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Capitolo 49~ Il segreto delle cose inutili

Arrivammo in un villaggio. Salimmo delle scalette piccole e ripide, per poco non ci rimisi l'osso del collo. Ero sopravvissuta alla regina delle streghe, non sarei morta per una rampa di scale. Proprio no. Matt aveva le mani sporche, perché aveva preparato una sbobba densa e verdastra per mia sorella, cosciente ma dolorante. Alloggiavamo in una casa al secondo piano di una palazzina di mattoni e legno. C'erano tre stanze: la cucina, un piccolo bagno e una camera da letto. Era tutto terribilmente impolverato, e perciò ero costretta a starnutire ogni secondo. Nel camino, un fuocherello non troppo intenso bruciacchiava e consumava dei ciocchetti di legno. La finestra della cucina era da pulire, ma si vedeva la stradina su cui affacciava. Ogni tanto passava qualcuno, specialmente contadini con cestini o carretti colmi di ortaggi. Accompagnai mia sorella a letto e ritornai in cucina. Matt era esausto, e si stava sciacquando le mani senza troppa convinzione. Presi una pezza e cercai di bagnarla con le mie mani. «Niente poteri» mi bloccò il ragazzo. «Ma questo tavolo è un porcile» mi lamentai. Allora lui aprì il rubinetto arrugginito e fece scendere dell'acqua. Poi strofinò il canovaccio sulla superficie lignea. «Ci scopriranno e ci faranno a pezzi» ribadì, lo sguardo rivolto verso il mobile. «Che cosa faremo adesso?» pensai a voce alta. La fata dei fulmini si sedette di peso, osservando il soffitto pieno di ragnatele. Sospirò: «per ora dobbiamo aspettare tua sorella. Poi...»
Sapevo cosa voleva dire: poi ritorneremo nel regno delle streghe e cercheremo Antares. Ma nessuno aveva voglia di ammetterlo o ricordarlo, nessuno voleva rievocare certe immagini disastrose. Persino quella casupola sembrava un posto meraviglioso a confronto. Il silenzio era rotto solo dal rumore dello straccio che grattava via la sporcizia. Nemmeno lui sembrava metterci troppa convinzione. Ignes, nell'altra stanza, tossì. «Ho abbandonato il mio popolo» constatai fredda. Scosse la testa deciso: «hai attirato l'attenzione altrove. Li lasceranno subito in pace, anche se è molto più probabile che lo abbiano già fatto».
«E non si sarebbero vendicate?» replicai scettica. «A che pro? Sprecare energie contro civili armati di sedie e bastoni?». Tacqui. Aveva ragione lui. Chissà quanto tempo era passato sulla terra. Provai a fare dei conti, ma non riuscivo a quantificare. Senza alcun motivo apparente mi tornò in mente Brigitte. Per quanto ostica e smarrita, la spia non era lei, o meglio, era "solo" quella che rifeririva ogni mia mossa alle streghe. Eppure che senso aveva affidare un altro compito a un' altra spia, cioè Stephany? Qualcosa non tornava. E avrei davvero avuto bisogno del nostro infallibile cartellone per ragionare. Invece ero lì, lontana e spaurita, nascosta. Una sensazione di impotenza mi pervase l'anima. Io ero senza risorse di fronte a tutto quello.
Nonostante la pulizia, il tavolo non aveva assunto un aspetto meno sordido. Matt ne sembrava terribilmente sconfortato. Mangiammo un pezzo di pane e del formaggio, poi andammo a dormire e fu necessario stringersi per entrare tutti e tre nel letto a una piazza e mezza. Mia sorella si avvinghiò a me nel sonno e io la strinsi a mia volta, dando le spalle al ragazzo. Mi diede un bacio in testa e mi addormentai.
Sognai Antares. Antares e la sua stravaganza, Antares e la sua bellissima casa in campagna, il dondolo bianco, il giardino con i fiori di stagione, le volte colorate di blu e costellate di puntini brillanti, i vetri colorati che pendevano dal soffitto. Antares e le sue mille bacchette. Antares e la sua benedizione. Immaginai che mi coricasse di nuovo nel letto profumato e scacciasse i miei incubi. La vidi mentre mi curava le ferite, mi preparava la colazione e ricamava tra i mille odori del suo prato. I morbidi capelli castani scendevano in onde lucenti sulle sue spalle. Indossava un vestito bianco e con ghirigori blu dall'ampia gonna di seta. Il corpetto non era eccessivamente stretto o aderente, ma si adattava perfettamente al suo busto dalla vita esile. Nella mia utopica visione, la fata delle stelle era al sicuro nella sua accogliente e fresca dimora. La sera scrutava il cielo e indicava le costellazioni.

Ignes si lamentava nel sonno. A notte fonda trovai Matt intento ad osservare la sua gamba. Stringeva una gemma di luce tra le labbra e cercava di capirci qualcosa. Scesi dal letto, sbattendo contro la testiera di legno. Il silenzio venne interrotto dal verso di un gufo. Gli occhi del ragazzo erano stanchi e non riuscivano a concentrarsi. Così andai in cucina e accesi con qualche difficoltà il mozzicone di una candela. Poi lo poggiai sul comodino e osservai: la stecca di legno non era servita a molto, e la benda che la teneva ferma era tinta di un preoccupante rosso vivo. «Rischia di morire dissanguata, o peggio, di setticemia» esordii allarmata. «Dobbiamo andarcene» rispose lui serio e cupo. «Ma dove?» chiesi tesa, allargando le braccia. «Nel Regno degli Gnomi» chiarì. Avevo studiato a fondo le mappe del regno, e sapevo che i sette regni principali erano connessi mediante porte fatte di pietre preziose, e da quello delle sirene si poteva andare nel regno delle streghe o nel regno dei draghi di fuoco. Pessime scelte tutte e due. «Non ne posso più!» esplosi. E uscii.

La notte mi pungeva come mille spilli. La luna era un vago ricordo. Non c'era nessun occhio pallido offuscato dal sonno ad illuminarmi la via. Non c'era nulla che mi placasse. Calpestavo pietre grandi come scatoloni, tanti tasselli a formare una strada solcata dai carri di giorno e silenziosa la notte. Notte, notte, notte. Notte fuori e anche dentro le case. Notte tra i cespugli e nel bosco. Notte negli animi tormentati che usano il sonno per rimandare le preoccupazioni. Notte buia e tempestosa, mentre il vento ululava spaventoso tra le fronde, e frustava i rami, distruggeva i cumuli di foglie brune e secche agli angoli della via. La fontana al lato della piazzetta sputacchiava acqua. Circondata da sole e immobili case, misi una mano sotto il getto freddo, finché non mi sentii più la mano. Sembrava vino nero, o sangue di strega. Avvertii la nostalgica mancanza del mare. Lì non c'era il mare, anche se era sopra la mia testa e mi offriva riparo, per quel che poteva. Pelagus, lo spirito misterioso ed enigmatico, non mi parlava da tempo. Ciò mi procurava rabbia: il mare ha sempre le risposte. Le ha sempre avute. Quando gli uomini hanno avuto bisogno di esplorare, ha dato loro nuove terre. Quando la terra aveva esaurito le sue risorse, ha dato loro cibo. Quando c'era bisogno di nuovi percorsi, ha dato loro rotte da seguire. «E la mia? Pelagus, qual è la mia rotta?» sussurrai all'acqua scura, rigirando il palmo bianco e morto. Sollevai lo sguardo sconfortata, e vidi una porta spessa aprirsi, rivelando delle scale che scendevano e una lanterna appesa al soffitto. Apparve una figura da quella che immaginavo fosse una cantina, e rivelò un volto femminile alla luce. I capelli corti le conferivano un'aria da dura; si arrestò davanti alla lanterna, e non potei più osservarne i tratti. Allungò un braccio e mi fece segno di entrare. Ne fui sorpresa: sembrava conoscermi, e io avevo il sentore di averla già vista. Così mi avvicinai, cauta. Avvertii il riflesso incondizionato del ghiaccio che si formava sulla punta delle dita, pronta a difendermi. C'eravamo solo io e la ragazza misteriosa, e più la luce aumentava, più percepivo un allarme insito nel mio cervello. Le gambe andavano da sole, gli occhi invece erano avidi di particolari di quel volto che sapevo, ero certa di conoscere. Esitai negli ultimi 10 metri. La patina sulle mani divenne un vero e proprio strato ghiacciato. Io non dovevo avanzare ancora, eppure lo feci. Quando la riconobbi fu troppo tardi. Mi spinse giù per le scale e io rotolai malamente, sbattendo più volte la testa. Nella caduta lanciai un dardo che sentii deviare con un colpo di lama, forse una spada o un pugnale. La porta venne richiusa con violenza e, quando i gradini finirono, mi ritrovai a pancia in giù su un pavimento di pietra scura. Trattenni un lamento, ma mi accorsi che non ero ferita gravemente, se non per qualche livido e un taglio interno al labbro causato da un morso involontario. La ragazza mi porse la mano e io ne rimasi sorpresa. Mi puntellai sui gomiti e mi misi in ginocchio. Mi rialzai un po' ammaccata, spolverandomi il vestito con le mani. «Potevi finirmi subito, non credi?» la provocai. «Non ci sarebbe stato gusto» replicò. «Seguimi». Mi guidò tra varie botti usate come tavoli, mentre aleggiava ancora l'odore di stufato della cena. Boccali di birra vuoti e ubriaconi addormentati facevano da scenografia. Mi portò verso un tavolo tondo scheggiato e che si reggeva male tra le fughe del pavimento. Tolse uno sgabello da sotto i piedi di un nano scalzo e me lo porse. Lei si accomodò davanti a me, usando come schienale una serie di botti messe in fila e i cui tappi tentavano di contenere vino rosso. «Pessima idea uscire a quest'ora» disse ironica. «Ho notato...» risposi sarcastica. «Si fanno brutti, anzi, pessimi incontri». Brigitte rise di gusto. Aveva una cicatrice su una guancia e il viso scavato. «Che ci fai qui?» mi chiese seria. «Cerco le fuorilegge come te»
«Allora perdi tempo» chiosò. Strinsi i pugni. Era solo una dannata spia, e io le avevo quasi permesso di uccidermi. Ma perché non lo aveva fatto?
«Non avevo motivo di ammazzarti» cominciò come se avesse letto i miei pensieri. «Non disarmata e sola, almeno» chiarì. Cercai di controllare la collera. Intuivo che mi sarebbe stata più utile viva. «Dai questo a tua sorella» e fece cadere di peso un sacchetto di stoffa ruvida sul tavolo. C'era della polvere marrone dentro, simile allo zucchero di canna. «Non ho intenzione di avvelenare Ignes» risposi scettica avvicinandole il dono. «Non è un veleno» spiegò calma. La guardai truce. Allora lei buttò le braccia sul banchetto e si passò una mano tra i capelli ispidi. «Ascolta» sbuffò. «Non posso mentire» disse buttandosi alle spalle un pollice e indicando le botti. «Sono stata sottoposta all' in vino veritas e le cose sono due: o dici subito la verità e l'incantesimo ti condanna ad essere sempre sincero con le fate di grado uguale o superiore, oppure tenti di mentire mentre bevi il vino e vieni miseramente smascherato. Per dignità, quando mi è stato fatto, ho detto ciò che sapevo, senza falsità. E ora, a meno che tu non sia una novellina, non posso dirti balle». La fata dei cardi era diversa. Sembrava una mercenaria, un'altra persona. I suoi occhi tradivano ancora la sua indole enigmatica e calcolatrice, mascherata da un linguaggio sfacciato ed ostentatamente sicuro. «Non era per una spezia che volevi parlarmi» esclamai. «No, infatti» annuì. Si prese il mento tra le dita, valutando se espormi il suo problema o meno. E mentre pensava, io non riuscii a trattenere la domanda: «perché?». Alzò lo sguardo, per nulla sorpresa. Strinse la mascella e deglutì, poi chiamò un cameriere, e arrivò un esserino alto nemmeno mezzo metro a portarle un piccolo boccale di birra. Probabilmente nemmeno avrebbe potuto berla. «Riscatto» esordì. «Dimostrare che sapevo fare qualcosa. E a onor del vero, non ho mai avuto la percezione di tradire». Schioccai la lingua, sarcastica. Poi mi ricordai dell'incantesimo. «Avevo incontrato una donna, e lei mi aveva detto che in cambio di informazioni su di te mi avrebbe pagata. Non sapevo fosse Stria. Le dissi quel che sapevo, sembrava solo una giornalista pettegola, e io volevo vendicarmi del fatto che mi avessi dato della violenta. Mi ha offerto altri soldi, e una sera mi sono messa il mantello e ti ho spiata, ma mi hai scoperta. Quando ho rivisto la strega, quella mi ha consegnato un volantino, proprio quello che hai trovato in casa mia. A quel punto mi sono allarmata e ho capito il danno». Bevve un sorso di luppolo e si asciugò con il dorso dell mano. Era assurdo vedere la figlia di un noto ed esperto professore di storia ridursi in quel modo. «Non avevo nulla da perdere» si giustificò. «Tranne Juditte» aggiunsi duramente. La mia voce apparve aspra, un po' troppo censoria forse, ma non me ne pentii. «Avevi ragione tu» disse scuotendo la testa. «Sta molto meglio senza di me». Non sapevo come ribattere, così scelsi di tacere. Sguainò un pugnale dallo scarso valore e ci fece delle scritte sul tavolo. «Ad ogni modo, questo posto è infestato» disse indicandosi intorno. «Ti stanno cercando. Devi andartene da qui o ti faranno fuori. Devi averli fatti arrabbiare» constatò. Sollevai un sopracciglio. «Sai niente di una certa Antares?» buttai lì. «È viva la tua amica» confermò. «Se vuoi il mio parere, la useranno come esca». Fu come un pugno in faccia. Matt aveva progettato un piano che ci avrebbe fatto cadere tutti in quella trappola. «Unisciti a me» le proposi sinceramente, perché avevo bisogno del suo aiuto. Sorrise amaramente: «hai scoperto il segreto delle cose inutili, eh Clhoe?!». Non capii, perciò la guardai storto. «Le cose inutili hanno lo straordinario potere di deviarti da ciò che è davvero importante. Io devo restare qui a proteggere questo misero paesetto dalle streghe. Fingo di essere dalla loro parte e invece organizzo la resistenza». Aveva rifiutato la mia offerta, anche se percepivo le fosse costato molto. Non si sentiva utile alla mia causa, ma anzi persino d'intralcio, e allora per espiare le sue colpe aveva scelto di rischiare la vita e aiutare i più deboli. Allora giocherellai con le dita, tracciai un cerchio in aria e si materializzò una medaglietta di ghiaccio con il buco al centro. Tutt'intorno vi era un'incisione con dei cardi e la scritta "Ad investigandam veritatem". Gliela porsi, e risposi al suo sguardo dubbioso: «Io e gli altri abbiamo fondato questo gruppo, abbreviato AIV. È giusto che anche tu ne faccia parte, perché appoggiamo la tua causa e non vogliamo lasciarti sola». Rimase senza parole e abbassò lo sguardo. Non mi aspettavo un grazie, ma solo che ci chiamasse in caso di necessità. «Ho sbagliato con te e tua sorella» aggiunsi poi, cogliendo l'occasione. «Ti rinnovo le mie scuse, sperando che tu possa accettarle». Si alzò e mi guardò silenziosa. Riuscii a decifrare i suoi sentimenti solo dalle parole che pronunciò in seguito: «la fama che ti precede è corretta e veritiera. Tutti apprezzano la tua tenacia e la tua solida correttezza. Sono lieta di averne verificato e conosciuto i meriti, e sarò ancora più felice di alimentare quella che ormai non è semplice mistificazione». Mi porse la mano e mi accompagnò a casa. Mi indicò un sentiero sicuro, ordinandomi di non uscire mai dal bosco, anche se fitto, ed esortandomi ancora una volta a partire subito. «Non farti deviare dalle cose inutili» mi invitò infine. «E tu non credere mai di esserlo» risposi. Il nostro fu un saluto lasciato per aria, sospeso. Rimanemmo in silenzio e lei sparì nell'ombra, al riparo da occhi malevoli, al sicuro, come avrebbe sempre voluto essere. Io salii le scale in gran fretta e non mi curai delle insistenti domande di Matt, né delle sue occhiatacce. Mi affrettai a versare della polvere in acqua e farla bere ad Ignes, che aveva i capelli raccolti alla meno peggio e il viso imperlato di sudore. Solo quando si fu addormentata raccontai tutto a Matt. Allora ci scapicollammo a raccogliere le poche cose che avevamo e a fuggire via, tenendo mia sorella sospesa su una nuvola per aiutarla a guarire prima e non disturbare il suo riposo.

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