parte prima
Campo Tre Pini, 8 agosto 1944
Ludovico la svegliò non appena il sole sorse, evitando troppi convenevoli e lanciandole, dall'alto dei suoi centosettantanove centimetri, la giacca di tela sul viso.
«Rosa, sveglia. È ora», ordinò con freddezza, mentre la sua mano andava già ad imbracciare il fucile. «I crucchi non aspettano mezzogiorno per venirci a prendere.»
Con un gemito, Rosa nascose il viso sotto la giacca di suo fratello, stiracchiandosi contro il muro di cemento. Al suo fianco, il lieve russare di Giovanni la rassicurò.
Dunque non era ancora giunta l'ora di partire; quelle di Ludovico non erano che le solite ammonizioni paranoiche di un comandante improvvisato, giovane e troppo inesperto per accompagnare fino a Firenze due dei suoi commilitoni.
Il resto della Brigata si era disperso da qualche parte là intorno, ma con la foschia mattutina che avvolgeva la pianura dinanzi a loro era impensabile persino scendere a valle.
E pensare che solo due giorni prima erano tutti insieme, più di cento uomini armati, a procedere in religioso silenzio verso le rive dell'Arno! Se non fosse stato per quell'attacco a sorpresa mentre erano intenti a superare Settignano, a quell'ora probabilmente i loro comandanti avrebbero già dato l'ordine di dirigersi verso Firenze.
Trovarsi in mezzo a quella manovra, per Rosa, era un po' come tornare ai fumetti del Corriere: le armi, i passi leggeri e spediti quando si attraversava la boscaglia, le canzoni sussurrate la sera, stretti sotto le giacche, prima di addormentarsi; ogni cosa, nella Brigata Garibaldi in cui Ludovico l'aveva trascinata, sembrava uscita da un'avventura di Fortunello e non c'era paragone tra quel frenetico percorrere i dorsali toscani e i suoi primi diciannove anni di vita. Firenze era stata la sua casa, certo, sicura e protetta da ogni avversità, ma differiva completamente dal bosco dell'Appennino, dove per mangiare si doveva seguire una morbosa quanto ingiusta gerarchia. Lei, mangiava sempre per ultima (sempre che Ludovico le tenesse qualcosa da parte, ovvio). In quanto "nuova recluta", di diritti non ne aveva. Non aveva armi, non aveva la dose di tabacco che veniva prontamente fornita a tutti i compagni; aveva a malapena un posticino al caldo tra suo fratello e il suo amato fucile rubato chissà dove.
Tutto sommato, però, quella "comitiva di banditi" le voleva bene, doveva ammetterlo.
Sospirando, si mise in piedi e si trascinò fuori dalla chiesetta di mattoni in cui avevano passato la notte. Anche quel giorno, la valle dell'Arno era avvolta dalla nebbia.
«Giovanni dorme ancora?», le chiese Ludovico, in piedi davanti al muretto di mattoni che circondava il camposanto.
Lei annuì.
«Pare di sì», rispose, stringendo le spalle. «Ieri notte era stanco morto.»
«Rosa! Non siamo qui a fare la vacanza! Entro la settimana prossima dobbiamo essere a Firenze!»
«Lo so, ma ...»
«D'accordo, adesso mi sente!»
E detto questo sparì nella penombra delle navate.
Mentre Ludovico tornava a gridare ordini dentro la chiesa, la ragazza si portò sul ciglio dell'altura su cui si erano accampati. L'aria fresca soffiava dalla valle, mentre il silenzio delle campagne toscane avvolgeva con discrezione il campo. Le campane di Pontassieve suonavano da tempo, annunciando ai cittadini l'inizio di una nuova giornata che, molto probabilmente, non sarebbe differita poi tanto da quelle precedenti.
Rosa amava stare ad ascoltare i suoni che il paesaggio intorno a lei offriva. Lo scrosciare dell'acqua, i canti degli uccelli del bosco, i lamenti sommessi di Giovanni che, rannicchiato contro la parete, cercava invano di guadagnare qualche minuto di riposo in più. La calma di una fresca mattinata d'agosto, la definiva Ludovico, quando lei gli faceva notare quanto bello fosse sedersi sull'erba e respirare a fondo l'aria pura che in città come Firenze non avrebbe mai potuto trovare.
Firenze ... quanto le mancava, la sua bella casa! I suoi fratelli minori, arruolati nei Balilla per volere del padre, i suoi amorevoli genitori, quel vecchio pastore tedesco che ormai non aveva più la forza di alzarsi dal pagliericcio dove dormiva ma che per amore di tutta la famiglia era stato risparmiato; tutto, della sua vita in città, le pesava in fondo al cuore come i fucili sulle spalle dei suoi commilitoni. Certe notti si svegliava nei singhiozzi, stringendosi a Ludovico nella vana speranza di percepire nei suoi capelli il dolce odore di Firenze, ma la consolazione durava giusto l'istante per permettere a suo fratello di svegliarsi e scrollarla via con i suoi modi rudi di sempre. Erano nati assieme, lei e Ludovico, nella stessa casa, nella stessa notte, lo stesso 2 giugno in cui soltanto quarant'anni prima Garibaldi aveva perso la vita, eppure, per uno strano scherzo del destino, i loro caratteri si erano sviluppati in maniera completamente diversa. Tanto avevano fatto, i loro genitori, che alla fine Ludovico e Rosa Almagià avevano finito per detestarsi, tornando vicini come veri fratelli soltanto dopo essere divenuti maturi abbastanza per rendersi conto di quanto essenziali fossero l'uno per l'altra.
Due gemelli, dicevano a Firenze, sono legati per tutta la vita, non importa cosa accada.
Pensava a questo, Rosa, mentre osservava con nostalgia il paesaggio di Campo Tre Pini. La dolcezza di un'infanzia volata via come la sabbia nel vento l'aveva completamente rapita e lei, ciecamente perduta nei suoi ricordi, era incapace di vedere persino cosa stava avvenendo sotto al suo naso.
«Hai occhi di ghiaccio ed un cuore di terra, ti chiudi a sognare nelle notti d'inverno e ti copri di rosso e fiorisci d'estate ...»
Una voce profonda, lontana, appena percettibile.
Rosa alzò lo sguardo smarrita, alla ricerca del cantante di quella melodia lenta e malinconica che l'aveva improvvisamente scossa dal suo passato.
Il dorsale era erboso, coperto dagli arbusti che crescevano liberi da quando i contadini l'avevano abbandonato, anni prima, in vista della guerra. Bacche e muschi crescevano liberi sulla terra ormai arida e certamente nessuno avrebbe mai pensato di arrampicarsi fino al campo per quella via insipida, non con il comodo sentiero che il parroco usava per tenere la messa di Pasqua ogni anno a pochi passi da lì. Certo, sarebbe stato illogico. Eppure, quel mattino, qualche coraggioso c'era.
Quasi incantata dalla nenia che risuonava nell'aria, Rosa si sporse alla ricerca di un viso, curiosa e speranzosa nel fatto che, dietro a quella canzone, si celasse uno dei suoi compagni di brigata.
«Buongiorno, signorina!» disse la voce, sospendendo per un istante la melodia. «Siete di casa quassù?»
Per poco Rosa non svenne. Gli occhi che vide, sulla candida pelle dell'uomo che le aveva rivolto quella domanda, brillavano di un azzurro più freddo del ghiaccio, gelidi e inquietantemente inespressivi. Capelli biondi, tagliati corti sotto all'elmetto su cui spiccava con arroganza la croce uncinata contro la quale lei e i suoi compagni combattevano.
«Ludovico!» gridò la ragazza, affondando le dita nell'erba del campo. Per quanto si sforzasse di ordinare alle sue gambe di alzarsi e cominciare a correre, queste sembravano decise a restare ben ferme dov'erano.
Un segno del destino.
Impotente nel suo terrore, allungò le braccia fino alla panca a ridosso del muro della chiesa, trascinandosi verso la parete di cemento scrostato. Batteva e denti, tremava, lasciava che le lacrime le rigassero il viso. E l'altro si avvicinava in silenzio, guardandola.
«Habe keine Angst», le disse poi, inginocchiandosi e prendendole le mani. Continuava a guardarla dritto negli occhi. «Non avere paura.»
Rosa scosse la testa, ormai improvvisamente rassegnata al suo triste ed ormai imminente destino. Sentì i passi svelti di Ludovico raggiungerla sul prato. Le chiese dove fosse, ma mentre stava per azzardarsi a rispondere, l'uomo di fronte a lei scosse la testa, premendole una mano inguantata sulle labbra.
«Per favore», le disse. «Non dirgli che sono qui.»
Parlava italiano.
«Rosa?»
La voce di Ludovico sparì rapidamente tra i boschi del campo Tre Pini. Povero ragazzo, pensò Rosa, chissà se l'avrebbe rivisita viva, al suo ritorno!
Tornò a guardare in faccia l'uomo, studiandone con terrore ogni lineamento. Un tedesco, un nemico, un nazista, un mostro, un immorale, un diavolo, un ...
«Sono Hermann Weber. Per favore: sono un disertore.»
Un disertore? Rosa deglutì, mentre Hermann lasciava andare lentamente la presa su di lei.
È un disertore, pensò con sollievo, va tutto bene.
Preso un respiro, sussurrò il suo nome accompagnandolo con un lieve sorriso, timido e discreto. Chinò il capo arrossendo appena e lasciò cadere le mani in grembo, sciogliendo le spalle irrigidite contro la parete della chiesa.
«Mi spiace», gli disse quindi, cercando di tirarsi in piedi benché le sue gambe stessero ancora tremando. «Non avevo capito che lei fosse un disertore. Pensavo foste ...»
Hermann le sorrise, aiutandola prontamente ad alzarsi.
«Certo, lo capisco.» All'improvviso si fece serio, tanto che la ragazza si ritrasse, irrequieta. «Rosa, tu e i tuoi amici dovete lasciare questo posto», le disse, indicando con un cenno del capo la vallata. «Vi hanno avvistati ieri pomeriggio dal Monte.»
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