Inferno
"Né fiamme e né diavoli.
Credo che sia questo il peggiore degli inferni possibili."
Adam Slayer
Mercoledì 13 Novembre, anno 1342 p.m.
Ore 6 e 47
Mi sveglio pensando che in questa giornata non succederà proprio niente di così emozionante che valga la pena raccontare. Faccio parte di quel nutrito gruppo di persone che pensa di avere un lavoro di merda, un mutuo inestinguibile e una moglie cadente, forse anche più della propria casa. E credetemi che ce ne vuole. La più grande soddisfazione che ho avuto, oltre ad essere stato eletto "cassiere dell'anno", è stata quella di aver finito "Guerra e Pace" di Tolstoj. Non ci ho capito granché, ma credo sia normale per i mediocri, quale sono io. Così come è normale che siano passati quasi dieci anni tra questi due eventi, e che ce ne siano voluti altri cinque per arrivare ad oggi. Insomma, sono il classico signor nessuno, del quale non si legge mai sui libri di storia.
Ore 7 e 12 minuti e mezzo
Vado in cucina per fare colazione. Fuori è ancora buio ma è meglio così: abito in un quartiere talmente squallido che, anche se mi affacciassi dalla finestra, non ci sarebbe comunque niente da vedere. Mia moglie è di spalle e ha indosso una vestaglia da notte, decorata con gli stessi motivi che aveva mia nonna ottant'anni fa sulla tappezzeria della camera appartenuta a sua madre. Ho reso l'idea? I suoi capelli hanno iniziato ad ingrigirsi già da qualche anno, e quei fianchi enormi la fanno assomigliare più ad un'anfora greca che a una donna.
La odio.
Mentre aspetto che il caffè salga, mi siedo e accendo una sigaretta.
"Potresti cortesemente non fumare? Il dottore mi ha fortemente sconsigliato di respirare del fumo passivo nelle mie condizioni."
"Anche a me il dottore ha sconsigliato di fumare e allora sai io cosa ho fatto? Semplice, ho cambiato dottore."
"Fattelo da solo il tuo fottuto caffè." Dice allora mia moglie allontanandosi pestando vistosamente i piedi sul pavimento, in segno di forte disappunto per il mio menefreghismo.
"Dai, non fare così. Non vorrei ritrovarmi all'improvviso giù da basso a fare colazione nella cucina del vicino."
Sento una porta sbattere e una sorta di marcato (che è più incisivo di forte), disappunto. Sempre che vaffa e qualcosa possa definirsi in questo modo.
Donne, non capiscono mai un po' di sano umorismo.
Ore 7 e 33
La metro è strapiena di gente. C'è puzza di sudore e di piedi, ma non è la puzza di piedi comune, no. E' quell'odore di marcio che si ricava dall'aver tenuto su le scarpe da ginnastica, non traspiranti, tutto il giorno. Sto schiacciato contro le porte automatiche ed anche in questo sono fortunato: devo aspettare dieci fermate prima di scendere, e in più devo farlo dalla parte opposta rispetto a dove sono io . Mi consola che il tizio alla mia destra sia troppo occupato a leggere il giornale per accorgersi del casino che c'è nel vagone. Almeno lui sa come tenersi impegnato, anche se per farlo deve costringere me a comprimere la faccia contro il vetro delle porte. Potessi gli brucerei quel dannato giornale. E anche quel cappello color pistacchio.
Appena vedo con la coda dell'occhio la scritta "Porta Antoniana", inizio a farmi largo tra la gente snocciolando un "Permesso" e un "Mi scusi" dopo l'altro. Nel frattempo, le porte si aprono e la gente, dalla banchina, schizza su fulminea per paura di dover aspettare il treno successivo. Ricevo una spallata violenta e un "Levati coglione" davvero poco gentile, ma non rispondo all'insulto e mi dirigo verso l'uscita. Va bene, avrei potuto rispondere per salvare il mio "pseudo-onore" di uomo, ma è qui che sorgono i due principali problemi del mio carattere: per prima cosa, a scuola ero io il ragazzo che il bullo picchiava e non viceversa. Secondo poi non ho sentito bene se ha detto "coglione" o "signore", e capite da voi che le cose cambiano, e non di poco! Sfortunatamente il treno è ripartito subito, quindi non ho potuto chiedere cosa intendesse dire. Ma la sua faccia la ricordo, quindi appena lo rivedrò, avrò le delucidazioni del caso.
Continuo a chiedermi come è possibile sudare già dalle 7 del mattino. Oh no, non mi riferisco al vagone di poco fa, ma alla mia ascella pezzata.
Ore 8 e 01
Eccomi in pista! Sono seduto su una sedia di legno e questo non aiuta di certo le mie emorroidi. Al pensiero che devo aspettare le 22 zero zero, e a quello che domani andrà peggio, mi tranquillizzo un poco. Ripenso alla mia povera mamma: è morta prima che le dicessi che, alla fine, non sono diventato avvocato.
Non tutti i mali vengono poi per nuocere.
Ore 10 e 30
Ci siamo dati i cambi tra colleghi per andare a prendere il caffè. Rimango solo io ma nessuno mi ha ancora detto niente. Ecco che si fa avanti il responsabile, dai che è la volta buona, penso. Tiro indietro la sedia e faccio per alzarmi non appena lo vedo passare, ma il capo me la rispinge dolcemente in avanti. "Fai attenzione" dice "Così potresti cadere".
Ritorno amareggiato a chiedere ai clienti la tessera del supermarket e se desiderano dei sacchetti. "Certo che li voglio, che domande!", mi sento rispondere poco dopo da una signora "Se no dove me la metto tutta questa roba?In tasca?". Io lo chiedevo solo per scrupolo dal momento che i sacchetti si pagano e che in molti hanno le borse personali. Vorrei farlo notare, ma ricordo bene anche la faccia di questa signora. La prossima volta vedi te se non gliene dico quattro.
Ore 13 e 30
Mi mandano a prendere il mio meritato caffè e a fumare la mia cazzo di sigaretta. Arrivato a metà della corsia dei detersivi, a circa dieci metri dal magazzino dove c'è la macchinetta, una vecchietta mi strattona per il camice e indica un forno elettrico posizionato sopra il frigo dei surgelati. "Me lo prenderebbe, gentilmente? Sa, non ci arrivo perché è troppo in alto." La vecchietta ha espresso un concetto ridondante, dal momento che le due cose sono consequenziali. Mi scoccia davvero farglielo notare, quasi quanto mi scoccia non ricordare dove ho imparato le parole "ridondante" e "consequenziale", quindi mi allungo verso il forno, ma questo è posizionato troppo in alto anche per me. "Solo un secondo signora." Il tono con cui pronuncio la frase è simile a quello che potrebbe avere Peter Parker nei confronti di Mary-Jane, prima di saltare giù dalla finestra e salvare il mondo. Io, purtroppo, è già tanto se riesco ad arrivare al frigo dei surgelati senza spezzarmi l'osso del collo. Ritorno con una sgabello metallico che mi permette di guadagnare quei centimetri in più di cui tanto sentivo la mancanza. Evito di fare battute maliziose, perché risulterei più banale di quanto già non lo sia io stesso con la mia sola presenza. Rispondo amabilmente un "Ci mancherebbe" ai ringraziamenti di quella tenera ed inerme vecchietta, ed entro in magazzino. Lì becco il capo, il quale mi avvisa che i miei cinque minuti di pausa sono finiti e che quindi devo tornare al lavoro.
Fottuta vecchiaccia sciancata.
Ore 15 e 30
E' l'ora della pausa pranzo. Vado a togliermi il camice negli spogliatoi dei dipendenti e corro in gastronomia per avere del prosciutto crudo. Ad aspettarmi c'è Giovanni, un tipo un po' strano che ormai conosco da una vita. Fin dal primo giorno di lavoro mi ha subito preso in simpatia e cerca sempre di darmi da parlare, anche se a volte ammetto di esserne infastidito. Ma alla fine non c'è essere umano che non mi faccia questo effetto, quindi niente di nuovo. Mi accoglie con una domanda che mi lascia spiazzato: "Che ne pensi del mondo?". "Mi chiedo di chi sia stata l'idea di progettare un manicomio rotondo", rispondo in fretta. Grazie a Dio la mia risposta lo soddisfa. Ottengo un etto e venti grammi al prezzo di un etto e dieci grammi. "Goditelo" mi dice facendomi l'occhiolino con fare complice. "Contaci. Grazie, Giovanni.". Arrivato alle casse trovo una fila interminabile.
Poco male, di un'ora intera non saprei davvero che farmene.
Ore 16 e 20
L'avevo detto che un'ora intera era troppa. Timbro il cartellino con ben dieci minuti di anticipo, anche se non serve a niente perché il terminale va di quarto d'ora in quarto d'ora. In pratica, che tu entri alle 16 e 16 o alle 16 e 29 non cambia niente. L'orario di entrata sarà sempre quello delle 16 e 30. Quindi, bisogna stare attenti a non timbrare alle 16 e 31, se non si vuole che l'orario effettivo segnato sia quello delle 16 e 45. Lo stesso meccanismo funziona anche per l'uscita, ma al contrario. Vale a dire che se, mettiamo caso, devo uscire alle 21 e 15, dovrò timbrare esattamente a quell'ora, e fino alle 21 e 29 quello sarà l'orario effettivo di uscita. Se timbrassi alle 21 e 14, risulterebbe dal terminale "orario di uscita, ore 21 00". E così via.
Se vi sembra troppo complicato, non arrovellatevi troppo su questo inutile particolare: io dopo diciassette anni che lavoro qui, non l'ho ancora del tutto compreso.
Ah si ora ricordo! Le parole "rintronante" e "conscenziale" le ho imparate da Tolstoj.
Ore 17 e 30 e qualche minuto di troppo che va a rovinare la perfezione dell'orario.
Ergo, ore 17 e 31. Cifra più o meno tonda.
A causa di tutti questi bip-bip mi sta scoppiando la testa. Sono circa otto ore che sono in cassa e incomincio a non poterne più. Clienti che si lamentano, bambini che schiamazzano, persone che si ostinano a caricarmi sul nastro le casse d'acqua quando dico loro che ho i codici e che non ce ne è bisogno. "Va beh, che sarà mai?Fa un po' di palestra, no?". Peccato che a forza di fare ogni giorno questo tipo di palestra mi sia venuta la tendinite. Avrete sicuramente già capito che a scuola, da ragazzo, non solo venivo regolarmente picchiato dal bullo di turno, ma in più ,ogni volta che c'era educazione fisica, avevo pronta una giustifica nuova di pacca.
E poi, come diceva il grande Ottavio Tazzi, "il peso si fa a tavola". Si lo so che l'ambito era diverso ma questa, come giustificazione, stavolta ci sta alla grande!
Ore 18 e 10
Il capo mi manda a casa. Non definitivamente s'intende, ma solo per questo pomeriggio. Afferma che è giusto che passi del tempo con mia moglie e che mi prenda qualche ora di riposo. Me lo si legge in faccia che sono stanco e provato, quindi per lui è meglio così. Strano, e io che pensavo che centrasse il fatto che abbia deciso di ridurre gli straordinari a causa della crisi, e che ora i dipendenti sono costretti a fare il doppio del lavoro nella metà del tempo. Invece, stando alle sue parole, mi sono sbagliato sul suo conto perché si sta rivelando essere una persona alquanto altruista e attenta ai bisogni dei suoi lavoratori. Ripercorro la stessa strada del mattino ma a ritroso, salgo sulla metro come sempre straripante di gente, e in poco tempo mi ritrovo all'inizio della strada che conduce a casa mia. Pensandoci bene, gli unici momenti in cui mi sento pseudo-felice (anche se felice è una parola troppo grossa, per essermi cucita addosso, così come pseudo), sono durante il tragitto che mi riporta a casa. Ho la musica nelle orecchie, i miei piedi si muovono uno dietro l'altro né troppo velocemente, né troppo lentamente. Cammino con un passo calmo e sicuro, diciamo, ma non deciso. Purtroppo è proprio sotto casa che quella sensazione di dolce torpore svanisce: non vi voglio rientrare perché sono consapevole del fatto che, non essendo soddisfatto della mia vita, quell'edificio non rappresenta nient'altro che il simbolo della mia schiavitù, tanto quanto lo è mia moglie. Con questo non intendo certo dire che se qualcuno guardasse all'una o all'altra vedrebbe le stesse cose che vedo io. Per chiunque questa casa potrebbe essere più accogliente di quanto lo sia per me, e mia moglie potrebbe addirittura avere più senso dell'umorismo di quanto riesca a capire io. Odio entrambi perché rappresentano la vita che ho e che non mai avrei voluto.
Rappresentano il mio fallimento come uomo.
Ore 18 e 33
Entrando in casa sento dei rumori provenire dalla camera da letto e sento biascicare alcune parole sottovoce di cui però non colgo il senso: "Già qui? Ma avevi detto che...shhh non fare rumore, Cristo..." "Senti lascia fare a me...vedrai che non è così grave." Un momento. Perché sento la voce di mia moglie coperta da quella di un altro uomo? Faccio due passi davanti e apro di colpo la porta della camera da letto.
"Si, è come pensi.". Mi accoglie la voce di mia moglie prima ancora che possa guardarla negli occhi.
"Ascolti la questione è questa, e cioè che..."
"Stai zitto Roger, fai parlare me. E' mio marito, saprò cosa dire?"
Rimango in piedi a fissare mia moglie e quel tizio, che non conosco, che battibeccano tra le coperte sul cosa dirmi e su come dirmelo. Li lascio fare, tanto neanche io so molto bene cosa dire, né cosa fare.
"Dai, per favore, guardiamo in faccia la realtà dei fatti senza prenderci in giro. Tu sei un fallito, un uomo che non ha mai avuto un futuro neanche quando aveva vent'anni, un disadattato cronico, un pavido, un sottomesso e per giunta hai anche un lavoro di merda."
"Cara, non mi sembra questo il momento di essere così duri. Se lui è un povero coglione senza speranze non è mica colpa nostra. Alla fine noi dobbiamo solo pensare a coltivare il nostro amore, e a vivere felicemente insieme gli anni che ci restano."
Questa volta ho sentito bene, ha detto proprio coglione.
Il tizio esce dalle coperte, si rimette addosso mutande, calzini e calzoni e poi si ferma a fissarmi per un istante. "Ma cosa fa?" esclama incattivito "Se ne vada che mi sto cambiando".
"Chiedo scusa." Balbetto maldestramente ed esco timidamente dalla camera. Non so se essere più allibito o schifato: ma quale persona sana di mente avrebbe il coraggio di andare a letto con mia moglie?
Ore 22:47
Mia moglie è stesa su un fianco e dorme vicino a me, come sempre, come se nulla fosse successo. Alla fine, neanche per me è successo nulla di grave, solo che io non riesco proprio a dormire. Continuo a rigirarmi nel letto senza riuscire a prendere sonno fino a che, all'improvviso, tutto non mi appare chiaro e so cosa devo fare. Mi alzo senza fare rumore, raggiungo la cucina e prendo un coltello in ceramica di quelli larghi per tagliare la carne. Ritorno in camera e mi avvicino a quella stronza che sta dormendo. Russa così forte, ignara di tutto. Fissandola attraverso quei suoi occhi suini socchiusi, le pianto il coltello dritto nello stomaco e vado così in profondità che il manico si incastra nella carne e fatico ad estrarlo. Mentre il sangue esce copioso dalla lacerazione, lei si sveglia urlando come un'ossessa e tenta di afferrarmi i polsi, contorcendo la faccia in smorfie di estremo dolore. Per farla tacere le stringo con una mano la gola e la colpisco ripetutamente al setto nasale con il manico del coltello impregnato di sangue. Mi stupisco di come le mie braccia così esili riescano a tenere a bada quell'ammasso di lardo di cento e più chili, e smetto di percuoterla solo quando sento il rumore secco delle ossa facciali che si rompono. Poi mi allontano lentamente dal letto e rimango qualche secondo a vederla agonizzante e quasi senza vita. Vediamo se anche in queste condizioni Roger ti vorrà ancora; qualora così non fosse, sappi che ti ho fatto un grande favore, perché vuol dire che allora non era amore vero, penso. Mi asciugo la fronte con la manica del pigiama e poi torno furiosamente a strappare brandelli di carne del corpo di quella che, un tempo, è stata mia moglie, ma che tra poco sarà solo cibo per vermi.
Dicono che ognuno ha la vita che si sceglie ma, che voi ci crediate o no, è stato quel tipo di vita ad aver scelto me. Pensate che qualcuno mi abbia mai preparato a tutto questo? Pensate davvero che sia facile vivere una vita sempre uguale, nella quale l'unico cambiamento risiede nel vedere qualche capello grigio in più qua e là, e qualche chilo in più? Beh, non lo è affatto. Il pensiero di aver finalmente eliminato uno dei tanti simboli della mia schiavitù mi rende felice, per la prima volta dopo così tanti anni. Ora mi sento davvero libero. Non so se ci sia qualcosa dopo la vita, ma so con certezza che non può sicuramente essere peggio di tutto quello che ho dovuto sopportare fino ad ora. Così apro la finestra della camera, mi sporgo dal parapetto, e senza indugiare oltre, mi lascio cadere giù.
Prima di morire penso che magari non si leggerà mai di me nei libri di storia, ne sono certo, ma di sicuro domani tutti i giornali della Nazione parleranno di me e di ciò che ho fatto.
E' già qualcosa, e mi basta.
Giovedì 14 Novembre, anno 1342 post mortem
Ore 6 e 47
Mi sveglio pensando che in questa giornata non succederà proprio niente di così emozionante che valga la pena raccontare.
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