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Softcore



You're like the sun, you wake me up
But you drain me out if I get too much.

————

Più una cosa non puoi averla, più la notte ti terrà sveglio e, prima o poi, ad occhi chiusi o ad aperti, andrai a cercarla e, quando la troverai, farà di te ciò che vuole.

Quella mattina, mi stavo dirigendo verso il mio nuovo lavoro. Era il primo, in realtà, ed era anche l'unico a cui ambissi. Avrei lavorato per un'importante casa editrice, redatto qualche libro e magari anche sbirciato nelle bozze di autori che tenevo sul comodino. Aspettavo quel giorno da sempre, ma niente andò come lo avevo immaginato, ben presto il sogno furono due, tre, quattro...

Avevo già fatto un giro dell'ufficio con Ally, la tirocinante addetta alle mansioni più semplici. Mi restava solamente da dimostrare quanto fossi pronta e vogliosa di iniziare, ma prima dovevo conoscere la donna per la quale avrei lavorato. Sui giornali si diceva di lei solo due cose: che fosse bellissima e che fosse una stronza. In redazione si diceva solo che fosse una stronza. Non ero il tipo di giovane che dava per scontato le voci, ma siccome difendersi sembrava una buona idea nel mondo del lavoro, partii preparata più che prevenuta. 

Normani, la sua assistente personale, mi fece strada fino al suo ufficio. Mi diede qualche dritta e tutte mirate a come non guardare Lauren, a come non rispondere a Lauren e a come non disobbedire a Lauren. Doveva pagarla molto bene per sopportare un lavoro che chiaramente odiava.

Fu lei ad aprirmi la porta e ad introdurmi alla donna. Il primo ricordo che ho di lei, é l'impressione di una donna gramatica, rinchiusa nella sua creatività e nei suoi impegni, del tutto sorda al mondo. Poi ripenso ai suoi occhi e tutto cambia. Sento la mia pelle vibrare, sento un prima diventare un dopo, sento le mie ossa incastrarsi nel preciso ordine di un pensiero, diventare scheletro più di un desiderio che di me. E percepisco subito me stessa rinnegare il dubbio, sospingerlo verso la gola, posso assaggiarne il sapore solo così, ingoiandolo.

«Lauren, lei é Camila. Lavorerà con noi da oggi.» Sorrise cortesemente Normani.

La corvina sollevò la testa giusto il tempo di squadrarmi: «Bene.» Poi ritornò a concentrarsi sulla scrittura e Normani, leggermente imbarazzata, mi fece cenno di uscire. A quanto pareva Lauren salutava e congedava nello stesso modo, ignorandoti.

Okay... Come prima impressione posso dire che avevano ragione su entrambi i giudizi, ma ero propensa a farmi un'idea di qualcuno solo dopo avergli dato una seconda chance, perciò non mi limitai alla prima idea.

Normani mi accompagnò alla mia scrivania. «E questa sarà la tua compagna di viaggio. Purtroppo non posso dire che tu sia fortunata.» Disse spiritosamente, incassando un'occhiata obliqua dalla ragazza.

«Dinah. Non ascoltare questa male lingua, passa solo troppo tempo con Lauren.» Scosse la testa nella sua direzione, ma sorrise nella mia.

«D'accordo, ti lascio nei suoi artigli, che come vedi sono già affilati.» Normani si defilò prima che gli improperi di Dinah potessero raggiungerla, ma sentii che tra di loro c'era questo legame scherzoso che teneva insieme qualcosa di più grande, ma non azzardai la domanda.

«Allora, come sei finita qua?» Domandò la ragazza, sospingendosi verso di me con fare curioso.

«É sempre stato il mio sogno, mi sono impegnata per realizzarlo. Ho avuto anche fortuna, immagino.»

«Non essere umile, sei stata brava!» La sua energia mi mise di buon umore, ma l'incontro con Lauren mi aveva lasciato angosciata. Lanciavo delle rapide occhiate verso la sua porta, senza sapere cosa sperassi di ottenere da una donna troppo impegnata per pensare anche solo a sé stessa.

«...Che ne pensi!?» Squillò cristallina Dinah.

«Mh?» Mi resi conto di essermi distratta, ma tentati di rimediare con un sorriso.

«Sabato, c'è una festa aziendale. Sarebbe l'occasione perfetta per presentarti tutti. Che dici?!»

«Si, volentieri, certo.» Annuii frastornata, dopodiché trascorsi la giornata ad ascoltare e imparare, a mettere in pratica le poche novità apprese e a meravigliarmi di quanto anche la normalità mi piacesse.

A fine serata, quando quasi le tutte le luci erano spente e solo quella dell'ufficio di Lauren, la mia e quella dell'ufficio del redattore della sezione classici.

I tacchi della corvina risuonarono nel corridoio. Mi permisi di occhieggiarla mentre attraversava la hall, ma con la modestia di chi non oserebbe neppure sfiorarla con un battito di ciglia una donna tanto affascinante quanto potente. La sua ombra si proiettò sulla scrivania e mi si addensò nelle mani. Trasalii. La donna si voltò nella mia direzione, senza smettere di camminare, ma i suoi occhi fissarono la mia sagoma più del previsto tanto che sentii la penombra squarciarsi, lacerarsi, espormi irrimediabilmente. Ecco di cosa ebbi paura fin da subito: che lei capisse prima di me cosa volevo.

Quando imboccò l'ascensore, tirai un sospiro di sollievo e mi ripromisi di lasciare l'ufficio sempre con puntualità, da quel momento in poi. Ma ogni promessa é un delitto che se non uccide l'altro, soffoca te. E prima o poi tutti vogliamo respirare.

I giorni successivi passarono tranquillamente, quotidiani ma dinamici come ogni novità sa essere. In quella settimana, non vidi mai Lauren, solo una volta, distrattamente, la notai parlare al telefono attraverso i vetri del suo ufficio. Il suo sguardo era indirizzato verso di me ed io, ingenuamente, lo ricambiai. Ero talmente incuriosita da lei da non avere scrupoli, da porre la vergogna come conseguenza e non come azione. Ogni volta che i suoi occhi mi lasciavano, però, arrossivo e domandavo a me stessa dove trovassi il coraggio di farlo ancora.

Il sabato della festa, invece, qualcosa cambiò.

Dinah passò a prendermi con un ingente ritardo, ma mi spiegò che a queste occasioni nessuno arrivava puntuale. La festa si svolgeva in un hotel di lusso dove non solo due piani erano stati riservati all'intera azienda e alle sue succursali, ma anche un terrazzo era stato prenotato e arricchito con un banchetto. Dinah Mi presentò così tanti colleghi da dover smettere di bere per ricordarmi almeno i volti. Normani venne ad interromperci.

«Lauren sta per fare il discorso annuale.»

«Pff, noioso.» Sbuffò infantilmente Dinah, ma Ally la prese sotto braccio e la condusse verso il centro della stanza dove già quasi tutti erano ammassati in cerchio.

La corvina indossava un vestito attillato e succinto che metteva in risalto le sue forme mettendo a dura prova la mia immaginazione, quella landa sperduta dove ogni fantasia lottava con la spada contro l'altra, fino a bersi il sangue a vicenda. Fu la prima volta che la vidi sorridere e, stupidamente, mi dispiacque non fosse per merito mio.

«Grazie a tutti per essere qui stasera. Per l'azienda vale molto, e anche per me.» Alzò il bicchiere e tutti la imitarono. «Quest'anno abbiamo raggiunto delle vette inaspettate, siamo stati bravi, siete stati bravi.» La sua voce era più rauca di quanto pensassi, ma si abbinava bene alle forme vellutate delle sue parole. «Sono grata di avere tutti voi nel mio team e sono fiduciosa possa ampliarsi sempre di più. Stasera, però, godetevi la festa, ve lo siete meritati.» Stavolta i calici si alzarono per essere scolati. Dopo un elegante tripudio, tutti sciamarono in direzioni opposte.

Mentre ognuno schizzava da una parte all'altra, il mio sguardo seguii Lauren per la stanza fino a quando non raggiunse una donna, anche lei superbamente raffinata, la sua mano scivolò dietro la sua schiena e poi attorno alla sua vita. Qualcosa di quel contatto creava in me un allarme.

«Ehi, chi é quella?» Domandai a Dinah, additando le due.

«La moglie di Lauren. Perché, non la conosci? É su tutte le copertine di Vogue.» Ridacchiò della mia inesperienza, ma per qualche motivo non ci trovai niente di divertente. Continuai a fissarle, a studiarle, finché la folla me lo permise...

«Devo presentarti degli amici!» Squittì Dinah, ma dovetti deluderla.

«Magari dopo. Devo prendere un po' d'aria.»

«Va bene, ma non metterci troppo. Io sarò qui o lì.. o là.» Ridacchiò mentre si allontanava.

Mi diressi verso il terrazzo dove solo quattro o cinque persone erano uscite per fumare una sigaretta o riposarsi dopo aver bevuto un goccio di troppo. Era talmente grande, però, che non si notava neppure la presenza di qualcun altro. Scelsi il lato ovest solo perché era più esposto sul lato migliore della città. Mi appoggiai alla ringhiera, contemplando il volto illuminato di New York. Dovevo ancora realizzare di essere veramente li.

«Bello, eh?»

«Cazzo.» Portai una mano al petto per calmare il respiro.

Nella penombra, non avevo notato la donna, ma adesso che la luce rischiarava una porzione del suo viso, riuscii a riconoscerla. Lauren si copriva dalla brezza con un cappotto, ma lasciava scoperte le gambe. Mi costrinsi a guardare altrove.

«Scusa, non volevo spaventarti.» Disse, ma invece pensai fosse proprio il suo intento.

«Non preoccuparti.» Mi resi conto troppo tardi di aver usato un accento troppo informale, ma era stata lei a concedermelo, Giusto?

«Tu sei quella nuova, giusto?» Non so se la bugia fosse nella sua falsa dimenticanza o nella mia vana arroganza, ma non le credetti. Sapeva benissimo chi ero.

«Si, ho iniziato a lavorare con voi da una settimana.» Strinsi il metallo nelle mani quando i suoi occhi non si decisero a lasciarmi.

«Speriamo di essere all'altezza delle tue aspettative.»

Mi scappò una risatina che la mise in guardia. Drizzò le spalle, mi squadrò attentamente e si avvicinò a me con passo felino. Mi sentivo una preda e la parte peggiore era sentirmi pronta a essere mangiata, anche viva, se preferiva. «Ti faccio ridere?»

«Cosa? No!» Mi voltai verso di lei, ma fu un errore.

La trovai più vicina di quanto il buio mi avesse fatto credere, la sentii, quasi, sfiorarmi con il suo petto e dovetti deglutire prima di parlare. «Mi fa ridere l'idea di dover giudicare io voi... te, lei... insomma.» Merda.

«Ti rendo nervosa o ti faccio ridere?» Mormorò, reclinando spudoratamente la testa.

«Nessuna delle due, davvero.» Mi schiarii la voce e mi feci forza per rimirarla negli occhi, ma erano troppo vicini per non cedere alla fragilità.

«Mh, pensavo entrambe.» Si strinse nelle spalle e sorseggiò un goccio del suo drink. Notai che non aveva un calice con delle bollicine, ma un bicchiere scuro.

«Niente champagne?» Domandai, tentando di sviare l'attenzione.

«No, non fa per me.» Arricciò le labbra, mescolò il liquido nel vetro e me lo porse. «É bourbon, tu saprai sicuramente apprezzarlo.» Mi lasciò il suo bicchiere fra le mani, prima di dileguarsi senza ulteriori spiegazioni.

Ero confusa da quanto fosse appena successo, ero totalmente incapace di mettere insieme i pezzi. Osservai le luci della città riversarsi nel bicchiere e poi, tentai di indovinare dove aveva poggiato le labbra per rimarcare il segno con le mie e assaggiare non solamente il bruciore dell'alcol, ma anche quello del suo rossetto.

Durante la serata, rimasi in disparte, anche mentre parlavo con altre persone, la mia mente era isolata. Per quanto controllassi me stessa, sbirciavo puntualmente nella direzione di Lauren e tutte le volte lei non stava guardando me. Io, però, avevo ancora in mano il suo bicchiere e, senza rendermene conto, lo avevo svuotato. A fine serata, rubai un momento al tempo, e le andai vicino quando la vidi da sola.

«Avevi ragione,» iniziai, notando l'espressione sorpresa sul suo volto per il tonfo del bicchiere sotto i suoi occhi, «era buono.» Stavolta fui io ad andarmene senza aggiungere una parola e non concedendole il lusso di farlo al posto mio. Sapevo di aver iniziato un gioco nel quale non avrei mai potuto dettare le regole, ma accontentarmi solo delle eccezioni.

I giorni successivi, Lauren si comportò come sempre se non peggio. Mi salutava alla mattina e alla sera, ma niente di più. Mi domandai anche se non mi avesse riconosciuto, ma anche nel suo modo di ignorarmi c'era un che di audace, come se il silenzio fosse solo un modo per tenermi sospesa fin quando le avrebbe fatto piacere. L'unico gesto che ebbe nei miei confronti, fu indiretto. Normani venne a cercarmi per consegnarmi una bozza da leggere. Disse che Lauren cercava qualcuno che potesse darci un occhio al posto suo e che aveva indicato me come primo nome. Non ero neppure sicura lo ricordasse, il mio nome, ma dovevo aspettarmi che non le si nascondesse niente. Accettai senza pensarci due volte. Pensavo nel manoscritto ci fosse qualcosa, anche una piccolissima cosa, che potesse parlare di lei senza la sua voce, ma lo avrei capito se mi avesse fatto recapitare la bozza per parlarmi anche solo attraverso una frase, invece niente di quello che lessi mi ricondusse a lei e tantomeno a me. Mi tenne sveglia a lungo, però, il che significava che fosse un buon pezzo e non esitai a dirglielo durante una delle riunioni dello staff. Il libro venne pubblicato e le vendite non andarono per niente male, motivo per cui trovai una bozza, sulla mia scrivania, ogni tre giorni. Il mio lavoro era raddoppiato, per non dire triplicato, ma non mi lamentavo, anzi. Una sera, quando ormai non c'era più nessuno in redazione, andai di persona a consegnarle la mia onesta opinione sul manoscritto, non perché mi aspettassi qualcosa da lei, ma perché credevo davvero ne valesse la pena.

Bussai educatamente, ma quando feci capolino la donna riabbassò la testa, quasi la mia visita l'avesse solo distratta: «Scusa, Lauren, volevo solo lasciarti questo.» Le mostrai il malloppo che avevo fra le mani, ma lei non si disturbò a osservarlo, anzi, si limitò al silenzio.

«Penso davvero sia buono. I personaggi sono caratterizzati bene, le scene sono coinvolgenti e la trama ha diversi spunti di riflessione. So che è uno scrittore emergente, ma credo valga la pena azzardare una tiratura più ampia.» Di nuovo, nessun commento.

«Probabilmente mi sbaglio, ma ci tenevo a...»

«Probabilmente si.» Mi interruppe, sempre con lo sguardo sul foglio. «Lavori qui da troppo poco tempo per sapere cosa sia meglio.» L'insolenza mischiata all'indifferenza urtò ogni fibra del mio corpo a tal punto che non riuscii più a connettere il razionale all'impulsivo.

Mi approssimai a passo spedito verso la scrivania e feci cadere di botto il tomo sul legno. La donna sobbalzò, alzando di scatto lo sguardo su di me. Il suo era fuoco, ma anche il mio. «Ogni tanto potresti anche dire grazie.» Dichiarai impudente, sostenendo a testa alta i suoi occhi truculenti. La corvina non rispose, era abituata a farsi bastare lo sguardo, ma mentre mi allontanavo non diedi segni di incertezza e, anzi, mi tirai dietro la porta con un tonfo.

Non so dire quanto pensai e ripensai a cosa avevo fatto, a come l'avevo fatto, al perché non mi fossi fermata prima, al perché fermarsi per me significa superare il limite. Cosa avevo da dimostrarle che il tempo non avrebbe fatto al posto mio? Eppure qualcosa c'era, una sensazione senza nome ma viva in tutto il corpo, un sentore che potevo schivare solo se avessi cambiato pelle. C'era qualcosa che aveva bisogno di essere detto, ma non aveva parole neppure nella mia testa. Le parole gli avrebbero dato una denominazione, una casa, un luogo dove restare e da lì non se ne sarebbe mai andato. Sentirlo era diverso da nominarlo.

I tre giorni successivi, niente cambiò, ma neppure arrivarono bozze sulla mia scrivania. Dinah si accorse del mutamento, ma non domandò. Credo avesse capito che il modo migliore per volermi bene, era non chiedere niente di quello che non proferivo. La settimana proseguii lentamente e con pesantezza. I pensieri erano pesanti, i dubbi di più. Il lunedì successivo, però, trovai una pliche con un post-it sopra. C'era scritto "lo rivoglio entro stasera." Non c'era bisogno di firme. Erano circa trecento pagine, una mole che mi avrebbe impiegato almeno tutta la giornata lavorativa e qualche ora extra, così iniziai subito a darmi da fare. Non mi accorsi neppure di saltare la pausa pranzo e tantomeno quella caffè. Arrivai semplicemente alla sera, alzai la testa e mi trovai da sola. Non c'era nessuno, a parte Lauren. Era tanto sbagliato credere avesse mi avesse aspettato? Se non me, almeno il mio lavoro. Ora era pronto.

Bussai alla sua porta e aspettai mi conferisse il permesso stavolta per entrare. I suoi occhi non si distolsero altrove, anzi. Si afflosciò contro la poltrona per guardarmi meglio.

«L'ho finito.» Dissi fin troppo compunta. «Beh, è buono, ma non è niente di che.» Mi strinsi nelle spalle ed ebbi l'accortezza di poggiarlo piano sul tavolo.

«E cosa ne pensi della tiratura?» Quanto le piaceva giocare.

«Non penso niente, lo sai tu cosa fare.» Rimirai i suoi occhi lasciandole intuire di aver capito, di aver incassato e metabolizzato la lezione, ma qualcosa mi diceva non fosse abbastanza.

«Avevi ragione, su Lorenzof. Abbiamo pubblicato più copie e sono andate sold-out.» Ok... adesso non capivo davvero cosa volesse farne di me.

«Ne sono contenta.» Mi limitai ad annuire. «Se è tutto...»

«Non è tutto.» Tagliò corto, lanciandomi un'occhiata tagliente che mi affettò il respiro.

«Posso fare altro?» Domandai sinceramente e il suo sorriso tenue mandò una scossa alla mia spina dorsale.

«No, nient'altro, Camila.» Pressò il mio nome fra le sue labbra come fosse un frutto da mangiare di cui sputarne i semi, uno ad uno.

«Beh, allora...»

«Ma io si.» Prima furono i suoi occhi a inchiodarmi, poi si alzò e con passo cadenzato andò a chiudere la porta. Credo di averli contati i passi che la separarono dall'uscio a me, ma di quella notte conservo solo sensazioni, nessun ricordo esatto. Cautamente si avvicinò a me, senza mai perdere i miei occhi.

«Lauren.» Il suo nome suonò come un avvertimento, come una raccomandazione, ma era una preghiera.

Proprio quella sera, sul terrazzo, il suo corpo si fece vicino al mio, inevitabilmente vicino, ma adesso nessuno spazio ci divideva. Il suo seno si schiacciò piano piano contro il mio e mentre il mio corpo si modellava sotto la sua volontà, le sue mani lo ingabbiavano nel proprio desiderio. Sfiorò il mio orecchio con le sue labbra e sussurrò: «Ringraziarti.» Non riuscii a resistere alla tensione nella sua voce e legai le braccia al suo collo. Fui io a spingere le labbra contro le sue, a trovare il suo sapore con la punta della lingua, ma la sua bramosia non fu da meno. La veemenza con cui mi baciò, la forza on cui mi tenne premuta contro di lei, la rapidità con cui mi fece voltare verso la scrivania, tutti dettagli che mi dissero da quanto tempo ci pensava.

Le sue mani esplorarono ogni porzione della mia pelle. Tutto quello che avevo sentito per lei, ora lo gemevo per lei. Le sue dita giocarono con il mio seno, mentre il suo petto premeva contro la mia schiena e i suoi denti mordevano il mio collo. Stringevo i pugni per non perdere il controllo, ma tenevo una mano contro la sua nuca per farle sapere quanto mi piacesse. Le sue mani scesero lentamente sul mio addome fino all'orlo della gonna. Solo i polpastrelli sconfinarono sulla parte più sensibile.

«Lo devi chiedere.» Mormorò al mio orecchio, ansimando.

«Lo vuoi tanto quanto me.» Sibilai a denti stretti.

«Ma sei tu che ne hai bisogno.» Sorrise contro la mia guancia. Tentai di voltarmi verso di lei, ma la sua schiena mi tenne ferma nella stessa posizione, facendomi sentire tutta la frustrazione che un corpo può avvertire.

Afferrai la sua mano e la portai alla mia bocca. Succhiai le sue dita ad una, finché non la sentii gemere contro la mia nuca, li dove rannicchiò la testa per difendersi dai suoi brividi : «Ora ne hai bisogno hai anche tu.» Dissi e dal suo grugnito infastidito seppi di aver ragione.

Lauren mi fece voltare verso di lei di slancio e mi mise a sedere sulla scrivania. Si spinse in mezzo alle mie gambe e con foga azzannò le mie labbra mentre con la mano graffiava l'interno della mia coscia. Per restituirle il favore, conficcai le unghie nella sua schiena e morsi le mie labbra per non darle la soddisfazione che cercava. Quando infine però si spinse dentro di me, non riuscii più a trattenermi. Lasci cadere la testa all'indietro, ogni gemito incastrato in gola riempii prima la stanza e poi la sua bocca. Le tenevo il viso mentre raggiungeva la parte più intima di me, riversavo direttamente nella sua gola il piacere derivato dalle sue mani e coglievo il suo sorriso ampliarsi sulle mie labbra.

Ogni volta che il mio corpo sobbalzava per merito suo, ogni volta che qualche preghiera seguiva il suo nome, ogni volta che un graffio le diceva quello che la gola si rimangiava, ogni volta lei si fermava e ricominciava con più forza.

«Lauren..» Ansimavo nel suo orecchio, ma gemeva lei.

«Dillo ancora.» I suoi erano ordini, ma cadevano come suppliche.

Afferrai il suo volto, lo tenni fra i miei palmi e socchiusi leggermente le labbra socchiuse contro le sue: «Lauren, di più.» Sorrisi maliziosamente, notando i suoi occhi incupirsi.

Mi distese completamente sulla scrivania, tenendo il suo sguardo fisso nel mio finché il suo volto scomparve dalla mia visuale. Con la punta della lingua salì lungo il mio interno coscia, fino all'inguine. La mia schiena si inarcò sotto il suo tocco, ma le sue mani mi tennero ferma. Ogni parte del mio corpo si scioglieva ad ogni colpo, si curvava per lei ma le sue mani mi tenevano giù, aumentando la pressione della sua lingua su di me.

Immersi le mani nei suoi capelli, trattenendola a me come fosse l'unico appiglio, e lo era. Urlai il suo nome prima di perderlo in un sospiro. La corvina si pulì il labbro guardandomi dall'alto. Non ero ancora riuscita a recuperare le forze per alzarmi, dunque rimasi distesa e fu lei a raggiungermi.

«Questo era abbastanza un "grazie" per te?» Domandò, girando il capo verso di me.

Portai una mano sulla sua guancia: «Un inizio.» Le dissi maliziosa. Malgrado inizialmente si risentì, un sorriso la tradì.

Come sia andata fra di noi dopo quella notte, temo lo sapremo solo io e lei... ma forse talvolta nemmeno noi.

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