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Paris


Ispirazione: Paris - Chainsmokers // da Mor_eMe
1513 parole


Le emozioni non servono a niente.

Me ne sono reso conto presto, troppo presto. Avevo cinque anni e la mente fragile di mia madre aveva deciso che buttarmi addosso un bollitore colmo di acqua bollente fosse un compromesso accettabile per non dover più vedere le fattezze di mio padre geneticamente scolpite sul mio viso.

Non ricordo molto di quella notte se non il senso di panico ed il bruciore tanto forte da darmi l'impressione di essere caduto in una scatola di spilli. Faticavo a respirare, le dita erano saldamente aggrappate al mio pupazzo preferito.

Piansi tantissimo, non riuscivo a smettere. Mi guardavo intorno con l'occhio destro e cercavo inutilmente qualcosa a cui aggrapparmi senza trovare niente, perché la verità che non riuscivo ad affrontare stava nel terrore che trasfigurava il viso di mia madre.

L'unica donna al mondo che avrebbe dovuto amarmi senza condizioni mi aveva appena sfregiato.
Ero troppo piccolo per capire, ancora più per perdonare.

Smisi di piangere, smisi di ridere, smisi di mostrare qualsiasi emozione che non fosse l'indifferenza più totale nei confronti di una vita che mi aveva dato un padre assente ed una madre incapace.

Avevo troppa paura di mostrare le mie emozioni; le tenevo per me, era più semplice.

Negai a me stesso la possibilità di sorridere fino a pensare di essere rotto. Mi guardavo allo specchio e passavo le dita sui bordi frastagliati della mia cicatrice convincendomi anno dopo anno che nessuno avrebbe mai avuto la forza di sopportare tutte le mie insicurezze e le mie paure.

Ci credevo davvero, mi ero quasi abituato all'idea che sarei morto solo con me stesso.

Ma poi, sei arrivato tu.

Hai spostato la mia borsa dall'unico posto vuoto rimasto in aula durante il nostro primo giorno di scuola superiore.

Non mi hai nemmeno chiesto se potevi, l'hai fatto e basta. Mi hai guardato a malapena, sembravi arrabbiato.

Mi venne un'insana voglia di passare le dita sulla pelle aggrottata della tua fronte, ma pensai che sarebbe stato davvero troppo strano.

Rimasi in silenzio anche io, non ci siamo detti nemmeno "ciao".

Per un mese intero hai continuato a sederti vicino a me senza degnarmi di uno sguardo e a me andava bene. Eri il mio posto sicuro; con te accanto, non dovevo giustificare a nessuno il mio totale disinteresse nei confronti dei miei compagni di classe.

Poi, un giorno, mi hai parlato.

Hai voltato la testa verso di me ed hai alzato un sopracciglio come se mi fosse sbucato un terzo occhio sul naso.

«Ehi, bastardo a metà, hai del dentifricio in faccia.»

Hai sfiorato le mie labbra con le dita, io ho smesso di respirare e per la prima volta in dieci anni ho provato un'emozione che non fosse la noia.

Sono passati cinque anni da quel giorno e tu sei la mia unica certezza.

Sei passato a prendermi e non ho idea di dove stiamo andando, so solo che ti ho detto di aver litigato con mio padre e tu mi hai scritto "prepara un borsone".

Non ho fatto domande, per quanto mi riguarda potresti portarmi dritto all'inferno e ti seguirei senza la minima esitazione.

Guidi, lo fai in quel modo che mi fa impazzire e mi fa venire voglia di morderti il collo se non temessi di distrarti e spedirci dritti fuori strada.

Tieni una mano sul volante, l'altra stringe le mie dita sopra al cambio. Non mi lasci mai, non sprechi mai un'occasione per toccarmi.

«Mi dici almeno quanto stiamo via? Devo avvertire a lavoro.»

Inclino la testa di lato, tu sbuffi appena.

«Ho chiamato io, non pensare a niente.»

«Ma io...»

«Sho», la tua voce è ferma, ma ti conosco troppo bene per non riconoscere la preoccupazione dietro il tuo sguardo duro. «Voglio solo che ti rilassi, va bene? Da quando tua madre è morta non ti dai pace e quello stronzo di tuo padre non semplifica le cose.»

Non dico niente, stringo un po' di più le tue dita e tu sollevi la mia mano per portarla alle labbra e baciarne il dorso.

Sei l'angelo che Dio mi ha mandato come dono di scuse per la vita di merda a cui mi ha condannato, non ho altre spiegazioni.

Parcheggi all'aeroporto mezz'ora dopo, siamo in fila per un volo ma non vuoi svelarmi la destinazione. Mi infili un paio di cuffie sulla testa così che non senta niente e mi tieni con le spalle rivolte al desk per il check-in.

Sei di fronte a me, indossi quel berretto nero che giri sempre con la visiera indietro e la felpa dei Guns n' Roses che ti ho regalato a Natale l'anno scorso.

Sei bello, non riesco a pensare ad altro.

Istintivamente sorrido.

Tu lo noti, perché non lo faccio spesso e quando lo faccio è merito tuo.

Sorridi anche tu, è strano anche questo ed io non voglio mai abituarmi alla sensazione di vuoto che mi provocano le tue labbra stirate verso l'alto.

Mi alzo sulle punte e ti bacio, tu mi stringi affondando le mani sotto la felpa come se non ci fosse nessuno intorno a noi.

«Ti amo», lo sussurri piano. Pensi che non ti senta a causa delle cuffie, ma la fortuna oggi è dalla mia ed ho beccato il momento di silenzio tra la fine di una canzone e l'inizio di un'altra.

Eppure, non dico niente.

Perché so quanto è faticoso esprimere le emozioni, è questo che ci ha unito. Chiudo gli occhi, mi lascio trascinare su un aereo che ci allontana da mio padre, da tua madre e a quanto pare dal Giappone.

Guardo fuori e passo il viaggio con il naso incollato al finestrino, gli occhi pieni di meraviglia e la tua mano sempre stretta nella mia.

Tu sei calmo, lo sei sempre quando sei con me ed è paradossale considerando che a scuola hai rischiato troppe volte l'espulsione a causa della tua testa calda.

Partivi in quinta per qualsiasi cosa, sembravi andare a fuoco e facevo appena in tempo a metterti una mano sul braccio prima che tu esplodessi.

Mi guardavi, respiravi, stringevi la mia mano e lasciavi che ti portassi lontano.

Poso la testa sulla tua spalla, tu posi un bacio tra i miei capelli e capisco che sei stato tu questa volta a prendermi per mano e a portarmi via.

Mi sveglio di soprassalto quando sento la voce dell'hostess annunciare che stiamo per atterrare; sono passate ore.

Apro un occhio lentamente, tu dormi col berretto calato sul naso.

Sembri un'altra persona quando dormi; abbandoni ogni preoccupazione per fare spazio al bambino che non ti sei mai concesso di essere.

Sollevo lo sguardo, l'occhio mi cade sulla metropoli sempre più vicina sotto di noi man mano che scendiamo.

Poi la vedo, sgrano gli occhi, non può essere.

"Signore e signori, siamo in arrivo all'aeroporto internazionale di Parigi. Preghiamo i gentili passeggeri di tenere le cinture di sicurezza allacciate".

L'hostess continua a parlare ma io non la sento più, ho il cuore in gola mentre quella che può essere solo la Torre Eiffel si staglia sempre più netta in lontananza dietro il profilo moderno della pista d'atterraggio.

Quando mi giro a guardarti, sei sveglio e sorridi.

Non smetti di sorridere mentre scendiamo dall'aereo e chiami un taxi come se l'avessi programmato.

Sembri il protagonista di un video musicale, uno di quelli in cui l'attore principale tiene la testa fuori dal finestrino ed urla la sua libertà dopo essere scappato.

Sei luminoso, solido, incredibilmente reale e non lasci mai andare le mie dita.

Non lasciarmi mai.

Non so perché mi venga in mente proprio ora, ma ti prego, non farlo mai. Non penso di poterlo sopportare.

«Sei pazzo», mormoro emozionato quando scendiamo dal taxi e mi trascini lungo gli Champs Elysees. «Mi hai portato a Parigi per scappare da mio padre. Finirai nei casini anche tu.»

Non rispondi subito, sembri fluttuare sotto la luce delle stelle che trapuntano il cielo. Scuoti la testa, i tuoi occhi guardano la Torre Eiffel sempre più vicina finché non ci troviamo ai suoi piedi.

Mi gira la testa, sono letteralmente inebriato dalle luci e dal tentativo fallimentare di metabolizzare il fatto che non sto sognando.

Tu mi costringi a guardarti, accarezzi le mie mani e posi un bacio sulla punta del mio naso.

«Se cadiamo, allora cadiamo insieme.»

Cinque parole; le hai dette con una forza negli occhi che mi ha attraversato come un fulmine da parte a parte.

Riesco a malapena a deglutire, tu mi sposti i capelli dal viso e di colpo Parigi è reale come le tue labbra sulle mie.

«Ti amo, Shoto», lo dici di nuovo, ma questa volta sai che posso sentirti.

«Ti amo, Katsuki», rispondo senza il minimo di esitazione sciogliendomi in un sorriso che non pensavo di saper fare.

Parigi brilla intorno a noi, i nostri genitori sono troppo lontani per farci male e le tue dita stringono le mie perché in fondo sai che non ho altro modo se non questo per ricordare a me stesso che con te posso permettermi di essere fragile.

Perché lo so, adesso, che se io cado tu cadi con me.

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