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Cap. 9- Finisce così?

Luogo: Tsipenude.

Lja

Ero nella caverna, in quella che un tempo era stata la nostra casa.
Il luogo dove ero cresciuta, dove mi ero istruita, dove io e la mia famiglia avevamo trascorso insieme momenti belli e brutti.
Stavo chinata sul corpo della mia sorellina, ancora in lacrime, quando i due soldati che avevo messo fuori combattimento lungo la discesa mi apparvero nuovamente alle spalle.
Mi trascinarono fuori, afferrandomi con violenza per i capelli.
Ebbi giusto il tempo di lasciare tra le gelide manine di Nagii, la sua preziosa bambola.
Al fine, avevo mantenuto la promessa di restituirgliela.

Non avevo la forza per lottare, neppure per gridare, mi ero arresa.
Messe le catene ai polsi venni strattonata via come un animale.

"Uccidetemi e basta." Riuscii a sussurrare con voce fievole e rotta dal pianto.

"Ucciderti? Certo, ma non qui. Una schifosa sgualdrina come te merita di essere giustiziata in modo esemplare."
Rispose uno dei due.

Mi condussero oltre la muraglia di Tsipènude, la capitale di Toqajv.

Costruita sulle rive di un mare ghiacciato, essa aveva appena ottenuto il titolo di città-stato più fredda di Hadm, dal momento che il regno di Palven era da poco stato dato alle fiamme.
Non sapevo se gli altri abitanti del monte fossero stati evacuati o se gli elfi bianchi avessero lasciato morire tutti indistintamente solo per colpire la minoranza tendryan.
Ma in fondo era inutile pensarci, tanto stavo per morire anch'io.

Diedi giusto qualche occhiata al posto, prima di chinare il mio volto sconfortato verso le piastrelle del pavimento.
Tsipenude era stata costruita interamente in grigia pietra basaltica, veniva pertanto chiamata la città monocolore.
Le abitazioni avevano la forma di piccole gallerie, i cui tetti ad arco si reggevano su spesse pareti verticali.
Venni tirata per le catene fino alla piazza, la quale si presentava spoglia di monumenti.
In compenso era munita di un'ampia piattaforma centrale dalla forma ellittica, rialzata di qualche metro rispetto al pavimento.
Era una zona colpita incessantemente dal burrascoso vento del Nord, adibita appositamente per le uccisioni pubbliche.
La piazza era interamente sovrastata dalla folla; brulicante di centinaia, forse migliaia di persone impellicciate a dovere che attendevano con impazienza l'esecuzione del giorno.
Salii la scaletta che conduceva al patibolo.
Mi accompagnò lassù solo uno dei due soldati, tenendomi ferma in piedi per ascoltare l'annunciazione della mia morte.

"Signore e signori!"
Cominciò il discorso un funzionario reale degli Erixtov, con il tono di chi sta per presentare uno spettacolo.
Si trattava di un umano che era divenuto padrone di Tsipenude, grande sostenitore per interesse degli elfi bianchi.

"Siamo riuniti in questo giorno per assistere alla realizzazione della nostra libertà.
Questa fanciulla, o meglio, questa infida bestia, non è che l'ultima rimasta in vita della famosa stirpe dei Kohah, forse persino l'ultima dei tendryan.
I nobili elfi bianchi avevano permesso a questi demoni di condurre con tranquillità le loro miserabili vite e sono stati pugnalati alle spalle!
Ma oggi, signori, finalmente diveniamo liberi da questi esseri malvagi, oggi il bene trionfa!"
La grande quantità di spettatori esultò festosa.

"A morte!"

"Mostro!"
Udii urlare.

Qualcuno osò persino tirarmi contro dei sassi.
Mi sentii umiliata.
La mia espressione, tuttavia, non mostrava alcuna emozione.
Non avevo paura di perdere la vita, poichè era stata privata di tutto ciò che le dava valore.
Sentirmi chiamare mostro non mi toccava minimamente, in quanto sapevo bene chi erano i veri mostri.

"Vi prego signori, un pò di contegno, non siamo certo barbari come loro."
L'umano quietò la folla, con un sorrisetto in realtà compiaciuto sul volto.

"A terra."

Il soldato bianco a questo punto mi fece piegare sulle ginocchia e appoggiare il collo su di una gelida lastra di pietra.
Preparò la spada per decapitarmi, affilandola accuratamente.
Alzai un ultimo sguardo al cielo.
Era nuvoloso, grigio come il mio animo, come la città nella quale sarei morta.
Poi, dall'alto delle nuvole, delicati cristalli di neve si posarono su ognuno di noi, ricoprendo pian piano le strade e le tettoie.
La folla intorno a me aveva smesso di esultare e tutto tacque.
In quel silenzio, si udì solo il mio triste canto.
Intonai, tremante, con la poca voce che mi era rimasta, l'inno dei Kohah, la stessa melodia che avevamo cantato tutti insieme in quella spensierata sera del mio diciassettesimo compleanno.

Il soldato smise quindi di affilare la spada; mi si avvicinò lentamente, innalzando l'arma al cielo e caricando la potenza del colpo.
Chiusi gli occhi.
Proprio in quel momento, delle inaspettate, tiepide gocce, si infransero su di una delle mie guancie.
Era sangue.
Mi voltai di botto e vidi il mio boia cadere in terra sgozzato e versare copiosamente il liquido rosso ai piedi dell'elfo oscuro assassino che era dietro di lui.
Osservai il bianco dei fiocchi di neve, sparire e sciogliersi nel profondo scarlatto del sangue.
Il silenzio lasciò il posto alla più frenetica confusione da parte della moltitudine di gente che, in preda al panico, indietreggiava e si spingeva vicendevolmente lontano dalla piazza.

"L'ultima dei tendryan, eh?" Sogghignò il carnefice.
"Poveri stolti."

A queste parole il gelido sguardo di costui si volse a quello dell'umano, il quale cacciò uno stridulo gridolino di terrore. Il codardo si precipitò giù per la scaletta temendo di venir assassinato allo stesso modo.

Riconobbi subito il mio salvatore dallo scuro cappuccio del suo poncho e dal basso timbro vocale che lo caratterizzava: era l'odioso miscredente che avevo conosciuto sulla nave.
Mi venne spontaneo sorridere.
Non avrei mai creduto che sarei stata tanto felice di rivederlo.

"Prendeteli! Presto!" Strillò il funzionario indicandoci alle guardie che circondavano la piazza.

L'assassino mi afferrò di scatto per un polso, fuggendo rapidamente tra la massa di persone urlanti.
Passammo agilmente per i tetti, che erano stati resi dalla neve scivolosi quanto arcuati, in modo tale da evitare le guardie, intente a cercarci lungo tutta la zona.
Ci reggemmo l'un l'altro per non cadere.

"Vi credevo morti o catturati! Come hai fatto a salvarti?"
Domandai, durante la scivolata fra i tetti.

"Io e gli altri prigionieri siamo stati salvati da una provvidenziale frana, ma questo non è un buon momento per parlarne."

Le mura della città verso cui eravamo indirizzati, vennero serrate da pesanti cancelli di ferro, mentre la campana d'allarme di Tsipenude risuonava per avvertire ciascun cittadino della nostra fuga.

"Dannazione."
Sbottai.

"Sta tranquilla, conosco un'uscita sotterranea."

Ci calammo giù dal tetto sgattaiolando come ladri, nascondendoci dietro le pareti delle abitazioni fino al confine nord-est della città.

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