila, ma indifferente alle sue vive rimostranze.

Dinah le lanciò un'occhiata prima di scomparire dietro all'amica.

«Certo, andate pure.» Si lamentò Camila sommessamente, scuotendo la testa. Attinse con le sue sole forze alle garze e alle bende all'interno del kit, fasciando come meglio poté il fianco.

Il silenzio della stanza stonava col subbuglio esterno. Camila non si sentiva sicura a restare isolata quando dall'altra parte scoppiava il caos. Preferiva sapere di quale caos si trattasse piuttosto che pretendere non ne esistesse alcuno. Forse il successo della mattina aveva fomentato l'ardire generale della ragazza, ma non rimase con le mani in mano. Scese dal lettino e abbassò cautamente la maniglia, sbirciando il corridoio. Il rumore imperversava, ma non lì. Nessuno transitava per il corridoio, tranne la sua ombra. Camila chiuse la porta alle sue spalle, sgusciando verso l'esterno. Attirata come una falena dalla luce, seguì lo schiamazzo. Qualcuno le sfrecciò accanto, senza nemmeno degnarla di uno sguardo. Camila si mise sulle sue tracce, seguendo il ragazzo verso una porta in fondo al corridoio.

Le strilla si amplificavano man mano che si abbreviava le distanze. Il cuore le martellava nel petto, ma la testa le suggeriva di proseguire. E così fece. Agguantata la porta, riuscì a distinguere frammenti concitati di conversazione. La voce di Lauren, quella di Dinah... Molte altre.

Camila accostò l'orecchio all'uscio. Il chiasso guerrigliero le agghiacciava il sangue, ma aprì la porta prima che anche il cuore potesse gelarsi.

La scena che le si propose davanti non la scordò per tutti gli anni a venire. Molto tempo dopo, comprese di essere aver mosso il primo passo di non ritorno attraversando quella soglia. Quel giorno, invece, comprese che aver attraversato il muro non per forza l'aveva introdotta al mondo di Island Side: Solo quella scena le spalancò i cancelli sulla verità.

Una ragazza si dimenava, legata al letto, sbraitando parole senza senso. La flebo al suo braccio era stata strappata via con forza, ma il flacone riversato sul suolo era vuoto. Il ragazzo accorso ne aveva trovato un altro pieno, ma avvicinarsi alla ragazza era un'impresa, figuriamoci inserirle un ago nel braccio.

«Taylor, ascolta la mia voce, va tutto bene. Calmati!» Tentava invano di placarla Lauren, mantenendo le distanze più esigue rispetto agli altri astanti.

«Lui verrà a prenderci! Ci ucciderà tutti!!» Gli occhi sbarrati erano privi di biancore, solo il vermiglio della malattia tingeva l'iride. Le radiazioni non si contentavano di annerire la mente: ustionavano la pelle, incendiavano l'anima. Il Sole bruciava direttamente dentro i loro occhi.

«Taylor, non verrà. E se dovesse venire, ti giuro che lo ammazzerò con le mie stesse mani.» Lauren non stava solo compiacendo la degenerazione della ragazza: era sincera.

«Lui ti prenderà! Ti toglierà le braccia. Non avrai più la testa!! La testa tua... Rotolerà... Re... Regina...» Il fiato le morì in gola. Il petto si gonfiava come un palloncino pronto a scoppiare.

«Taylor, ti prego.» Le si ruppe la voce, restando pur sempre intatta l'espressione. Aveva imparato a frantumarmi senza produrre rumore.

«Lui, farà... Farà..» In un breve attimo di apparente calma, il ragazzo agì provvidenzialmente, inserendo l'ago nel braccio molle della ragazza.

Lauren ebbe appena la forza di alzare la testa per ringraziarlo. Lui uscì di scena a capo basso, mormorando forse preghiere forse bestemmie. Non si sapeva mai dove riporre le speranze: se nella vita o nella morte. Ciò che sapevano si limitava ad una sola verità: una volta giunta la pazzia, non era la vita a donare la pace. Forse era questo che tormentava Lauren, china sul letto della paziente; le scapole a contenere i sacrifici, le vertebre a contarne i mancanti.

Camila titubò. Restare non era un'opzione, ma andar via avrebbe manifestato la sua presenza. Indietreggiò adagia. Tastava con la mano l'aria alle sue spalle, ma invece di incontrare la maniglia urtò una delle tante flebo spoglie disseminate nella stanza. Il rumore metallico attirò lo sguardo di Lauren. Camila incespicò nelle parole, ma in nessuna giusta. Lauren marciò verso di lei a grande falcate, l'artigliò per un braccio e la trainò fuori dalla stanza.

«Che cazzo ti passa per la testa?» Ringhiò rossa in viso.

«Mi dispiace io... io pensavo che...» Scosse la testa. Era difficile ricordare cosa pensasse prima di quel momento, ma ancora più difficile sapere cosa avrebbe pensato dopo.

«Non me ne importa un cazzo! Questo non è un cinema, non siamo delle cazzo di cavie!» Si era già imbattuta nell'ira di Lauren, ma non aveva ancora visto quanto distruttiva potesse essere.

«Non è quello che penso.»

«Allora non impiccarti delle cose nostre, cazzo!» La vampa scarlatta sulle sue gote le sarebbe parso un segnale d'allarme, se non avesse assistito alla scena dentro la stanza. Non erano la radiazioni ad animare la corvina, ma ciò che esse le avevano sottratto.

«Mi dispiace, va bene.» Farneticò a capo basso. «Ma posso aiutarla.» Disse tutto d'un fiato, senza prima averne discusso col proprio buon senso.

«Allora non hai capito niente.» Sibilò aridamente.

«Ascolta, per favore.» Portò le mani avanti, assemblando un discorso che avesse senso. «Ci sono almeno cinquanta postazioni militari qui. Ogni settimana partono dei camion per rifornirle tutte. Conosco qualcuno che potrebbe aiutarmi a dirottarne uno. Potrei farlo arrivare qui, potrei... potrei farvi avere scorte per mesi interi..»

Lauren represse un grido in un sospiro altero. Le afferrò le mani gesticolanti e le immobilizzò con fermezza: «Ascoltami bene, perché non te lo ripeterò di nuovo.» I polmoni si gonfiavano solo di rabbia. «Non voglio il tuo aiuto. Solo perché l'ho accettato una volta, non significa che ne abbia bisogno una seconda. Tu non c'entri nulla con noi, con questo.» La sua maschera di dolore e sofferenza era così vicina da poterne indovinare i contorni dove vi si era poggiata per la prima volta: tanto tempo fa, dovunque. «Ti abbiamo aiutato, siamo pari. Sparisci e non farti vedere mai più.» Abbaiò infine, lasciandole andare le mani con una spinta, che la orientò verso l'uscita.

Camila rimase a fissarla inerme. Non aveva paura di lei, non era nemmeno dispiaciuta per lei. Era delusione quella che le velava gli occhi. Non le rivolse nemmeno mezza parola, si allontanò a grandi passi senza mai voltarsi indietro. Aveva pagato il suo debito, non doveva più niente a quella gente... Ma allora perché sentiva di non aver ancora finito lì?
No, basta. Non sarebbe più tornata. Non aveva solo perso la dritta via, l'aveva piegata fino a renderla un tracciato di sole curve. Non era troppo tardi per aggiustare la direzione, forse doveva solo esserne grata.

Si involò verso la tromba delle scale, trottando inesorabile verso il piano terra. La cenere si sollevava sotto i suoi passi, mulinando briciole nell'aria. Ecco cosa era rimasta di quel mondo: briciole, solo un mucchio di briciole che le sporcava le punte della scarpe.

Era quasi giunta alla porta antincendio che di fiamme ne aveva contenute ben poche quel giorno, quando una mano le afferrò il polso trattenendola.

Camila si girò di scatto, corrucciata in volto. La contrazione dei muscoli si allentò come quella dei pensieri identificando la ragazza.

Dinah le stava di fronte; l'espressione ermetica, lo sguardo solidale. Non era lì per dirle addio.

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