11
Mi basta starti vicino. (Viola)
Sentiva freddo, tanto freddo, nonostante fosse nel suo lettino in via Padova coperta fino alle orecchie dalla trapunta rosa con i gatti stampati sopra; la notte era soppraggiunta da molto, questo dettaglio le pareva chiaro dalle luci filtranti delle imposte; stava stretta fra le braccia di Riccardo che dormiva placido, incapace Viola di assorbirne il calore.
Aveva un ricordo confuso di come era tornata a casa: la giacca calata sulle spalle era quella di Marina; Riccardo l'aveva raccolta da terra dove lei si era lasciata cadere, appena fuori dal Bloom; si era ritrovata le ginocchia sbucciate ricoperte di terra e ghiaia. Non sentiva nulla, niente che provenisse dall'esterno. Aveva spento i sentimenti, apparentemente, mentre dentro di lei vi era un abisso nero che la inghiottiva feroce.
Doveva piangere per smuovere quel caos di emozioni, doveva liberarsene per andare avanti di un passo.
Si alzò cercando di non svegliare l'amico, questi sbattè le palpebre mentre lei si divincolava dalla morsa gentile.
Martina dormiva nel suo letto scomposta: un braccio proteso in fuori dal candido lenzuolo, la massa dorata sparsa sulla federa del cuscino, le labbra dischiuse; Fungo non c'era, constatò dopo una veloce occhiata al bilocale.
Andò in bagno e si sedette nella piccola vasca da bagno dopo aver chiuso a chiave la porticina: si rannicchiò abbracciandosi le gambe e cedendo al pianto, in silenzio, come sempre aveva fatto.
《Viola!》
Trasalì alla voce ovattata di Riccardo, ma non rispose.
Ric era fuori dalla porta a vetri, ne scorse la sagoma attraverso quelle stille di dolore atte a celarla al mondo.
《Apri!》 Le ingiunse gentile; si era chiusa in un ostinato silenzio Viola, incapace di articolare pensieri coerenti, parole, non riusciva a parlarne e non voleva provarci nemmeno.
Riccardo allora si era seduto con la schiena alla porta in attesa.
I ricordi si fecero strada nella testa.
Non aveva mai fatto del male ad anima viva.
Ricordava che da bambina assisteva, muta, alle torture che suo fratello e i suoi cugini mettevano in atto sugli animaletti nei pressi di casa; indignata, non aveva mai preso parte ai loro giochi perversi: mentre bruciavano con una lente di ingrandimento le ali di una farfalla, immobilizzata da spilli, su un asse di legno, o quando catturavano una lucertola e la imprigionavano nella bottiglietta dei succhi di frutta di vetro, per farla poi sfracellare contro il muretto del fosso vicino la proprietà.
Aveva colpito Maddalena con forza e rabbia, la mano ancora formicolava. Viola fissò l'arto come un membro a sé.
Quella ragazza aveva la colpa di ricordarle non solo Paolo ma la loro ultima conversazione: l'ultima volta che aveva udito il suono della sua voce.
Ricordava lucidamente l'entusiasmo mentre componeva il numero di lui, quello della sua residenza estiva nel Salento: si era messa comoda sul letto, stringendo la cornetta del telefono fisso e giocherellando con il filo che le si aggrovigliava attorno alle dita.
Aveva sospirato contando gli squilli nell'attesa e poi, quando la voce profonda di Paolo aveva risposto, aveva perso una serie infinita di battiti.
Aveva boffonchiato un saluto anonimo, certa lui la riconoscesse o si aspettasse quella chiamata. Invece lui l'aveva apostrofata con il nome di lei. Maddalena.
Viola era rimasta ferita da quello scambio involontario e anche se lui si era scusato, il tono della chiamata aveva perso il suo entusiasmo iniziale.
Voleva raccontargli di quella sera: in cui lei avrebbe giocato come titolare per la squadra di pallavolo locale, invece si inventò che sarebbe uscita con degli amici della cugina e rimarcò più volte il nome di un ragazzo perché Paolo si sentisse ferito e confuso, come lo era lei. Ma lui aveva riso; invitandola a divertirsi.
Non si sarebbero più sentiti perché lui quella sera sarebbe morto, ma lei lo avrebbe saputo tempo dopo.
Cinquei giorni dopo quella telefonata, in cui aveva capito quanto fosse stupido serbare rancore e fingere indifferenza, aveva richiamato il numero di quella casa estiva, sempre a vuoto.
Aveva ricevuto nel frattempo una lettera di lui e, aperta con mani tremanti, ci aveva letto l'amore sconfinato che condividevano, sentendosi sciocca per quella lontananza che minava il loro rapporto: ogni sua frase era intrisa d'amore e nostalgia e nelle ultime righe sottolineava il desiderio di ritrovarsi presto. Quando avrebbe fatto ritorno a Milano si sarebbero rivisti: era una promessa ,cui contava i giorni.
Il silenzio faceva male, ma si erano giurati amore eterno nel loro modo infantile di vivere quella prima storia importante.
A Milano non era andata.
I suoi genitori fieri di un anno brillante, le avevano pagato un soggiorno in Francia, avrebbe iniziato lì il nuovo anno scolastico Viola, affinché potesse accedere a un seminario universitario, presso la Sorbona, sui poeti maledetti; come lei anche la maggioranza delle compagnie di classe dell'istituto femminile superiore di lingue che frequentava, dove tra l'altro Viola aveva vissuto per quattro anni.
Era partita felice per quell'opportunità ma anche incerta dal silenzio di lui.
Era stato dopo due settimane a Parigi in quella soffitta che condivideva con una ragazza alla pari tedesca che Viola aveva deciso di chiamare l'amato. Aveva affrontato la chiamata da una cabina pubblica con un timore crescente.
La voce che le rispose era quella di una ragazza, questa le rovesciò addosso la morte di Paolo, Cristina, sua sorella, fu ostile, lapidaria.
Era all'estero: sola, ferita, incredula; si era accasciata in quel cubicolo a terra, incurante della sporcizia, ancora la mano salda alla cornetta nonostante il segnale di linea interrotta rimbombasse nel piccolo spazio.
Si lasciò vivere per i mesi a seguire; sfiorò l'anoressia e la depressione e fu solo grazie all'intervento di Magnolia che non cedette alla disperazione.
Giorno dopo giorno iniziò a camminare, imparò a respirare di nuovo; purtroppo allontanò tutto e tutti, chiudendosi nella sua sfera di dolore incompreso, se avesse condiviso in famiglia o con gli amici avrebbe trovato riparo dal caos, ma aveva scelto di tacere con il mondo e di viversi quel dolore nell'anonimato: solo Magnolia seppe capire il cambiamento che subì.
Aveva trascorso un anno fra alti e bassi prima di trovare la forza di andare realmente avanti e aveva scelto la sua città in ricordo del loro amore.
A distanza di sei mesi stava facendo del suo meglio grazie alla cerchia insperata di nuovo amici che l'aiutava a vivere una parvenza di normalità.
Era bastato conoscere Maddalena perché i passi in avanti si azzerassero e tornasse a sentirsi una foglia in balia del vento degli eventi.
Uscì dal bagno Viola, dove aveva passato la maggior parte della notte, Riccardo si alzò da terra, stirandosi le membra indolenzite; costui posò lo sguardo sul viso di lei: notando le marcate occhiaie, le palpebre gonfie, lo sguardo spento e il sorriso forzato.
Non aveva avuto il coraggio di dirle nulla Riccardo.
L'aveva guardata mentre, lei, con gesti robotici, preparava una sacca per rientrare alla casa paterna, con fare metodico e freddo aveva ripiegato alcuni capi talmente tante volte che Riccardo avrebbe voluto urlarle di scuotersi, di smetterla, lo stava spaventando, ma gli sembrava così fragile Viola, che il timore di infierire non avrebbe dato l'effetto sperato: quello di strapparla all'apatia in cui era caduta.
Riccardo la guardò dare un bacio in fronte alla coinquilina prima di carezzarne una ciocca, spostandola dal viso.
Aveva risposto alla domanda assonnata dicendo che partiva, non facendo riferimento al ritorno. E questo turbò il ragazzo.
Riccardo la lasciò in stazione; Viola scosse ostinatamente la testa quando lui si sfilò la cintura di sicurezza per accompagnarvela al suo interno, gli diede un rapido bacio sulla guancia prima di sparire e reclamare
solitudine.
Aveva chiesto asilo in quel soggiorno dai genitori, il primo esame alle porte entro le tre settimane seguenti. Senza stabilire un rientro immediato come era solita fare.
Ricadde nel vortice dei ricordi:
Paolo giocava a calcio su quel prato inglese che mai avrebbe dimenticato perché un istantanea lo ritraeva, in uno scatto, gelosamente custodita nel suo portafoglio.
Babbacombe beach: erano tutti al mare quel giorno, Viola era vergognosa di quel corpo che sentiva estraneo: mentre altre ragazze esibivano con noncuranza il bikini, lei rimaneva con il suo costume intero e il jeans slavato su un muretto a guardare i gruppetti divertirsi: chi con la sabbia, chi a bordo acqua. Paolo le si era avvicinato e le aveva slacciato a seguito di una muta richiesta il pantalone. Aveva chiuso gli occhi Viola per l'imbarazzo di non esser all'altezza. Ma tutto si era perso nel momento goliardico che ne era seguito: buttare in acqua il loro coach estero di madre lingua, Justin Lee.
La mano di Paolo si era stretta attorno al suo polso e succube dell'istante e delle emozioni si era dimenticata di quanto faticasse ad accettare quel corpo che nell'ultimo anni ero sbocciato.
Vi era poi quel frammento nella memoria che le piegava immancabilmente gli angoli del viso: quella volta che si era trovata sola con Paolo, quando lui le aveva firmato il dorso dello zainetto occupando tutta la superficie per poi appisolarsi mentre lei rileggeva e sottolineava frasi di Baudelaire, dal suo libro consunto e preferito che mai abbandonava. Tra tutti i ricordi era uno dei migliori, lui che le dormiva in grembo nel bel mezzo di un parco.
Ricordava il pomeriggio al kartodromo di quel paesino della campagna londinese, tappa improvvisata per festeggiare un ragazzo del gruppo neo maggiorenne, per ben tre volte stupendo i partecipanti si era classificata sul podio: cresciuta con cinque maschi, tra cugini e fratello, la competizione scorreva nelle sue vene ed era un maschiaccio mancato o perlomeno così si era sempre sempre considerata prima di quel soggiorno estivo. Aveva ricevuto consensi per quella che mai avrebbe considerato una dote.
《Viola?》
La voce di Magnolia snebbiò la mente: quella domenica sera l'aveva obbligata a uscire, il suono flautato le suonava lontano.
《Mmm ...》
Aveva tanto insistito Magnolia per uscire e Viola le regalava un'assenza clamorosa.
Viola aveva trascorso i due precedenti giorni dal rientro dalla città, avvinta nel piumino e cercando di recuperare ore di sonno: in realtà aveva riaperto una ferita mai rimarginata e si era concessa di affogare nel mare dei ricordi, perdendo a tratti il contattto con la realtà.
《Mattia chiede se vogliamo cantare.》 Aveva chiesto Magnolia.
Aveva risposto semplicemente con una smorfia Viola, conscia il fratello non fosse interessato a loro, ma sospinto dall'amico, proprietario del locale.
Erano approdate al Sarchiapone, dove Mattia lavorava due sere a settimana come cameriere, per fare una cortesia all'amico Oberdan e guadagnare un extra alle già generose paghette dei genitori.
Oberdan era sempre galante con le ragazze e aveva riservato loro un tavolo nonostante la serata richiamasse diverse persone del loco;
non conosceva le doti canore di Viola Oberdan, ma sapendola legata a Mattia e ritenendo la sua voce musicale, voleva cantasse quella sera con lui un pezzo al karaoke. Viola ritrosa aveva cercato in ogni modo di sottrarsi alle insistenze del giovane, a brano iniziato non aveva potuto fare altro che afferrare il microfono che il ragazzo dagli occhiali tondi le tendeva in quellil'improbabile duetto Oxa-Leali, un pezzo giurassico, ma conosciuto perché amato dai genitori: "Ti lascerò".
Aveva ascoltata la voce piena di Oberdan; a venticinque anni si era scoperto imprenditore di sé stesso e aveva aperto un locale, alcune serate impostate a tema.
Vi si era unita esitante, lo sguardo chino al tavolo da cui non si era smossa di un millimetro, essendo in prima fila davanti il maxi schermo, leggeva le parole che non conosceva a memoria.
Stava in piedi Viola, non credeva di conoscere nessuno dei presenti ma non era il contesto a estraniarla ma quella canzone che scavava in lei.
Poteva lasciare andare Paolo?
Cuore e testa erano un tutt'uno nel verdetto: no! Non solo non poteva, non lo voleva assolutamente. Il dolore che sentiva era l'unico conforto che la facesse sentire viva, avrebbe voluto essere con lui o al suo posto, le capitava di pensare.
A brano finito non sollevò lo sguardo sulla sala che scoppiò in un gratificante applauso, restò schiva e si risedette a fianco di Magnolia.
Le consumazioni servite da Mattia erano arrivate con un ampio sorriso del fratello per la discreta performance.
《Ketchup o maionese?》Disse sedendosi accanto.
《Salsa rosa.》Affermò Viola credendosi preda di una allucinazione.
Aveva riso Oliver.
《Giusto! Mai che ti conformi all'ordinario.》Concesse il ragazzo avvicinando la sedia alla sua.
《Che ci fai tu qui?》Chiese Viola lo stupore impresso nei tratti del viso, la voce uscì sottile, lo sguardo leggermente perso, una piccola ruga a solcarle la fronte.
《Volevo...》Esitò Oliver.
《Mi basta starti vicino Viola anche se non sei pronta.》 Sussurrò lui affinché solo loro due sentissero, con lo sguardo puntato in quello di lei e una leggera stretta alla sua mano per rafforzare il concetto; Dado, come Oliver, comparso dal nulla le rubò una patatina fritta e le sorrise.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro