10.
Il viaggio in macchina si svolse in un silenzio imbarazzato. Ogni tanto si girava a guardarmi e i suoi occhi dicevano di più di qualsiasi parola detta a voce. Erano rassicuranti . E riuscivano a mettermi a mio agio. Sembrava assurdo che fossimo così impacciati. Non mi era mai capitato con nessuno, di sentirmi così.
Avrei voluto sapere a cosa stava pensando. I miei occhi erano fissi sulla strada che scorreva di fronte a me. Ma in realtà non stavo guardando nulla.
Protesi una mano verso lo stereo, incrociando la sua che cambiava marcia. La scostai subito scusandomi. Lasciai perdere anche la musica.
La macchina su cui stavamo viaggiando era la mia, ma gli avevo permesso di guidarla. Non sapevo bene il perché, di solito non lo permettevo a nessuno. Ero molto legata alla mia auto. Era stata di mio fratello Travis, ma quando era partito in missione me l'aveva lasciata. Diceva che ormai non faceva più per lui. Apparteneva ad una vita passata che non sentiva più sua.
Era una Dodge Charger srt8, un vero splendore. Per un lungo periodo mio fratello era stato una testa calda. Quando era entrato in un circuito di corse illegali, l'aveva acquistata senza pensarci su due volte. Era il suo sogno da sempre possederne una. Era una macchina molto costosa, quindi mi domandai dove avesse preso tutti quei soldi. A volte mi ero detta che forse era meglio non sapere.
Un giorno senza che ne avessi capito il motivo, decise di arruolarsi nei marine. Lasciò stare le corse e tutte le follie che aveva fatto in passato. Così di punto in bianco. Spesso gli avevo chiesto il motivo di questa sua decisione. Diceva sempre che un giorno, quando se la sarebbe sentita, me ne avrebbe parlato. Mi regalò la macchina facendomi promettere che l'avrei trattata bene.
Vivendo con due fratelli, avevo imparato tutto quello che si poteva sapere sulle auto. Come aggiustarle e con il tempo anche a modificarle. Ero un po' un maschiaccio in questo. Crescere con la sola presenza maschile, mi aveva portato ad avere questo tipo di interessi.
Di nascosto da tutti avevo fatto una piccola modifica al motore. Aggiungendo qualche cavallo in più a quelli che già aveva. Non era stato poi così difficile. E in più avevo migliorato i consumi di carburante. Non sapevo bene perché l'avessi fatto. Era stato così semplice seguire la modifica che avevo trovato su internet. Ne avevo sentito il bisogno, anche se non avevo mai sfruttato appieno le sue potenzialità.
Quando sentii qualcosa sfiorarmi il ginocchio, tornai alla realtà. Brian mi stava accarezzando, per attirare la mia attenzione. Dovevo essere rimasta imbambolata come una sciocca.
Incrociai il suo sguardo. Mi fidavo di lui, senza avere un motivo reale. Mi faceva sentire protetta la sua presenza. Come se con lui vicino, non sarebbe potuto accadermi niente di brutto. In realtà io sapevo poco o niente di lui, quindi razionalmente non avrei dovuto fidarmi.
La macchina si fermò lentamente. Senza frenate brusche. Eravamo nel parcheggio di un locale, in cui ero andata qualche altra volta. Non era niente di troppo pretenzioso. Solo in quel momento mi accorsi di avere una gran fame. Il mio stomaco iniziò a farsi sentire con prepotenza. Arrossii per i rumori che emetteva. Di sicuro dovevano essere arrivati anche alle sue orecchie.
Brian mi sorrise, incoraggiandomi a scendere. Nessuno dei due aveva ancora proferito parola. Da quando eravamo usciti dalla suite dell'albergo, non ci eravamo parlati.
Lo osservai scendere dalla mia macchina. Mi aspettò all'entrata del ristorante, tenendomi la porta aperta. Per un attimo mi lasciò perplessa. Il Brian che avevo conosciuto all'inizio non era così. Forse l'avevano rapito gli alieni? Gli avevano fatto un qualche lavaggio del cervello? Non riuscivo a credere ai miei occhi.
Lo seguii all'interno, dove aleggiavano dei profumini invitanti. Come avevo potuto dimenticarmi di avere fame? Quando era stata l'ultima volta che avevo toccato cibo? Ci riflettei su. A colazione, ma forse la spremuta d'arancia da sola, non poteva essere considerata come pasto.
L'atmosfera in quell'ambiente era soffusa. Con la tenue luce dei faretti installati nel soffitto a rischiarare la sala. I tavoli in legno scuro, abbelliti da tovaglie chiare damascate, erano sparsi per tutto il locale. La cucina era a vista, proprio dietro al bancone del bar. Si poteva tranquillamente vedere lo chef cucinare le ordinazioni sotto i nostri occhi. Il posto era davvero carino.
La cameriera ci accompagnò ad un tavolo un po' in disparte. Era situato esattamente nell'angolo opposto all'entrata. Doveva aver prenotato mentre aspettava che mi vestissi. La ragazza ci lasciò i menù e prese le ordinazioni delle bevande. Neanche per un attimo avevo staccato gli occhi, dalle mani che tenevo in grembo. Attorcigliai nervosamente una ciocca di capelli sfuggita all'acconciatura. Non riuscivo ad allontanare la sensazione di imbarazzo che mi invadeva.
Sentii uno sfarfallio nello stomaco. Lo associai alla fame che mi ero accorta di avere.
Dovevo cercare di ricordare chi avevo davanti. L'arrogante ragazzo che tutte anche solo per una notte, volevano nel proprio letto. Quello che infilava la lingua nelle scollature, come se niente fosse. Che non mi aveva difesa con la sua amichetta. Anche perché in fondo io chi ero per lui? Nessuno. Il ragazzo che mi aveva ignorata quando mi aveva vista entrare in casa mia.
Quella mattina se ne era andato dalla mia stanza in modo furtivo. Come se stesse fuggendo da me. E ora mi ritrovavo a cena con lui. Perché si comportava così? Piuttosto c'era da chiedersi per quale motivo io ero seduta di fronte a lui.
Ero frastornata dalle domande che mi frullavano per la testa. All'improvviso sentii tutta la stanchezza della giornata trascorsa. Avrei desiderato volentieri tornarmene a casa. Fare una lunga doccia, finché l'acqua non si fosse raffreddata. Infilarmi il mio comodo pigiama e adagiarmi finalmente nel mio letto. Magari anche leggere qualche pagina di un libro. Perché avevo accettato di cenare con lui? Per educazione, ecco spiegato il perché. Avevo accettato le sue scuse, ma non per forza dovevamo andare d'accordo. O essere amici.
Trincerata dietro al menù, presi a studiarlo. Con un interesse che in realtà non c'era. Mi aiutava a mascherare l'imbarazzo, di quel silenzio troppo prolungato. Sentii il suo sguardo posarsi su di me.
La cameriera tornò con il blocco e una penna in mano, per prendere le ordinazioni. Lo fissò spudoratamente, come facevano tutte le ragazze del campus. Quasi non badò a me che ero proprio di fronte a lui. Aspettai diligentemente il mio turno. Pazientai a lungo che la cameriera si stancasse di osservarlo.
«Cosa posso portare a lei signorina?» domandò finalmente, rivolgendosi a me. Mi colse alla sprovvista, dato che nel frattempo ero presa nelle mie divagazioni mentali. «Se ha bisogno di altro tempo per pensarci, ritorno tra un po'?» chiese educatamente. Sapevo che la sua carineria, dipendeva solo dal ragazzo che avevo di fronte.
«Non serve, ho già scelto. Vorrei questo...» mi sporsi un poco verso di lei, per farle vedere quello che stavo indicando sul menù.
Finito di appuntare tutto sul suo blocco, fece un sorriso nella direzione di Brian. Lui stranamente non ricambiò quel gesto. Non ci badai più di tanto. Andandosene ancheggiò in modo vistoso, per mettere ben in evidenza il suo fondoschiena. Impossibile non notarlo, dato che indossava dei jeans strettissimi.
Lui sorrise scuotendo la testa, come se fosse appena successa la cosa più comica del mondo.
«Sono sempre così prevedili...» disse a mo di scusa.
«Non devi giustificarti con me per questo...» mi affrettai a dire. Sentivo che inconsciamente stavo ricostruendo il muro che la sera precedente era andato sgretolandosi. Si innalzava dentro di me, più forte di prima. Sapevo che non avrei dovuto lasciarlo entrare nella mia vita. Era stato un grande errore.
«Invece voglio farlo con te! Voglio conoscerti meglio e per fare questo devo essere sincero con te. Voglio conoscere il tuo mondo, se me lo permetti...» mi accarezzò con dolcezza, la mano che tenevo sul tavolo. E piccoli brividi scesero giù per la mia schiena. La scostai con delicatezza arrossendo. Tornando a mettere un po' di spazio tra noi. Quel mio muro interiore era diventato di morbida gelatina. «Sei bellissima quando diventi tutta rossa e la tua dolcezza è disarmante, anche se non la mostri a chiunque...con me cerchi sempre di mantenere le distanze. Non voglio farti del male, tutt'altro!» e che significava quest'ultima frase? Era tornato ad essere la persona imprevedibile che non conoscevo.
«Tregua?» sussurrai, tendendogli la mano in segno di pace. Invece di stringerla se la portò alle labbra. Sfiorandola delicatamente con le sue labbra. Il mio cuore batté forte a quel contatto. Perché doveva farmi ogni volta questo effetto? Le mie guance già rosse, avvamparono ancora di più. Se possibile.
Presi a giocare con le molliche di un grissino. Sbriciolandole ancora di più.
«Mi piacerebbe sapere a cosa stai pensando...» Brian fu il primo a rompere il silenzio. Non gli avrei mai rivelato cosa mi passava per la testa. Dato che i miei pensieri giravano intorno a lui.
«Niente di importante!» lo dissi in tono un po' troppo scostante e me ne pentì subito. Prima di poter rimediare, lui mi precedette. Senza lasciarmi modo di parlare.
«Ma fai sempre così? Ogni volta che qualcuno cerca di avvicinarsi a te, non ci pensi due volte a chiuderlo fuori...» sbuffò pensieroso. Che gliene importava in fondo di quello che facevo io?
«Non lo faccio intenzionalmente, è solo un riflesso involontario...» cercai di giustificarmi. Anche se non avrei dovuto farlo. La vita mi aveva portata ad essere così, non potevo farci nulla. Era più forte di me. «Mi dispiace...» confessai, tenendo gli occhi bassi sulle mie mani. Mi sentii mortificata.
«Tu hai paura di essere ferita! Ma io non sono qui per farlo...» era così serio, che non si poteva non credergli. Mi sorrise. Trasmettendomi sicurezza. Ancora non capivo cosa volesse da me.
Proprio in quel momento arrivarono le nostre ordinazioni. La cameriera non poteva scegliere momento peggiore. Per una volta nella mia vita, sentii di voler raccontare qualcosa di me. Non lo facevo quasi con nessuno. Tranne con le persone di cui mi fidavo. Come Beth e Madison. E come avevo sempre fatto con i miei fratelli. Era raro per me, provare questo desiderio.
«Posso farti una domanda?» chiese masticando un boccone della sua bistecca. Annuii con la testa, avendo la bocca piena anche io. Mi ero fiondata sul mio piatto, come un condor a digiuno da giorni. «Da quello che ho potuto vedere, mi sembri una persona molto riservata. Non mi sembra che ti piaccia molto metterti in mostra...dimmi se mi sbaglio?» chiese conferma delle sue supposizioni.
«È così...» confermai, cercando di arrotolare un po' dei miei spaghetti sulla forchetta. Avevo ordinato gli spaghetti al pomodoro, con polpette. Erano classici, ma sempre buonissimi.
«Mi chiedo perché ti fai fotografare mezza nuda, se ti infastidisce. Non voglio giudicarti, sto solo cercando di capire perché lo fai...» le sue parole mi parvero vere. Non mi diede modo di dubitare.
«Vedi, è una storia abbastanza lunga...» provai a dissuaderlo.
«Abbiamo tutto il tempo che ti serve per spiegarmi...» era davvero deciso ad ascoltarmi. Restò in attesa che io iniziassi a parlare. Giocherellai con il cibo, sembrava essermi passata di nuovo la fame.
«Devi sapere innanzitutto che non ho un buon rapporto con mio padre...» esordii, facendo subito dopo una pausa. Dovevo raccogliere tutte le cose che avevo in testa e formulare delle frasi. Non volevo spaventarlo con quello che avevo dovuto subire da piccola. Mi costava molto parlare di questo argomento in particolare. Ma presi coraggio. «Quando ho deciso di frequentare il college, ho preso la decisione di essere completamente indipendente. Non volevo più dipendere da nessuno, tanto meno da mio padre. I miei fratelli, si sono offerti di pagarmi l'università. Ma io non voglio essere di peso per nessuno, voglio potermela cavare da sola. Capito?» lo vidi annuire con la testa. Per non interrompere il mio flusso di parole. «Detesto dover sfruttare il mio corpo, ma fare la modella è un lavoro in cui si guadagna bene. All'inizio ho provato così un po' per gioco. Poi ho visto che riuscivo a pagare la retta scolastica, l'affitto, le bollette e tutto il resto senza troppi problemi. Così ho continuato. Mi infastidisce essere vista solo come un corpo, una bella confezione da mettere in mostra...» man mano che continuavo a parlare, abbassavo sempre di più lo sguardo. Mi vergognavo così tanto. «Però non lo faccio così spesso, solo di tanto in tanto quando capita. E accetto solo i lavori che mi pagano meglio. Di solito indosso abiti, oggi con la lingerie è stata un'eccezione. Durante la settimana lavoro come cameriera nel locale in cui mi hai vista...» parlai senza prendere fiato neanche una volta. Non sapevo bene perché cercavo di giustificarmi con lui. Però lo stavo facendo.
«Guardami...» sussurrò in tono dolce. Mi sfiorò il mento, per farmi sollevare il viso. «Non ti sto giudicando come pensi te, voglio solo capire e te me lo hai spiegato. Ti ringrazio perché lo stai facendo, anche se per te è difficile. Quello che non capisco, è perché non permetti ai tuoi genitori di pagarti almeno gli studi. Sarebbe più semplice così per te...» provò a consigliarmi. Ma lui non poteva sapere come stavano le cose con la mia famiglia.
«Mio padre mi ha ferita in ogni modo in cui si può ferire una persona. Io non voglio essere in nessun modo in debito con lui...» esitò titubante. Compresi i suoi dubbi e i suoi pensieri, leggendoli nei suoi occhi. Gli fui grata che non mi avesse fatto altre domande.
«Capisco. Lascerò cadere il discorso, anche se vedo che c'è qualcos'altro che non mi vuoi dire. Per qualunque cosa puoi contare su di me...» l'aveva detto davvero?
«Quasi non ci conosciamo. È così strano sentirti dire una cosa del genere...» sorrise, concordando con me. Eravamo due perfetti sconosciuti.
«Hai ragione, è vero. Ma per qualsiasi cosa...»
«Ok, ok...» gli concessi. «Ora però tocca a me, raccontami qualcosa di te...» lo incoraggiai a parlarmi di se.
«Che cosa vuoi sapere?» domandò come se gli avessi fatto la domanda più strana del mondo.
«Di sicuro non il tuo gruppo sanguigno. Le solite cose, da dove vieni, cosa vuoi fare in futuro. Non fai mai questo tipo di conversazioni con le ragazze?» lo presi in giro. Mi pareva ovvio che lui con le ragazze facesse ben altro.
«Ignorerò deliberatamente la tua ultima domanda. Sono sicuro che non vorresti sapere la risposta...» mi strizzò l'occhio e io immaginai che la sapesse lunga al riguardo. Lasciai correre. «Sono nato a Watsonville, vicino Santa Cruz. Non so se la conosci. Ma la mia famiglia si è spostata spesso. Ora abitano poco distante da qui. Con la macchina ci vuole una mezz'oretta prendendosela con comodo. Anche se mi sono spostato molto, la compagnia non mi è mai mancata dato che ho quattro fratelli. Quindi anche se non riuscivo a farmi amici, sapevo come passare il tempo»
«Quattro fratelli?» restai stupita. Non pensavo che avesse una famiglia così numerosa.
«Sì, siamo in cinque. Il maggiore è Cameron, poi c'è mio fratello Luke, io, Liam e Matthew è il più piccolo, ha solo sei anni» se avessi avuto così tanti fratelli, penso che mi sarei confusa.
«E gli altri quanti ne hanno?» ero sempre più curiosa di sapere cose sul suo conto. Finché era così ben disposto nei miei confronti, volevo sfruttare la situazione. Per conoscere sempre più cose.
«Cam è il maggiore e ne ha ventotto, Luke venticinque, io ne ho ventitre e Liam ne compie diciotto tra poco...» spiegò con pazienza.
«E di tua madre e tuo padre che mi racconti?» chiesi un po' troppo indiscreta. Ma lo vedi sorridere, quindi lo stavo infastidendo troppo con le mie domande.
«Mia madre è una grande donna. Ci ha praticamente tirato su tutti da sola, diciamo che mio padre è stato poco presente nelle nostre vite. Se n'è andato quando eravamo piccoli. Mia mamma si è risposata con un altro uomo e ora è finalmente felice. Matthew infatti è figlio di Robert, il mio patrigno. È per questo che è il più piccolo. Ma parliamo d'altro...» capivo benissimo che c'erano cose di cui non voleva parlarmi. C'era qualcosa in quello che aveva detto che lo rendeva nervoso. Rispettai la sua decisione, senza indagare. «Te non sei di qui» non era una domanda, ma una semplice constatazione.
«Io vengo da Pacific Grove, come Elizabeth, non so se lo conosci...» sembrava perplesso, ma cambiò subito espressione. Come a voler mascherare qualcosa. Magari era ancora turbato da quello che mi aveva raccontato. Lasciai correre.
«E come mai sei finita da queste parti?»
«Volevo mettere un po' di distanza tra me e mio padre. Anche se mi dispiaceva allontanarmi dai miei fratelli...» spiegai cauta.
«Quanti ne hai?» lo ringraziai mentalmente, per non avermi chiesto di mio padre.
«Due, tutti più grandi di me. Io sono un po' la piccolina. Thomas il più grande, lavora in uno studio di avvocati. Ha chiesto il trasferimento per avvicinarsi a me. Ora abita poco distante da qui, ad una trentina di minuti di macchina. Invece Travis è arruolato nell'esercito e ora è in missione chissà dove. Ho un bellissimo rapporto con tutti e due...» confessai, orgogliosa di loro.
«Come mai Elizabeth ti ha seguita fin qui?»
«Beth è un po' la sorella che non ho mai avuto. E per lei è lo stesso, dato che è figlia unica. Non riuscivamo a separarci. Così a deciso di seguirmi...»
«Avete un bel rapporto voi due...» disse con un espressione dolce sul volto. Ma che gli prendeva?
«Sì» confermai radiosa. Le volevo davvero bene. Lei era una dei pochi, che non mi aveva mai abbandonato. C'era sempre stata per me. E io ci sarei sempre stata per lei. Qualunque cosa fosse successa.
«Come mai hai scelto proprio questa università?»
«Mi è sembrata quella giusta. Non c'è un motivo particolare...» in realtà il motivo c'era. Ma non me la sentivo ancora di dirglielo. Lo tenni per me.
«Credo di capire...» sembrava come assorto tra i suoi pensieri.
Il resto della sera passò velocemente. Continuando a domandarci cose delle nostre vite. Ogni cosa in più che sapevamo l'una dell'altro ci avvicinava. Rendendo sempre più l'immagine che avevo di lui, sbagliata e inesatta. Lui era diverso da come si mostrava. Era proprio come mi aveva detto Josh, era migliore di quello che sembrava all'apparenza.
Prima che me ne accorgessi avevamo finito di mangiare, ed eravamo passati al dolce.
*
Brian fermò la macchina fuori dal vialetto di casa mia. Durante il viaggio fino a lì, avevamo chiacchierato con tranquillità. Come due vecchi amici. Sentii una stretta allo stomaco. Non volevo salutarlo. Non volevo separarmi da lui. Avevo passato una bella serata in sua compagnia. Ormai non mi capitava da tempo. Avrei voluto darmi un pizzicotto, per vedere se era vero. Forse da un momento all'altro mi sarei svegliata, scoprendo che era stato solo un bel sogno.
Mi ero offerta di riaccompagnarlo al suo appartamento. Ma Josh gli avrebbe dato un passaggio senza problemi. Lo stava aspettando in macchina, posteggiato poco più avanti.
Quando scendemmo dalla macchina, cercai di temporeggiare. Giocando con le chiavi davanti alla porta. Cercai qualcosa da dire, magari avrei potuto invitarlo ad entrare. Potevo offrirgli qualcosa da bere. E avremmo potuto continuare a chiacchierare come avevamo fatto fino a quel momento. Ma non ebbi tempo di proferire una sola parola, perché lui mi anticipò.
«Grazie di aver accettato il mio invito. Ho passato davvero una bella serata con te. Ho intenzione di starti accanto per un bel po', non sparirò a meno che non lo voglia tu, te lo giuro...» non riuscii a dire nulla.
Non mi aspettavo di sentire quelle parole da lui. «Buona notte Occhioni verdi...» mi faceva sempre effetto, quando mi chiamava così. Si avvicinò a me tanto che riuscì a sentire il suo respiro sulla pelle. Rabbrividii al pensiero di averlo a pochi centimetri da me. Avrei potuto sfiorarlo con la punta del naso, se solo avessi voluto. Posò le sue labbra sulla mia fronte. E mi accarezzò la guancia. Rubò un fiore che avevo ancora tra i capelli. Mi ero dimenticata di averli ancora addosso. E pensare che ci ero andata anche in giro incurante.
Lo vidi andarsene con una mia peonia tra le mani. Senza staccare il suosguardo da me.
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