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Capitolo 16

Era una giornata come tante altre, per tutti tranne che per me.

Il giorno del mio sedicesimo compleanno era iniziato così, con la bisbetica poco domata di Fiona Griffith che urlava bussando alla nostra porta.

− Dov'è quel farabutto di mio marito?!

Credo di dovere delle spiegazioni.

La sera precedente io, la mamma e Grisha avevamo aspettato i rintocchi della mezzanotte dopo la liturgia serale per festeggiare il mio passaggio dall'infanzia all'età adulta. Grisha ne aveva approfittato per portare oltre alla birra forte, più alcolica rispetto a quella bevuta durante pasti, anche del rum. 

Mi aveva perfino regalato una delle sue vanghe, che aveva modificato apposta per me al fine di averne una migliore maneggiabilità. 

La mamma invece, oltre al nuovo vestito, mi aveva regalato un pettine d'osso con dei gigli bianchi intarsiati. Era l'oggetto più caro e costoso che avesse; la parte della sua dote che era riuscita a portarsi via e che non aveva ancora venduto.

Avevamo riso, brindato e danzato sui canti delle ballate dei marinai, non curandoci quanto tardi fosse. 

Ci svegliammo, rintronati e con la sbornia ancora in corpo, dalle urla della donna.

Con la bava alla bocca e i capelli un disastro andai ad aprire alla pazza furiosa, dato che ero quella più prossima all'ingresso. 

Si, avevamo dormito per terra.

La donna entrò prepotentemente in casa, dritta filata dal marito ancora in pieno stato comatoso. Non ci filò di striscio, neanche quando mia madre, da irreprensibile padrona di casa, la salutò.

− Buongiorno, Signora Griffith.

Incredibile come riuscisse a mantenere la calma, io ero già fuori di me. Mi guardò incitandomi a salutare a mia volta, mi uscì una smorfia. 

Mia madre, rassegnata a non avere il mio supporto, continuò.

− Stavamo giusto per fare colazione, vuole unirsi a noi?

Solo allora la vecchia bagascia ci fulminò. 

L'evidente disgusto che provava a nostro riguardo era accentuato dalla furia cieca che fuoriusciva da ogni poro della pelle. 

Non disse nulla, non servì.

Bastò a farci badare agli affari nostri.

Scusa, Grisha.

Il povero lattaio aveva appena ripreso conoscenza, quando vide la moglie torreggiare su di lui. 

− Joshua Griffith, zucca vuota con le gambe, come ti viene in mente di passare la notte in una casa che non è la tua?!

Il pover'uomo impiegò un po' a capire la situazione. 

Se si osservava bene, si poteva notare dalle espressioni del suo viso che il suo cervello stava ancora tentando di mettere insieme i pezzi.

L'uomo guardò sua moglie, poi noi, e di nuovo la moglie.

Lo sguardo riprese lucidità e la prima cosa che disse fu:

− Buon compleanno bambina!− rivolgendosi a me, tutto contento.

Che fosse ancora sbronzo?

Mia madre si piantò una manata in faccia, già consapevole del disastro che di lì a poco seguì.

− Maledetto cretino! Hai dormito qui, con due donne sole e senza vergogna, per il suo − e mi indicò senza pietà −compleanno!?

Io non ci vedevo niente di male, ma a quanto pare era addirittura uno scandalo passare la notte da noi. 

Sarei mai riuscita a capire gli intricati meccanismi di una mente adulta?

Mah.

Mi uscì come risposta. 

Mia madre imperterrita provò a difendere il vecchio, nonostante la fulminata di prima.

− Signora Griffith...

−Zitta, strega!− le urlò di rimando quella.

Non ci vidì più.

− Se ne vada!− allungai il braccio puntando il dito verso la porta di casa ancora aperta e sopravvissuta per miracolo alla pazzia della bagascia. − Ora!

La moglie di Grisha mi guardò livida. 

Una smorfia di collera, mista a gelosia ed invidia andò a formarsi sul suo volto, contratto e sfigurato nel mostrare la parte che solo noi conoscevamo. 

Quella donna era l'incarnazione dell'ipocrisia: una santa all'interno della comunità e un demonio fuori.

− Ah! − esclamò, mostrando un ghigno che mi raggelò il sangue. − Cacciatemi, cacciatemi pure! Ma non cambierà il fatto che siete due stupide sgualdrine! 

Con le labbra a scoprire i denti gialli e storti e gli occhi ridotti a due fessure colme d'odio si apprestò a sputare la sua sentenza. 

− E prima o poi, morirete sul rogo!

Grisha era ormai vigile, in piedi dietro a sua moglie. Lo vidi sgranare gli occhi e sbiancare alla minaccia non troppo velata e fece per parlare, ma mia madre lo fermò con la mano. 

− Se ne vada, Signora Griffith. Non è più la benvenuta a casa nostra, nè ora nè mai.

La baldracca non rispose nulla, ringhiò al marito di uscire e si apprestò ad andarsene, quando si bloccò. 

La sua attenzione fu attirata da un oggetto che tenevamo di solito nell'androne del faro, ma che avevamo usato di recente e temporeggiato nel mettere a posto.

Tronfia della scoperta, la vecchia megera si girò verso di noi e con fare di sfida, proclamò:

− Me la pagherete.

Detto questo uscì, senza più voltarsi. 

Il vecchio Grisha, abbacchiato e afflitto per il disastro combinato, ci riservò un inchino di scuse, prima di uscire da casa.

− Non è colpa tua, nonno− gli dissi, mentre lui passava l'uscio,− non fartene una colpa, è lei la malata.

− Ricorda Joshua, che la porta di casa nostra è e resterà sempre aperta per te. Non dimenticarlo− disse mia madre all'uomo che si apprestava a uscire e forse a non tornare mai più.

Guardammo Grisha fare cenno con la testa, mentre le sue spalle cominciarono a sussultare leggermente, mosse dal pianto.

Ci commuovemmo anche noi, sapendo che non era un addio, ma un semplice arrivederci.

Lo avremmo riavuto nella nostra famiglia, costi quel che costi.

Se ne andò, lasciando la porta ancora aperta, mostrandoci come seguisse mogio quella cagna di sua moglie. 

Che persona sprecata per tanta feccia.

Chiusi il portone e guardai mia madre asciugarsi le lacrime. 

Era il giorno del mio compleanno ma non c'era più nulla da festeggiare. 

Osservai l'oggetto che aveva catturato l'attenzione di Fiona Griffith. 

L'enorme calderone con relativa pala se ne stavano lì in un angolo della cucina, senza dare fastidio a nessuno. Non riuscivo a capacitarmi di come lei li avrebbe usati contro di noi.

Eppure era solo l'inizio.

− Mangiamo qualcosa tesoro, avrai fame.

− Va bene mamma.

Mi accinsi a cucinare, ma lei mi fermò.

− Cucino io oggi, è la tua festa, goditela− così dicendo mi diede un bacio sulla fronte.

Potevo ancora godermela? 

Non riuscivo a levarmi le parole di quella donna dalla testa.

Il mio istinto poi mi diceva che non era finita lì, che il giorno in cui ero diventata adulta sarebbe stato mosso da più che una semplice baruffa con una vecchia.

Era una sensazione che non riuscivo a togliermi di dosso e mi faceva stare male.

Guardavo mia madre cucinare, mentre ripensavo alle voci che giravano su noi, non avrei mai immaginato che includessero la stregoneria.

In realtà non sapevo molto di streghe, perciò mi ripromisi di guardare nell'anfratto una volta avuto il tempo.

Dopo il pasto stavo pulendo i piatti nel catino quando i miei presentimenti si avverarono.

Un tonfo sordo, mia madre cadde in ginocchio a terra, una mano aggangiata allo spigolo del tavolo e l'altra a tenersi la bocca.

Accorsi da lei con le mani ancora bagnate, quando la vidi vomitare tutta la colazione di fronte ai miei occhi.

Presi un asciugamani di cotone e cercai di aiutarla a pulirsi, ma fu allora che lo vidi.

Sangue.

Mia madre aveva cominciato a vomitare sangue.

Non era mai successo prima.

Cominciò a girarmi la testa, con il panico e l'ansia che si avvinghiarono alla mia gola come serpenti su un albero.

Rimani concentrata!

Mi urlai di rimando.

Non perdere la calma, aiuta la mamma!

Le passai l'asciugamani e una mano sulla fronte.

Bolliva. 

L'alzai di peso, poggiandomela sulla schiena, la portai fino al suo letto e la posai lì. 

Cominciai a cercare freneticamente nella stanza la polvere che di solito prendeva. 

Era qualcosa a base di margherite, diceva il cerusico, l'avrebbe aiutata a rilassarsi e dormire.

Ne trovai una quantità adatta per una sola dose.

Scesi di sotto con il rimasto della medicina, lo buttai all'interno della teiera di coccio e ci versai sopra l'acqua bollente che era rimasta nel pentolone.

Quando tornai su il decotto era pronto da bere.

− Bevi mamma, ti farà stare meglio− le dissi con la voce rotta, volevo mostrarmi forte, ma non ero convinta di riuscirci.

Dopo minuti che sembrarono ore, mia madre smise di contorcersi dal dolore e si addormentò.

Decisi di approfittarne e scendere in paese. 

Presi la sacca nel comodino di mamma che conteneva i nostri risparmi e andai, pregando con tutte le mie forze di tornare prima di vederla spirare.

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