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Capitolo 32~ Serata tra sorelle

Non andai a cena. Non volli vedere nessuno dei miei amici. Dalla mia camera osservavo il campo di addestramento vuoto, pensando che ormai avevo saltato già due lezioni. Eppure Alys non si vedeva da nessuna parte, alle prese con una strana maledizione che le impediva di toccare le armi. Posai il cestino di delizie profumate sul tavolino vicino alla finestra e dovetti scacciare dei gabbiani, che gracchiarono offesi. Aprii il foglio di giornale e lo stesi sulla superficie di alabastro marino, una sorta di marmo screziato di sfumature rossastre e celesti. Di quella storia non mi tornava nulla, ma sapevo con certezza che Antares era stata portata via a causa della benedizione. Quello che non capivo era come facesse il rapitore a sapere che non era stata ancora eseguita, e soprattutto, come sperava di costringere la ragazza ad infonderla ad una persona non degna. Conoscevo la fata delle stelle e la sua ostinazione, e l'avevo sperimentata, per esempio, quando si era rifiutata di farsi proteggere e, anzi, aveva insistito nel voler continuare a proteggere me nonostante tutti i guai che le avevo causato. Trassi un respiro profondo mentre un venticello serale scostava le tende e le faceva tremolare come veli quasi inconsistenti. Mi aggrappai ai bordi del tavolino, tastando con i palmi la superficie levigata e fredda, tirando il più possibile il foglio per far sparire le pieghe. Conoscevo ormai a memoria l'articolo, ogni suo dettaglio, l'esatta posizione di ogni virgola. Eppure mi mancavano troppi pezzi di un puzzle di cui non conoscevo nemmeno le dimensioni. Ripassai quei dieci, forse quindici minuti, che avevo passato con la sua falsa copia, ma a parte Selène non avevo menzionato nulla di importante. Se avessi potuto, mi sarei data uno schiaffo: avevo dubitato della sua buonafede, temendo che mi volesse solo usare. Una parte di me benedì quella paura, perchè mi aveva permesso di scoprire subito l'inganno e di cominciare le ricerche.
E poi c'era l'altro tabù: Floridiana. Avevo sconfitto un cinghiale volante e lei mi aveva dato uno schiaffo. Non la odiavo, nè biasimavo. Odiavo me per averla spinta a tanto, per essere stata talmente indecente da far compiere un gesto violento alla creatura più buona, misurata e gentile dell'universo. Non me lo sarei mai perdonato, e ammisi a me stessa di non volerle scrivere per vergogna. Mi vergognavo da morire per quello che avevo causato. E a quel senso di colpa si aggiungeva la scenata della mattina con Matt e Taylor. Avevo ferito mia sorella perché volevo impartirle una lezione di indipendenza e autostima. Ma da che pulpito? Mi chiesi ridendo di me stessa. Se un giorno mi avesse tradita, sapevo già chi incolpare. Quella voce, addormentata ma non assente nel mio cervello, sussurrò: sarà colpa tua. Come darle torto? Matt sarebbe morto per la stessa persona che a) non sapeva controllarsi e b) lo aveva picchiato davanti a tutti perché aveva cercato di farla rinsavire. Mi passai una mano tra i capelli e mi guardai allo specchio. La solita faccia da schiaffi mi guardava inespressiva, mentre due occhi color oceano mi fissavano accusatori. Afferrai la spada e volai in giardino, planando sull'erba umida. Avevo portato con me anche il cestino dei dolci, ma non avevo intenzione di fare un picnic notturno in solitaria. Mi avviai verso lo stagno dietro le torri, che più che uno stagno era un lago piccolino, dove la luna gettava bagliori opachi sulla superficie vitrea e stagnante. I miei passi sollevavano fango e ciuffi d'erba, ma io li ignorai, proseguendo il cammino, finché non mi fermai ad osservare un rogo vicino alla riva. Sembrava che qualcuno stesse bruciando una pila di legna o carta, o che avesse preso un po' troppo la mano con un falò di proporzioni elefantiache. Socchiusi gli occhi per mettere meglio a fuoco (ironico lo so) e tra la vegetazione per niente rada le fiamme sembravano intrappolare una figura umana. Non ci pensai due volte: abbandonai i miei bagagli e mi ricoprii di uno strato d'acqua, poi corsi a per di fiato per il pendio della collinetta, afferrai il corpo per le spalle e la gettai nel laghetto. Si levò una colonna di fumo molto alta, accompagnata da un rumore simile ad un enorme sbuffo, che stava a testimoniare il violento contatto tra fiamme e liquido. Una testa emerse improvvisamente dall'acqua, facendo sollevare una massa di capelli liscissimi talmente velocemente che crearono un arco e ricaddero rigidi alle sue spalle. Ansimò e cercò aria, annaspando verso la riva, tossendo ripetutamente. Si accasciò non appena fuori dallo stagno e io seguii quel corpo che sembrava stremato. Quando vidi il volto di mia sorella pallido - e non per effetto della luna - mi venne un infarto. «O santi numi! Ignes!» dissi sventolandola, cercando di darle ossigeno per asciugarsi o da usare come combustibile. Non aveva più i ricci, e sembrava che dita invisibili tirassero le sue ciocche come molle, giusto per testarne l'elasticità. «Come... ti è... venuto in mente...» sussurrò mentre tossiva. Le venne un conato, e la aiutai a mettersi seduta. «Non sapevo fossi tu... non lo sapevo, perdonami, io pensavo sarebbe andato a fuoco tutto, pensavo fosse l'unica cosa sensata...» mi interruppe con un gesto della mano. Si portò due dita su ciascuna tempia e premette così forte che mi aspettai di vederle uscire il cervello dalle orecchie. Chiuse e strizzò gli occhi, mentre la vidi illuminarsi debolmente, come faceva sempre quando doveva asciugarsi. Non resistetti all'istinto curioso di sentire se scottava, così la toccai su una guancia con un dito. Mi guardò male con la coda dell'occhio, e io farfugliai delle scuse, mentre il polpastrello mi si arrossava per il calore. Ci soffiai sopra e lei iniziò ad irradiare talmente tanta luce che dovetti distogliere lo sguardo, e in un men che non si dica ero praticamente asciutta anche io. Le dita invisibili che trattenevano la sua chioma lasciarono la presa all'improvviso - tanto che io immaginai di aver sentito un "boing" - e i suoi riccioli ritornarono in tutto il loro vigore. Respirò a fondo e tese una mano, evocando un fuocherello. «Passami quei rametti» disse. Ne trovai qualche paio asciutti e lei li depositò in un punto non umido, accendendo un piccolo falò. Fece comparire una tazza, che vi lasciò fluttuare sopra. Tra noi si diffuse odore di zenzero, cannella e arancia. Chiuse gli occhi e respirò a fondo almeno una dozzina di volte, mentre io mi martoriavo le mani, impotente e in attesa. Quando ebbe finito sorseggiò la bevanda, e mi guardò in faccia. I suoi occhi verdi erano leggermente inquietanti alla luce fioca del fuocherello, parzialmente coperti dalla fronte, ma sostenni lo sguardo. Le gote si tinsero di rosa, e mi tranquillizzai. «Quando devo pensare o sono nervosa, o molto spesso entrambe le cose, prendo fuoco. Vado in autocombustione per sfogare la rabbia o la paura» mi spiegò con calma. «Buono a sapersi» bofonchiai. «Torcia umana come sorella mi mancava» proseguii scuotendo la testa sconsolata. Sentii la sua risata amplificata dalla tazza e mi rilassai ancora un po'. «Darmi fuoco... per favore non ridere!» mi rimproverò non appena vide la mia espressione che si sforzava di rimanere seria «mi ha aiutata a capire le tue ragioni e a superare i miei timori. È facile pensare subito alla gemella grande e potente come rifugio. Devo abituarmi a vederti come una parigrado piuttosto che come un essere invincibile».
«La mia demistificazione mi sta bene Ignes» la rassicurai sorridendo. «A patto che ti limiti a dare fuoco a te stessa qualora dovessi farti arrabbiare»
«Non te lo garantisco»
«Allora preparati a tante docce fredde» la minacciai. Alzò gli occhi al cielo, continuando a sorridere. Mi alzai e andai a prendere le ciambelle e la spada, tornando poi a sedermi di fronte a lei e incrociando le gambe, nonostante il suo sguardo accusatorio per via del vestito. «Non dirmi che le hai fatte tu» esclamò allibita. «Infatti non te lo dico» la rassicurai. Smise per un momento di aprire con fare famelico il cestino, restando con le braccia a mezz'aria. «Sono della nonna di Dave Shadows» spiegai, rispondendo all'implicita domanda. «La fata delle ombre se non erro» proseguì lei, e io confermai. Stese il canovaccio e vi posizionò le pietanze, facendo attenzione ad arginare il fuoco, che sembrava chiuso in un recinto invisibile. Addentò un biscotto, e mille briciole le si sparsero sul mento, sul petto, sulle gambe. Improvvisamente mi sembrò una bambina goffa e paffuta, e mi venne voglia di abbracciarla, di farle scudo con il mio stesso corpo. Sgranocchiava allegramente il dolcetto, e notai che le sue orecchie seguivano il movimento della mascella. «Che f'è?» mi chiese. «Non si parla a bocca piena» la rimproverai in tono scherzoso, ma lei arrossì comunque. Ingoiò e si giustificò: «con te non avverto freni». Rimasi sorpresa. La mettevo talmente a suo agio che poteva permettersi di essere disinvola e, ammettiamolo, rude. Non doveva essere elegante, starsene in posizione eretta, seguire etichette. Mi sentii talmente lusingata e felice che rimasi in silenzio per qualche minuto. Afferrai una ciambella e mi distesi sull'erba, con la testa rivolta verso la cima della collinetta e i piedi verso lo stagno. Posai la mano destra sulla spada inguainata nel fodero di cuoio e argento e osservai il cielo, una placida distesa blu puntellata di piccoli brillantini lontani. Non potei fare a meno di pensare ad Antares. Esposi a mia sorella le mie perplessità, che sorseggiava distrattamente il suo the aromatico mentre ponderava e rifletteva. «Forse sapevano che saremmo andate, o lo speravano. Avrebbero così capito se effettivamente la benedizione era stata impartita, se Antares era di una qualche utilità» ipotizzò. «E credi che siano riusciti a capirlo?» le chiesi. «Non so. Solo noi eravamo a conoscenza del fatto che volesse trovassi il tuo altro elemento prima di eseguire l'incantesimo. L'impostore potrebbe non aver collegato, rimanendone all'oscuro». Lo sperai con tutto il cuore, prima di fissare la luna e i suoi crateri. Sembrava una faccia melodrammatica, con due grandi occhi scavati e vuoti. Un boschetto di conifere si diramava in lontananza, mentre i grilli cantavano e facevano da colonna sonora ad un momento così particolare. «Ho fatto lega con Stephany perchè sospetto sia una spia. Una volta ho visto una figura ammantata aggirarsi tra le torri, ma non sono riuscita a seguirla, e credo fosse lei. Quando ho fatto la ronda con Matt siamo stati attaccati da alcuni troll che sembravano sapere esattamente dove fossimo, quindi qualcuno deve averglielo detto» le confessai, mentre le fiamme danzanti gettavano ombre sul suo volto, illuminando talvolta le lentiggini sparse casualmente sui suoi zigomi. «In più oggi l'ho vista in disparte, mentre scriveva una lettera a chissà chi, e che ha occultato non appena ho tentato di leggerla». Aggrottò la fronte, come se qualcosa non le tornasse. «E tu con la tua grazia sei andata a infastidirla, non so, puntandole un coltello alla gola» rispose. Io sbuffai, e le dissi che con quella ragazza non c'era altro modo di relazionarsi. Ignes provò a ribattere, ma le parole le si smorzarono in gola. Mi tirai su a sedere e sgauinai la spada, tenendola dritta di fronte a me, con la lama rivolta verso il mio naso e la punta verso l'alto. Mia sorella scattò in piedi, con le mani in fiamme. Scesi sulla riva dello stagno e la oltrepassai, facendo meno rumore possibile. Tra gli alberi davanti a noi si mosse qualcosa, qualche ramo si spezzò e ne uscì una figura, che si accasciò a terra. Aveva la testa appoggiata su un braccio disteso sul prato, ed era rannicchiata in posizione fetale. La fata del fuoco si precipitò da quella che avevamo capito essere una ragazza. Aveva la pelle azzurra e i capelli blu intrecciati con fiorellini, boccioli e fragoline di bosco, ma il volto era contratto in un'espressione impaurita e sofferente. «Aiutatemi...» aveva sussurrato, e mia sorella si era portata le mani alla bocca, come per soffocare un grido. «Principessa Gaia!» gemette, e io, assalita da un istinto suicida, mi addentrai nel bosco alla ricerca della minaccia che aveva traumatizzato la sorella di Floridiana.

Gli alberi erano alti, scuri e minacciosi. Si sentivano gufi e civette borbottare nell'oscurità e pensai che avrei preferito combattere sulle sponde del laghetto, un luogo molto più ameno e tranquillo di quello. Sentii qualche rana gracidare in lontananza, ma non mostri ruggire o armi sferzare l'aria. Mi guardavo attorno vigile, ma perplessa. Che ci faceva la fata della terra in una foresta di notte? Me la immaginavo in un orto, o in un boschetto di giorno a cantare insieme agli uccellini, ad accarezzare i cerbiatti e a far spuntare cespugli di more e altre bacche solo sfiorando il terreno. Una sorta di Biancaneve cerulea, ecco. Camminai per trecento metri ancora, ma non c'era niente. Nulla di nulla. Sembrava una normale foresta, con animali notturni in giro a scorrazzare liberamente nel loro habitat, ma nulla di più. Menai fendenti a caso, tante volte il nemico fosse stato invisibile, ma sembravo solo una pazza che tentava di sbarazzarsi delle mosche a forza di colpi di spada. Camminai ancora e, ovviamente, quello che non andava si palesò. Alcune foglie sparse sul terreno nascondevano una trappola, un foro alto 3 metri che si inabissava nel sottosuolo. Ci misi il piede dentro, e senza nemmeno accorgermene caddi, franando sulla caviglia, che emise un doloroso e preoccupante  "crack". Imprecai e ricacciai indietro le lacrime, mentre una scossa si irradiava dal punto fratturato a tutto il corpo, dandomi la nausea e un senso di stordimento generale. Vidi Matt, tra puntini neri e rossi, correre verso di me. La sua voce mi arrivò ovattata, probabilmente mi chiese cosa fosse successo, e quando mi riscossi gli spiegai l'accaduto. Non parve affatto sorpreso mentre cercava un bastone con cui steccare la gamba. Io invece la ricoprii di ghiaccio e alleviai leggermente il dolore. Provai ad alzarmi in volo, ma le pulsazioni che si diramavano in ogni direzione mi sconsigliarono di proseguire. «Matt perché non voli a cercare aiuto?» gli chiesi mentre si sedeva accanto a me con aria sconfitta. «Perchè io non volo» mi confessò. «Non ci riesco».
Gli presi la mano e lo guardai con dolcezza. Immaginai dovesse essere terribile per lui, sotto elemento del gruppo Æ, non potersi librare in aria come i suoi compagni. «Tu eri un principe» sussurrai, come se lo avessi realizzato solo allora. Lui sollevò la testa, guardando avanti a sé, fissando un punto qualsiasi sulla parete di terreno smussato. Non tolse il suo palmo dal mio, ma non mi guardò nemmeno. Era come se cercasse di assimilare un colpo, poco alla volta. Quando annuì, seppur in modo quasi impercettibile, seppi che potevo chiedergli qualsiasi cosa. «Che regno era?» domandai, seguendo con lo sguardo i lineamenti scolpiti del suo profilo, dal naso delicato al pomo d'adamo. «Il regno delle condizioni atmosferiche. La mia famiglia si occupava delle tempeste ed era a capo delle altre. Mia madre era la fata della notte serena, mio padre dei tuoni. Mio fratello Paul poteva controllare gli uragani». Respirò a fondo, e capii che ricordare gli faceva male. Quando nominò il fratello mi strinse la mano in un riflesso involontario, come se si aggrappasse ad un sostegno per paura di cadere. Seguii il movimento del suo petto sotto una camicia blu scuro stropicciata e impolverata per la caduta. Poggiai la testa sulla sua spalla, e lui mi assecondò, portando la sua guancia sulla mia fronte, come ormai faceva sempre. «Gli saresti piaciuta» sussurrò ad un tratto. Probabilmente non mi vide, ma feci un'espressione perplessa, e lui rispose alla mia implicita domanda: «perchè lui ragionava come te. Sempre in cerca della soluzione migliore, sempre il primo fra tutti in qualsiasi situazione richiedesse coraggio, audacia e forza d'animo». Dalla sua voce emergeva ammirazione e nostalgia, così, prima di porre la fatidica domanda, gli cinsi il braccio, senza lasciargli la mano. «Perchè è stato ucciso?». Respirò a fondo, ma io avevo sentito il suo corpo scosso da un fremito che mascherò prontamente. «Lui aveva...» la voce si incrinò come un vetro sottilissimo che minacciava di farsi in mille pezzi. Così lo accarezzai sulla stessa guancia che avevo colpito e lo costrinsi a guardarmi. «Non devi farlo per forza» gli sussurrai. Eravamo in una buca a 3 metri dalla superficie, avevo una caviglia rotta, lui era con me, e non avevo la più pallida idea di come ci fosse finito. Eppure stavamo parlando del suo passato come se nulla fosse, rimandando la ricerca di soccorsi, ignorando se là fuori qualcuno ci stesse cercando. Avevamo davvero bisogno, mi chiesi, di cadere in trappola per riuscire a sentirci così vicini emotivamente l'uno all'altra? Quei dannati occhi mi rendevano difficile qualsiasi attività, facile anche come respirare. Turbinava un vortice di emozioni in quel grigio profondo che non riuscivo a controllare. Non faticavo a figurarmi i motivi per cui Abracadabra si fosse innamorata di lui. Era spontaneo, solido, gentile. Dava tutte le certezze di cui avevi bisogno. Se glielo avessi chiesto, mi avrebbe fatto un panino seduta stante. Avrebbe fatto qualsiasi cosa in suo potere per rendermi felice, e anche io lo avrei fatto, solo che non riuscivo a dimostrarglielo.
«No, tranquilla. Ho bisogno di parlarne con qualcuno» mi disse dopo attimi di interminabile silenzio. Gli spostai una ciocca ribelle dietro l'orecchio, e lui inclinò la testa dalla parte della mia mano, nascondendosi dentro il mio palmo. Gli sfiorai la bocca con il pollice. «Paul aveva scoperto che Columbus, il nostro ciambellano nonchè consigliere, tramava alle nostre spalle. Ma prima di smascherarlo volle trovare prove a sufficienza. Purtroppo lui fu più veloce e lo eliminò, incastrando me e facendolo passare per un delitto di trono, perchè lui sarebbe diventato re. Ma a me non era mai importato il potere, eppure ciò non bastò per far ricredere i miei genitori. Venni esiliato e diseredato, e venni preso come tributo dopo qualche settimana. Lì conobbi Ignes, che venne liberata in quanto maggiore, e lei mi aiutò a scappare. Dovetti sostare temporaneamente da una strega che mi avrebbe aiutato a raggiungere il Regno delle sirene, ma Abracadabra mi riconobbe e mi ricattò. Mi disse che sarei potuto rimanere con lei in qualità di servo, oppure mi avrebbe riconsegnato a Stria. Scelsi la prima opzione, e lei, col tempo, si innamorò di me. Dopo qualche mese riuscii a parlare con tua sorella e la strega ci scoprì. Mi inflisse la maledizione e mi lasciò andare. Quando arrivai nel Regno delle fate conobbi la Callaway, che mi prese in custodia e mi portò qui. A lei raccontai della maledizione, e cercò di aiutarmi il più possibile, senza successo». Restai in silenzio per tutto il tempo, immaginandolo solo e impaurito, a vagare per terre sconosciute. Lo abbracciai, soffocando il dolore che mi avvisava che stavo facendo movimenti troppo ampi, e, non ne fui mai certa, assorbii nella quiete della notte le sue lacrime.

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