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Capitolo 35~ Confesso le mie nefandezze

Fu estremamente complicato tornare in uno stato anche solo vagamente simile alla calma. Continuavo a lanciare dardi gelidi, far saltare tubature, esplodere fontane. "Arrabbiata" non si avvicinava neppure di un miglio alla giusta descrizione di me. Ero completamente accecata dal furore. Ero impazzita. I miei legati continuavano a ripetermi che era colpa di Stephany, che io avevo fatto un lavorone, avevo portato la lega in pareggio, in vantaggio e poi di nuovo in pareggio. Quando la follia lasciò il posto alla stanchezza, mi accasciai sul pavimento della mia stanza, con la schiena rivolta al muro. Mi presi la testa fra le mani, con i gomiti appoggiati alle ginocchia. Li sentivo parlare, indicarmi, lanciarmi occhiate perplesse, forse addirittura compassionevoli.
«Dovrebbe dimettersi» sussurrò Steven. Scattai in piedi come se mi avessero ferita a morte. No, non potevano pensare questo di me. «Dovrei?» chiesi con voce tremante. Perla mi corse incontro. «Ho dovuto contattare degli idraulici per riparare i danni. Ma sono contenta che tu stia bene» mi disse. Anche il ragazzo che aveva parlato si fece vedere. «Non mi riferivo a te Clhoe, ma a Stephany» si affrettò ad aggiungere. Ebbi la sfortuna di guardarmi allo specchio: ero pallida e sudaticcia, il vestito era strappato e macchiato di verde. Il fango aveva contribuito notevolmente a migliorare la situazione e sembravo una disperata, forse perché lo ero. Avevo i capelli arruffati e, beh lasciatemelo dire, fu un sollievo sapere che Matt non era lì. Si sarebbe messo a vomitare. «Vuoi che chiami tua sorella?» mi chiese Taylor. Stava per mettermi una mano sulla spalla, ma una patacca fangosa lo scoraggiò e ritirò il braccio. Ebbene sì, avrei tanto voluto mia sorella al mio fianco. Non avrebbe infierito, anzi, mi avrebbe dato saggi e validi consigli. Ma non potevo sottrarla alla festa che si stava tenendo in suo onore, sarebbe stato meschino e perfido. Nonostante tutto ero contenta per lei, perché io stessa l'avevo spronata a camminare per conto suo, e ci era riuscita alla grande.
Anche se mi vergognavo da morire, mi sentivo una fallita, uno scarto, chiesi comunque che mi fosse mandato Matt. Dovevo chiedergli tante cose, anche riguardo alla sera prima, e poi dovevo restituirgli la lettera. Perla obbedì, ed intimò ai presenti di lasciarmi sola.
Feci l'unica cosa sensata: mi gettai nella piscina gentilmente offerta dal mio attico. Andai giù, toccando il fondo, sentendo l'acqua avvolgermi. Io ero acqua. I rumori arrivavano ovattati, mentre il liquido, fresco e refrigerante, leniva le mie ferite e calmava i miei tormenti. Era così bello poter restare sospesa, come appesa a mille fili invisibili, mentre le mie gambe fondevano e diventavano una bellissima coda. Iniziavo ad abituarmici: la paura e lo sgomento iniziali si erano tramutati in consapevolezza e gratitudine. Quante fate potevano trasformarsi in sirene? Da quel che sapevo io nessuna. Il mare mi aveva dato anche quello: "sii parte delle mie creature" immaginai pensasse. Il mio corpo era libero, completamente. Mi perdevo ogni volta nella sensazione di libertà che l'essere immersa mi regalava, insieme al senso di vago ed indefinito che mi permettevano di essere l'unico elemento reale in un luogo così vicino al surreale.
Solo quando aprii gli occhi vidi la figura tremolante del ragazzo sul bordo della vasca. Diedi due colpi di coda e mi ritrovai ai suoi piedi, mentre lo osservavo dal basso e potevo scorgere i suoi occhi grigi anche nella sera. Sorrise e si mise in ginocchio, per potersi avvicinare. Lo scrosciare della fontana regalava un piacevole e rilassante motivo di sottofondo. «Io...» esordii spezzando il silenzio «avevo un mucchio di cose da dirti. Erano davvero tante. Ma... ora... non ho idea di cosa chiederti». Sorrise e rispose con calma: «va bene così».
Poi si gettò in acqua, e io chiusi gli occhi per evitare gli schizzi. Gli si materializzò addosso un costume, e fu subito a suo agio. Staccai la mano dal bordo e lo raggiunsi, a pochi metri da me. Quando lo raggiunsi, mi sorprese, come al solito. Mi baciò, e mi parve di averlo desiderato da sempre. La tensione e i problemi parvero scivolare via e dissolversi nell'acqua, mentre intrecciavo le dita ai suoi morbidi capelli corvini e lasciavo che mi sostenesse, sia fisicamente che mentalmente. Mi strinse tra le braccia, robuste e solide, e non mi lasciò mai andare. Mi sentivo al sicuro con lui accanto, e fui felice che fosse lì con me, perchè mi dava la conferma che tanto avevo temuto di non ricevere: stava bene, nonostante il mostro, nonostante la maledizione e nonostante la sua folle scelta di rendermi l'oggetto del suo amore. Sentivo il suo respiro caldo sfiorarmi il labbro superiore, e mi crogiolai in quell'atmosfera di spensieratezza e inconsistenza. Mi sentivo talmente leggera che sarei potuta volare via.
«Questa mattina eri morente, come hai fatto a riprenderti così velocemente?» gli chiesi in seguito. Lui parve riluttante nello spiegarmi, e per un bel po' di tempo fissò la superficie scura. Io però attesi paziente. «Mi ha aiutato tua sorella. Non volevo perdermi lo scontro» disse infine, quando capì che io volevo sapere. «Stai dicendo che mia sorella ti ha drogato?» continuai leggermente divertita. Era strano immaginare quei due in combutta, ma ero consapevole che in effetti lo erano davvero, dal momento in cui Ignes gli aveva permesso di salvarsi. «Più o meno» sospirò. «Ha infuso in me qualcosa tipo "una parte di vitalità del sole". Non so spiegarlo con precisione» ammise. «Ma cos'è successo ieri?» proseguii, lasciando che il flusso di domande che avevo temporaneamente dimenticato emergesse. A lui non parve dar fastidio, quindi non mi feci troppi problemi. «È una storia lunga» rispose sdraiandosi sulla superficie dell'acqua. Guardò il cielo stellato, e piegò il polso in un modo tale che scorsi il tatuaggio. Non mi piaceva per niente quel triangolo tagliato dalla linea, ma era una parte di lui, quindi dovevo farci i conti, anche se lo detestavo con tutta me stessa. «Stavo andando in camera quando ho visto la principessa Gaia vagare in prossimità del bosco» cominciò. Aggrottai le sopracciglia perchè era una cosa che mi pareva strana. «Era confusa, come se si fosse persa. Insomma, io le sono andato incontro per capire cosa ci fosse che non andava, e lei mi ha preso per mano e mi ha portato nel bel mezzo del bosco». E va bene, lo ammetto, sono sgamabile lo so. Mi diede immensamente fastidio sapere che un'altra ragazza lo avesse preso per mano. Sì cavolo, nemmeno io lo avevo mai, e ribadisco mai, fatto. Chi era quella per prendersi certe libertà? Una vocina dentro me cercò di farmi capire che la ragazza era in una sorta di trance, ma io risposi "chissene frega". Sono abbastanza testarda, non posso farci niente. Matt si accorse della mia momentanea assenza e scosse il capo divertito: «sei gelosa, non ci credo».
«Ma sta' zitto» risposi piccata, schizzandolo. Il ragazzo rise, come se la mia parte irrazionale fosse la cosa più esilarante del mondo. Incrociai le braccia e lo obbligai a continuare. «Diceva cose senza senso, tipo "scava" e "dolore". Erano parole a caso, e poi aggiunse anche "sotto lo strato si erge la rovina". Fu l'unica frase intera che disse prima che...» si interruppe, come se gli fosse venuto in mente qualcosa che non aveva considerato. «Prima che il tatuaggio iniziasse a bruciare» spiegò guardandolo. «Un avvertimento?» ipotizzai. Matt soppesò l'idea: «non mi ha mai portato nulla di buono. È pur sempre una maledizione» pensò ad alta voce. Un altro pensiero attraversò la mia mente, ma lo tenni per me: e se il simbolo si irritasse ogni volta che Matt si avvicinava alla morte?
Poi ebbi un'intuizione, modestamente, geniale: «Gaia ha avvertito la presenza del mostro, per questo ha detto "scava" e "dolore", come anche il resto. Aveva captato la trappola». Lui si rimise dritto e annuì. «Sì, giusto. Magari però era troppa magia per una primizia, e allora si è letteralmente persa nei meandri degli impulsi che le arrivavano». Gli raccontai di come l'avevamo trovata io e mia sorella, e commisi l'errore di aggiungere la parte del lago. «Non posso crederci, l'hai buttata in acqua!» rise. «Ah ah ah!» lo schernii. «Volevo vedere te al posto mio» borbottai. Poi mi avvicinai al bordo della piscina e sussurrai "disidros" cosicchè potessi uscire. Ordinai all'acqua di scivolare via dalla mia pelle, e mi asciugai subito. Entrai in camera, presi un asciugamano e la lettera per la fata dei fulmini e la raggiusi, accomodandomi su una delle sedie sotto al portico. Il ragazzo mi raggiunse subito e si impossessò dell'asciugamano, passandolo tra i capelli e poi coprendosi. «Cos'è?» mi chiese curioso. «Una lettera che ho trovato prima della gita vicino alla torre. Credo te l'abbia scritta la Callaway». La prese e la rigirò, aveva la fronte corrugata e stava ponderando in silenzio. «Ecco dove era finita» aggiunse. «Io non l'ho letta» mi affrettai a dichiarare. Lui non parve interessarsene più di tanto, anzi mi disse che l'aveva già letta e mi spiegò cosa vi fosse scritto. La Callaway aveva saputo dell'impiego affidatogli da Floridiana, e la professoressa gli chiedeva se pensava che io fossi la ragazza per cui sarebbe... beh, lo sappiamo. Fui tentata di chiedergli cosa aveva risposto, ma non parlai. Avevo paura di risultare indiscreta e ficcanaso, per cui preferii tacere. D'altronde, chi vorrebe sapere se la persona amata morirà per salvarla?
«Però, carino qui» esclamò ad un tratto osservando la struttura in marmo bianco. Arrossii leggermente: sapevo che tutto quello era troppo per me. Scrutò il cielo, e vide la luna splendere nella notte. «Sarà meglio che vada» sospirò riluttante. Anche a me dispiaceva, ma se non ci fossimo salutati ci saremmo beccati una bella strillata. Lo accompagnai alla porta e nel passare per la mia camera notò la sua coperta sul mio letto. «Ladra» sorrise. «Non ti azzardare nemmeno a guardarla» lo redarguii scherzando. Una volta sulla soglia mi diede un altro bacio. «Non ti starai sbilanciando troppo, Matthew Storm?» gli chiesi. «Non mi importa» rispose sfacciatamente. Poi sorrise e aggiunse: «sei stata impeccabile durante la sfida di oggi. Stephany ha combinato un disastro, non devi sentirti responsabile in alcun modo». Guardai in basso, piena di vergogna. Continuavano a dirmelo tutti, ma io mi sentivo in colpa. Avevo non solo firmato, ma addirittura proposto io la lega. «Tutta la torre Æ è dalla tua parte, volevo lo sapessi». Abbozzò un sorriso e mi diede la buonanotte. Lo vidi sparire lungo le scale di acquamarina e chiusi la porta.
Mi coricai senza nemmeno mettermi il pigiama, perchè la stanchezza mi colse all'improvviso. Non sognai, e un velo nero calato sugli occhi mi accompagnò fino al risveglio.

La stanza non era blu e non si affacciava su Corallorosa. Inorridii non appena quel luogo tanto familiare quanto ostile si palesò ai miei occhi. Li richiusi e riaprii un altro paio di volte, così, giusto per stare tranquilla, ma non ci fu nulla da fare: ero tornata sulla Terra. Battei il pugno sul materasso e imprecai ringhiando. «Perchè mi hai riportata qui?» sibilai alla farfalla. «Avevo da fare, maledizione!». Scostai il lenzuolo con rabbia e scesi in cucina. Nora si era accasciata sul divano e stringeva una bottiglia di vodka come se fosse stata una bambola. Le sollevai il braccio e versai il poco alcol rimasto nel lavandino, poi gettai il contenitore. Borbottavo tra me e me, rabbiosa, e mi preparai il caffè. Poi cercai nella mensola delle medicine un analgesico da darle e glielo schiaffai sul tavolinetto davanti al sofà, vicino ad un bicchiere d'acqua. «Svegliati e vai a lavorare» le ordinai. Bofonchiò qualcosa che feci finta di non capire. Alcolizzata, pensai tra me e me. Suonarono alla porta e io feci un verso irritato. Quando vidi che era Viola mi affrettai ad aprirle. «Mh, rispetta sempre il suo standard» commentò quando vide Nora. «Già...» sospirai. «Domani ti farà frittelle bruciate e ti chiederà scusa» mi avvisò, ma io ne ero già consapevole. Era la prassi. Le offrii il caffè ma lei rifiutò. Si sedette sullo sgabello rialzato che avevamo in cucina, poggiando i gomiti sul bancone e giocherellando con una mela presa dal cesto della frutta. «Bevi troppo caffè» mi sgridò. Non le diedi retta. «Cornetto?» propose, ed io non rifiutai: in casa c'era solo una vaschetta di affettati. Non dissi niente per tutto il tragitto da casa mia al bar che frequentavamo di solito, annuivo quando Viola mi chiedeva qualcosa e mi limitavo ad emettere monosillabi. Quando ci sedemmo ad un tavolino all'ombra e ci arrivò cosa avevamo ordinato, la mia migliore amica era parecchio seccata. Mi guardò con occhi inquisitori e sbottò: «Ma si può sapere che hai? Sparisci per un giorno intero, sei assente. Io non ti capisco, davvero». Sparita per un giorno? Nom avevo tenuto il conto del tempo passato nel regno, ma doveva essere davvero tanto considerando che era passato un giorno terrestre. «Ho avuto da fare, scusa» mi giustificai. Smise di botto di sorseggiare il suo frappè e strabuzzò gli occhi: «hai avuto da fare? Ma cavolo abbiamo sempre fatto tutto insieme! Sono preoccupata per te Clhoe, da quando hai preso quella stupida perla sei cambiata, mi eviti, non capisco se ti ho fatto un torto o se sei impazzita». Si gettò di peso sullo schienale, frustrata. Si passò una mano tra i capelli e sembrò sull'orlo di una crisi di pianto. «Inoltre» aggiunse «è da un po' che quando sto con te sento come un peso sul petto, come se mi soffocassi»
«Deve essere la mia traccia magica» pensai ad alta voce. «Come?!» mi chiese, osservandomi con diffidenza mista a stupore. «Niente» dissi. Per un attimo pensai di dirle tutto. Poi però la immaginai adulta, con un bel titolo da psichiatra, esporre la mia situazione clinica e concludere dicendo: «conosco bene questa patologia. Purtroppo una mia cara amica ne è affetta». Mi riscossi perchè la sentii sbraitare, facendo girare altri clienti. «Smettila!» esclamai a voce bassa. Lei cessò di gesticolare e parlare a manetta, gettò qualche moneta sul tavolo ed io la invitai a seguirmi. Una piccola dose di follia poteva subirla, visto che insisteva tanto per sapere. Le possibili conseguenze erano due: o l'avrei spaventata tanto da scappare, o si sarebbe interessata e avrebbe chiesto più dettagli. Nel primo caso non avrebbe avuto elementi sufficenti per denunciare la mia pazzia senza esser considerata pazza a sua volta. Nel secondo, invece, amiche come prima e tanti saluti.
La portai sulla spiaggia, nel luogo in cui tutto era iniziato. Sulla strada le macchine sfrecciavano, e il rumore delle ruote sull'asfalto riempiva l'aria. «Cerchi altre stranezze?» mi chiese terrorizzata. «No, fidati» le intimai. Percorremmo la stradina in discesa con cautela, perchè era sterrata e rischiavamo di scivolare. Una volta sulla sabbia le mostrai il ciondolo. «Questa» esordii «è la perla». Lei si sedette su un masso e mi guardò evidentemente perplessa. «Quella è una farfalla» disse con calma, come se stesse parlando a una deficiente. Sospirai, e ricominciai da capo, spiegandole in parole molto povere la trasformazione che aveva subìto, omettendo luogo e modalità. Rimase in silenzio, e io mi voltai a guardare il mare. Cosa mi aspettavo? Che Pelagus si palesasse e si presentasse a Viola?
"Salve, sono lo spirito che ha reso questa idiota l'essere più potente che il mondo magico abbia avuto l'occasione di conoscere". Piccole onde si infransero ai miei piedi, spargendo spuma di mare sulla sabbia porosa. «Ti ho sognata» disse all'improvviso, ed io mi voltai. Fissava un punto indefinito, mentre i capelli castani le coprivano la faccia a causa del vento. «Venivi aggredita da un lupo mannaro sbucato da un armadio. Un uomo blu ti salvava e una ragazza strana sbucava da sotto il letto». Rimasi impressionata: lei mi aveva vista, non sognata. C'è anche da dire che Viola era una patita di "The vampire diaries", una serie che mi costringeva a vedere ogni volta che andavo a casa sua. Sapeva perciò tutto di vampiri, lupi mannari ed il resto. Mi guardò aspettandosi una spiegazione ed io gliela diedi, anche se dovetti partire dal principio e spiegarle più volte diverse cose. Dopo due ore le avevo confessato i miei "crimini", descritto Meilì, Ignes, Dave e Stephany, tralasciando la questione "Matt". Non sapevo come definirlo, ed era imbarazzante. Viola sembrava appena scesa dalle montagne russe, quindi era un misto di nausea e sollievo per esser scesa. Attesi qualcosa, che spaziava da una sua reazione a un'onda anomala che mi sopprimesse per aver raccontato tutto. Non accadde nulla di tutto questo e la ragazza mi ordinò di portarla con lei la prossima volta. «Non si può fare» le spiegai. «La farfalla è personale, può portare solo una persona».
«Dammi una farfalla allora» sbottò.
«Frena» le intimai. «Devo chiedere alla regina, non so nemmeno se lei ha il potere per assegnare un oggetto così potente» e stupido, avrei voluto aggiungere. Gemette, e si afflosciò sulla sabbia, scivolando come una gelatina dalla roccia. «Ho una vita così noiosa» si lamentò. «Magari sono una fata» immaginò. «Qualcosa sarai» buttai lì, ma ero troppo impegnata a pensare come diavolo avesse fatto a vedermi. Forse una farfalla ce l'aveva già, o magari era davvero una fata. Che elemento poteva avere? Il sonno? No, quello era di Suavius. Forse del teletrasporto. Ma era un elemento? Dopo varie congetture mi ritrovai al punto di partenza. Mi sedetti anche io sulla sabbia, e respirai salsedine a pieni polmoni. Forse avevo combinato un casino trascinando Viola in quella storia. Avrei dato un altro bersaglio alle streghe, un'altra possibile vittima sacrificale sull'altare della causa "distruggiamo Clhoe Fatillicis". Che strazio. «Non devi farne parola con nessuno» le dissi in tono minaccioso, anche se la mia intenzione era di farlo suonare più come una supplica. «Noo, perchè? Avevo così tanta voglia di essere presa e rinchiusa in manicomio!» scherzò. Le diedi una leggera spinta e lei oscillò, continuando a ridere. Poi posò la testa sulla mia spalla e insieme fissammo la calma distesa salata.

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