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La furia del Buio

2016 Detroit city

«Stai ancora leggendo quelle vecchie pagine, Helena?»

Helena abbassò il vecchio diario ingrigito dal tempo e guardò con un'aria sfinita Mark. La luce debolmente castana che scivolava dai sue due occhi stanchi trafisse per un attimo la penombra dell'ufficio. L'aria era umida, benché all'esterno l'inverno regnasse indisturbato dai più miseri vicoli agli attici più sfarzosi di Detroit.

«Quelli di Washington ci avevano pregato di prenderci un periodo di riposo, dopo la nostra ultima missione in Alaska.» Disse Mark, la sigaretta appena accesa tra le sue dita tozze e callose.

Helena si abbandonò con la schiena sulla scomodissima sedia che l'aveva ospitata fino a quel momento, un lampo di struggente tristezza le colorò tutto il viso.

«Meno parliamo dell'Alaska e meglio è; ancora non riesco a dormire bene la notte se ci penso.» Ed ancora la notte non riusciva a fare a meno della solita pasticca di xanax, verso la quale aveva ormai sviluppato una dipendenza, ma questo non lo disse a Mark, in fondo i suoi problemi con gli psicofarmaci non erano iniziati in Alaska.

«Cosa speri di trovare in quelle vecchie pagine?» Disse Mark, col tono della sua voce tramutato in una squillante eco dalla disordinata solitudine del vecchio archivio del distretto. Tutto era in disordine. Scatoloni di documenti accatastati l'uno sull'altro, polvere che ricopriva come neve candida le mensole delle librerie stracariche di carpette e raccoglitori vari. C'era perfino un vecchio Commodor sopra un tavolino in fondo alla stanza, talmente vecchio da non meritare nemmeno una spina di alimentazione. Eppure Helena lo invidiava perché anche lei a volte avrebbe avuto bisogno di staccare la spina dal suo cervello ed abbandonarsi alle imprevedibili maree dell'esistenza, smettere di pensare, semplicemente essere in balia della più dolce tranquillità; salvo poi scacciare quelle fantasie. "Quando sarò morta avrò tutto il tempo di abbandonarmi".

La morte...Era appunto quello il suo lavoro.

Mark le lanciò le foto delle ultime vittime.

La carta era lucida, liscia al tatto, talmente delicata che nessuno, ad accarezzarle col palmo delle mani, avrebbe mai sospettato che su di esse era dipinta la morte.

«Le ho già viste queste.»

«Lo so, ma se vuoi trovare degli indizi è qui che li devi cercare, non nel vecchio diario di un pazzo.» Tirò una boccata di fumo che gli inebriò i polmoni, mentre Helena allontanava le macabre foto lontano da se.

«E' qui che ti sbagli Mark: la tipologia di delitto è la stessa, gli strumenti usati per uccidere quella povera disgraziata sono gli stessi. Non può essere un caso.»

Il telefono di Mark prese a squillare.

«Agente Matterdes. Cosa?»

Helena fece finta di disinteressarsi a quella chiamata e riprese in mano il diario che stava leggendo.

«Si, arriviamo.» Ripose il cellulare nella tasca della divisa.

«Ne hanno trovato un altro vero?»

Non ci fu bisogno che Mark rispondesse.

Gli occhi del cadavere erano di un azzurro splendente, l'unica cosa che rimaneva della splendida diciottenne a cui era appartenuto quel corpo, ormai semplice ammasso di carne vuota.

Attorno alle spoglie inerti di Cecilia Augherti, o almeno così Mark aveva detto che si chiamava, vi erano cinque alti specchi, l'uno identico all'altro, tutti montati su un piedistallo di legno. Ognuno rifletteva la stessa, diabolica scena: la morte, l'annientamento, la furia della malvagità umana. Eppure ad Helena parve di cogliere nella differente disposizione di ciascuno specchio una differenza che ancora il suo innato intuito non riusciva a codificare in un sensato ed articolato ragionamento.

L'assassino, nella sua mente perversa, doveva aver avuto i suoi motivi per mettere in scena quell'artigianale, quanto brutalmente e originale spettacolo di morte.

«L'ora del decesso deve risalire ad almeno tre giorni fa, ma non posso essere preciso così su due piedi.» Disse il medico legale ad Helena, mentre un fotografo dell'FBI scattava alcuni macabri ricordi di quella mostruosità.

«Chi ha trovato il cadavere?» Chiese Helena ai due poliziotti che per primi erano arrivati sulla scena del crimine.

«Una prostituta. Questo vecchio deposito abbandonato è da sempre un covo di prostitute e drogati. »

«La testimone era sola?»

«Si, ma mi ha detto che l'entrata è stata misteriosamente chiusa con un lucchetto per ben tre giorni. »

«E nessuno si è insospettito per questo?»

«Quelle puttane dovranno aver pensato che fosse opera degli agenti del comune o di noi poliziotti e quindi si sono andate a trovare un altro posto per bucarsi le vene con l'eroina.» Aggiunse svogliatamente l'altro agente, evidentemente meno sensibile alle problematiche sociali di alcuni suoi concittadini meno fortunati.

«Quindi l'assassino ha chiuso la vittima qui dentro, per poi riaprire il deposito dopo tre giorni?» Il medico legale osò avanzare una propria considerazione

«E' tutto come allora, Mark.»

«Tutto come cosa, Helena?» Fece finta di non capire Mark.

«Il caso Stokes, tutto come allora, compreso...»

Compreso il dettaglio più inquietante e perverso dell'intero delitto, talmente inumano e mostruoso che nessuno, compreso il medico legale, aveva avuto il coraggio di far notare.

Il cadavere era nudo ed interamente cosparso di vernice bianca, quella banalissima e a buon mercato che usano i muratori per tingere i muri delle case. Ma la cosa più sconvolgente non era questa, bensì il modo in cui quella povera ragazza doveva essere morta; un supplizio orrendo, ma che ormai, nella mente di Helena, era sempre meno un'ipotesi.

Quella povera disgraziata doveva essere morta per soffocamento. Sicuramente il killer, dopo averla tramortita o drogata con chissà quale sostanza, l'aveva portata sul proprio personalissimo "set" che ovviamente si era già preoccupato di preparare, con tanto di specchi. A quel punto non gli era rimasto che spogliare la sua vittima e tingerla di vernice, ovunque, dai capelli alla punta dell'alluce. Solo gli occhi erano puliti, l'unica cosa che non poteva, o voleva, dipingere con la squallida vernice industriale. La morte doveva essere giunta qualche ora dopo, tanto lentamente quanto inesorabilmente. L'assassino sapeva benissimo che ai frequentatori abituali di quel posto, drogati e prostitute, non sarebbe mai venuto in mente di andarsi a lamentare con le autorità locali dell'improvvisa chiusura del loro amatissimo rifugio clandestino. Così la povera Cecilia aveva avuto tutto il tempo di crepare in santa pace, senza interruzioni di sorta.

«Un particolare mix a base di tetrodotossina a bassissime dosi...sufficienti a paralizzare, ma non ad uccidere; la vittima deve essere rimasta consapevole di tutto fino alla fine.» Il dottore disse ciò che Helena già aveva capito.

«Va bene dottore, abbiamo visto abbastanza.» Disse Mark, facendo segno ad Helena che era ora di levare le tende da quel covo di oscurità e morte.

Lungo il corridoio che li separava dall'uscita del lugubre deposito merci abbandonato, Mark non poté fare a meno di accendersi l'ennesima sigaretta.

«Sarà necessario interrogare tutti i drogati, spacciatori e battone che di solito frequentano questo postaccio, dobbiamo sapere se ci sono stati movimenti strani nei giorni precedenti al delitto. Quegli specchi non potevano essere già qui, qualcuno deve averceli portati.»

«Abbiamo già messo sotto torchio un paio di buttane portoricane, ma non ci hanno detto nulla di utile; forse hanno paura.»

«E il custode? Chi è ad avere la responsabilità di questa zona del porto?» Chiese Helena

«Non preoccuparti, me ne occupo io di questi dettagli.» Rispose Mark; lui era sempre tranquillo e sicuro ed Helena lo invidiava per questo, ma allo stesso tempo lo ammirava profondamente.

«E' grazie ai dettagli che si risolvono i casi più difficili.» Disse infine Helena, mentre una parte del suo cervello si era messa a scrutare l'oscurità latente dentro sè stessa...anche l'oscurità la fissò e lei trasalì per l'orrore; le venne in mente una frase di Nietzsche e smise per qualche minuto di pensare al proprio passato.

Una volta fuori, non riusciva ancora a liberarsi la mente dall'acre odore di vernice che adesso, nelle sue narici, le sembrava che si mischiasse allo smog della grande città.

Suggestione, pensava, ma l'immagine della povera Cecilia era lì, incollata ai suoi occhi castani, ostinata e viscida come un insetto sul vetro di una finestra. Passerà, si diceva, si depositerà insieme alle altre nell'angolo più remoto di me.

Poi sentì come una fitta al petto e sentì come se qualcosa dentro di sè si spezzasse...la voglia di piangere, di nuovo, lei che non piangeva da anni, troppi ormai.

«Meglio che vai a casa adesso, vado io al commissariato di zona per gli ultimi accertamenti.» Disse Mark, fissando la sua collega dietro una maschera di malcelata apprensione.

«Non sono stanca...Vengo anch'io con te. »

«No Helena, ci vediamo domani, stesso posto di oggi; anzi ti vengo a prendere io. Devi solo promettermi che non leggerai di nuovo quelle scartoffie.»

Helena fissò il mozzicone semi spento tra le dita di Mark.

«Io sono convinta che la chiave per comprendere la psiche del bastardo figlio di puttana che ha ucciso quella povera ragazza sia in quel diario..»

«Helena...»

«Chiunque sia l'autore di questi delitti è ovvio che si stia ispirando ad Irman Stokes. Quindi se vogliamo capire come si muove, come e perché uccide, dobbiamo capire chi era, anzi, cos'era Irman Stokes.»

«Un demone....Non a caso la stampa lo ha ribattezzato il demone bianco di Aunterville, in onore della prima città in cui ha iniziato la sua "carriera".»

«Già...» Nella voce di Helena risuonavano note di sconforto, miste ad una strana quanto struggente malinconia.

«Se proprio sei convinta che quel diario serva a qualcosa, possiamo farlo leggere a qualcun altro.»

«No Mark, devo essere io.»

Anche se il passato stampato sulle righe di quelle pagine vecchie di anni le straziavano l'anima e gettavano sulle sue vecchie ferite olio bollente e fiumi d'angoscia troppo densi e letali per poter essere tollerati; ma questo non lo disse a Mark, se lo tenne per sè insieme a tutti gli spettri del suo passato. Una volta a casa avrebbe iniziato a leggere il diario dall'inizio, perché temeva che prima della pagina del 3 giugno, sulla quale si era soffermata alcune ore prima, gli fosse sfuggito qualche dettaglio fondamentale, anche se ancora non riusciva a capire cosa. L'unico modo per saperlo sarebbe stato rileggere tutto per l'ennesima volta,ed Helena sapeva che soltanto lei era in grado di farlo, perché quella missione era la sua, soltanto la sua.

Ma lei la stava trasformando in una maledizione.

Il caso Stokes era stato una vera manna dal cielo per tutti i media del paese: dalle lande ghiacciate dell'Alaska alle sabbiose coste della Florida, giornali, riviste, trasmissioni televisive appartenenti ad ogni fascia oraria, avevano sguazzato col sorriso sulle labbra nello stagno di sangue e orrore creato da Irman Stokes. Chi era Irman Stokes? Bé, secondo la definizione del più grande criminologo che Helena avesse mai conosciuto: "Un assassino seriale con una spiccata vena di narcisismo, il cui sadismo viene costantemente acuito da una radicata sete di distruzione che, essendo l'assassino fondamentalmente un vigliacco, al di là dell'originalità con cui infierisce sulle sue vittime, trova origine in un forte senso di inadeguatezza che lo porta a nutrire un forte bisogno di rivalsa nei confronti della società e del mondo."

Secondo Mark, invece, Irman poteva essere riassunto semplicemente come: uno stramaledetto figlio di puttana, marcisca all'inferno! Definizione meno forbita, ma decisamente azzeccata.

Quanto ad Helena, lei concordava con i pareri di entrambi, ma sapeva benissimo che non sarebbe riuscita a trarre nulla dalle pagine del killer, se si fosse uniformata al pensiero dei suoi colleghi. No, Helena sapeva bene che per comprendere l'anima di certi...non uomini, perché non lo sono, di questi demoni, bisogna calarsi completamente nel loro mondo di morte e tenebra, senza riguardi per i propri valori e pregiudizi, siano giusti o meno.

Bisogna lasciarsi inghiottire dall'abisso.

E lei lo sapeva fare dannatamente bene, fin da quando aveva iniziato questo lavoro. Non sapeva come mai, cosa avesse per riuscirci così bene, ma, quel che sapeva, e non aveva mai voluto indagare sul perché, era che ci riusciva. Ogni volta era come togliersi un velo, sul quale erano impresse tutte le sue esperienze di vita, tutto ciò su cui poggiavano i suoi valori, le sue avversioni e i tabù, e perderlo nella tempesta...e lasciarsi inghiottire...E così ogni morte, ogni abietta tortura illogica, sbiadiva, per lasciare il posto ad un senso remoto e segreto, un senso intinto nell'ombra più nera ed eccolo: ciò che spinge ogni assassino ad uccidere, lei, anche se lo rifiutava, riusciva a comprenderlo. Una parte di lei, sommersa dal disgusto, vedeva quella ragione, illogica e senza forma, dai contorni sfumati come le foschie d'autunno, ma lei la percepiva, sottile come la lama di un coltello. E non importava quanto tempo dovesse attendere sul fondo dell'abisso, alla fine ce la faceva sempre a capire gli assassini su cui indagava, e alla fine trovava sempre un modo per sconfiggerli. Perché, lei lo sapeva e sperava che sarebbe stato sempre così, il fondo dell'anima di un assassino e come il fondo degli incubi, puoi scendere in un incubo, ma pochi hanno la forza di ricordarsi tutto al mattino. La maggior parte cede alle lusinghe dell'oblio e si lascia andare alle illusioni...Ma lei non l'avrebbe mai fatto.

Sarebbe sempre riuscita a salvare qualcosa da quell'oblio.

15 maggio 1988

Un luogo dimenticato in una vita mai esistita.

Il primo ricordo della prima vita che la mia attuale vita ricorda è nel fondo di una gialla ed arida mattina, nel mezzo di uno squallido quanto sconosciuto paesino in mezzo al deserto dell'Arizona.

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