Capitolo 21~ Sordina
La sordina del violino è di gomma. Si mette sul ponticello ed impedisce al suono di propagarsi nella cassa armonica. Non importa quindi quanto la corda del mi strida o quanto l'archetto sferzi i crini sul ferro, perché la sordina non fa passare il suono, e quella scritta che si legge sempre su quello strumento, "violin mute", ne indica il fenomenale potere. L'isolamento.
Avevo bisogno di una sordina. Una sordina tra me e il mondo, tra me e i miei poteri. Mi immaginavo chiusa nella cassa armonica del violino, zitta, perché anche se le corde cantavano il ponticello non vibrava e lì dov'ero io non arrivava rumore.
Aprii gli occhi. Non sentivo niente. Vedevo ombre offuscate aggirarsi intorno a me, aghi e siringhe fluttuare nell'aria, toccarmi. Il labiale delle persone trasmetteva suoni, ma io non lo sentivo. Io ero fisicamente lì, ma non lo ero mentalmente. Quello non era il mio corpo, ma quello di un'altra persona, e io c'ero finita dentro per sbaglio.
Poi ad un certo punto qualcuno ha tolto la sordina e sono stata investita dal rumore.
«È cosciente, saturazione al 100%, battito cardiaco nella norma, sospendo le compressioni. Signora no, non entri. Vi prego qualcuno la mandi via». Bip bip bip. «Ora potete pensarci anche voi, no? Fatele una tac, portatemi i risultati e se le cose vanno come prevedo domani è a casa. Ora mi merito una pausa. Non uccidetela mentre sono via». Una dottoressa fissava degli infermieri con disprezzo e allo stesso tempo consapevolezza della propria bravura. Sarebbe stato divertente pensare alla Yang di Grey's Anatomy se non fossi stata io quella sdraiata su un anomimo e igienico letto d'ospedale. «Come sta?» piagnucolò Nora. «Bene» rispose semplicemente la non-Yang. Viola aveva un cerotto in testa, e alle sue spalle c'era suo nonno, avvolto in un appariscente impermeabile giallo. Mi fissava contrariato. La luce delle lampade a neon mi isterizzava l'anima. Il soffitto di polistirolo faceva sembrare la stanza una scatola per i traslochi. Bip bip bip. Il monitor era persino più fastidioso della mia sveglia. Mi tirai su a sedere, e gli infermieri in un coro di "no no no" mi rimisero giù di peso. Sbuffai. «Da... quanto tempo... sono qui?» la mia voce era cadaverica, spezzata, cosa che non mi sarei mai aspettata. D'improvviso temetti fosse stato tutto un sogno. Viola irruppe nella camera, zoppicando. «Oh grazie al cielo!»
«Deve riposare!» disse un ragazzo isterico, cacciandola. Chiuse la porta alle sue spalle e io rimasi sola. Sentivo il monitor e la ventola che girava, oltre al battito del mio cuore nelle orecchie. Sentivo i rumori, e aspettavo, speranzosa, che qualcuno rimettesse una sordina.
Fui dimessa il giorno dopo, non prima di aver sentito un commentino acido dalla dottoressa. «La prossima volta ci tuffiamo nella lava bollente signorina?». Mi limitai a fissarla, gelida, e ad aspettare che firmasse il cavolo di foglio. Non parlai per tutto il tragitto, non dissi più nulla da quando avevo sentito la mia orrida voce e avevo ipotizzato che Ignes, Matt e Meilì fossero stati partoriti dalla mia testa. Non avevo la farfalla e mi sentivo nuda. «Sono stati 3 giorni infernali Clhoe... mi sono spaventata a morte...» mugugnò Nora. Le sue parole avvalorarono la mia tesi. In 3 giorni non passa l'equivalente di 2 o 3 settimane. «Mi ha chiamato il nonno di Viola, ti hanno invitata per le 16:00, vuoi andare?». Annuii, tanto non avevo nulla da fare. La giornata passò ciondolando, noiosa, lenta. All'ora stabilita venni accompagnata a casa della mia migliore amica. Fui sorpresa nel vedere Pearl City così solitamente monotona, grigia e spenta. Nulla a che vedere con Castelcristallo o Corallorosa. Faceva tutto ribrezzo come sempre: la spazzatura per terra, mozziconi spenti ad ornare i marciapiedi costellati di escrementi canini, birre vuote, buste. «Passo a prenderti quando finisco il turno» si congedò "mia madre". Sgommò via sulla sua sgangherata Ford Fiesta nera.
Bussai alla porta e guardai il pavimento rosso pieno di polvere come sempre, perchè nel condominio di Viola non pagavano nessuno per fare le pulizie, e per sfregio i condomini non si azzardavano nemmeno a toccare il lurido pianerottolo che condividevano con le altre famiglie. Il tappeto di paglia sbiadito una volta recava la tipica scritta "Welcome" in un verde che era tale solo al ricordo. «Prego, entra» disse l'anziano padre di famiglia. «Se cerchi Viola, non c'è» sentenziò. Lo guardai perplessa. «Ci siamo solo io e te. Siediti, preparo il the». La sedia grattò il pavimento della piccola cucina rettangolare. «Io so chi sei...» disse con voce calma ma accusatoria. «E credo che questa sia tua» disse gettando la perla azzurra che tanto avevo desiderato. Rotolò sul tavolo, splendida. «Esigo delle spiegazioni». «Io non gliene devo alcuna!» scattai, felice di sentire la mia voce ritornata in sesto. «Mia nipote è quasi morta!»
«Ma se sta bene?! Sono io quella avventata che ha rischiato la vita, non sua nipote!»
«Che tipo di stregonerie fai tu?»
«Lei è completamente pazzo...»
«Non è vero!» disse gettando la tazza per terra. «Io conosco la magia. Io so riconoscere certi segnali. Non prenderti gioco di un vecchio pescatore che gli altri reputano pazzo! Io so quello che dico»
«Perchè mi ha preso la perla?»
«Perchè nessuno è mai riuscito ad estrarla da lì, nemmeno martelli a pneumatico, e tu, con le tue mani infantili ci riesci! Dovevo verificare l'autenticità dell'oggetto»
«Che cosa vuole da me?!» urlai.
«La verità!» mi rispose alterato. Lo fissai strabiliata. Era completamente folle. Iniziò a gridare frasi sconnesse tra loro, riguardanti incantesimi e stregonerie che nemmeno io avevo mai sentito. Di nuovo ebbi bisogno di una sordina.
«Ora basta!» lo interruppi. «Ma si può sapere che diavolo vuole da me? Mi porta qui con la scusa di Viola, mi fissa in ospedale. Che cosa vuole?!»
«Sapere cosa sei!»
«Non lo so!» sbottai. «Sei una strega!»
«Che cosa?» chiesi incredula. «Una strega?! Io una strega! Questa è bella!» mi alzai, e lui disse «ferma lì!» e una forza invisibile mi impedì di varcare la soglia. L'aria era satura di magia, la percepivo. Il vecchio rimase immobile, mentre la teiera fischiava impazzita. Fu colto di sorpresa anche lui. «Eveline... mia moglie...» bofonchiò mentre scansava i cocci con il piede e si metteva a sedere. «L'ho persa per... per quella perla» continuò. Avevo paura. Sentivo quella forza pressante mentre la perla si riscaldava e sembrava quasi tremare nella mia mano. Avevo paura perché non sentivo i miei poteri, schiacciati da quella forza. Era una situazione assurda. Il che è strano detto da me. Iniziò a piangere. Sussultava e batteva il pugno sul tavolo convulsamente, e io ero in piedi, guardinga, mentre il sole si impicciava filtrando dalla finestra, ignaro, come il resto del mondo. «Eveline era ossessionata da quella perla... quante volte ha provato a prenderla? Quante? E una volta una mareggiata l'ha spazzata via... non ho nemmeno un corpo su cui piangere... non ho niente se non quella stupida palla azzurra...»
Che cosa dovevo fare? Lasciargli la farfalla? Fossi stata matta. No, quella era mia, e mi dispiaceva per sua moglie, ma io non potevo rinunciare a tutto quello. Se gliela avessi lasciata avrei lasciato me stessa lì dentro. Ma quello era solo un vecchietto triste, un po' matto, ma triste. Era il nonno della mia migliore amica, era una persona per bene. Allungai la mano, tremante, lentamente, ponderando ancora. Era snervante quell'attesa, anche per lui, che forse non si rendeva conto di ciò che stava accadendo. Immaginai la sua visione del mondo, sfocato, indefinito a causa del filtro delle lacrime. Ai suoi occhi ero luna ragazzina che poteva dargli pace schiudendo la mano. Ma io dovevo tornare da Mei, Matt, Floridiana, Ignes. Mi accorsi che la barrierra si era dissolta e scappai. Mi sentii un'egoista senza cuore, la peggiore assassina. Di nuovo il bisogno della sordina.
Dormii anche abbastanza profondamente, ma la perla non si era trasformata e io non ero tornata indietro. Uscii e vagai per ore, con lo zaino in spalla, calato fino al massimo, con dentro le cuffie, un libro, scontrini vari e soldi spiccioli buttati alla rinfusa. Il mio Eastpack era azzurro, e sopra ci avevo attaccato delle spille che avevo trovato in giro o comprato nei musei che visitavo in gita. Esibivo quei trofei silenziosi nella mia mente, testimonianze stupide di viaggi di cui secondo me dovevo vantarmi. Poi avevo scritto con il pennarello indelebile le migliori citazioni di Sia, la mia cantante preferita. "I wanna live like tomorrow doesn't exist". Non lo avrei mai fatto davvero, ma quella scritta mi ricordava un mio sogno segreto. Mi sedetti su una panchina con un succo di frutta in mano. Ero davvero strana, vestita di nero, con gli anfibi a Giugno e quello zaino colorato. Ero un'incoerente pazzesca. Dalla tasca tirai fuori la perla e provai un'inspiegabile voglia di buttarla via. "Torna alla tua vita, elimina tutto". Ma quale vita? Mi chiesi. Una vita anonima e stupida, insensata, senza nulla che la rendesse speciale.
Feci l'unica cosa che mi sembrava giusta in quell'istante: andai al mare.
La spiaggia era calma, come sempre, ignara dei miei tormenti. Mi sedetti con un tonfo sulla sabbia tiepida e usai lo zaino come cuscino, intrecciando poi le mani sopra gli occhi per ripararmi dal sole. Pensai che se mi fosse rimasto il segno per via dell'abbronzatura sarei sembrata un'idiota, ma non mi sarebbe importato più di tanto. Ogni tanto passava qualche macchina e il rumore del motore contaminava quello sereno delle onde. Restai lì, in attesa, forse di un segno, oppire di un qualcosa per cui valesse la pena attendere. Mi sedetti, mi tolsi la felpa, la misi nello zaino. Feci un verso di frustrazione perché non sapevo che fare, e perché mi trovavo lì. Mi tolsi anche le scarpe e mi immersi fino alle caviglie nell'acqua. Presi la perla e la scaraventai lontano, nella salsedine liquida. Vidi il puntino cadere in lontananza. Attesi ancora. Dopo poco, qualcosa sbattè sulla mia gamba. Una sferetta azzurra. «PERCHÈ IO?» gridai ad una persona invisibile ed inesistente. «Avevi sette miliardi di persone» proseguii scandendo bene le parole. «Perchè hai scelto me. ME.» pensai che se qualcuno mi avesse vista avrebbe pensato che fossi da ricovero. «Non avevo abbastanza casini per te? E ora anche questo? Mi hai fatto odiare da mia sorella, grazie!»
Qualcosa si mosse, e io mi spaventai e caddi. Mi inzuppai, ma quello che aveva la priorità era capire cosa stesse accadendo. Un punto nel mare iniziò a vorticare, come se qualcuno stesse tirandoci dei sassi. Prima lentamente, poi sempre più in fretta, una colonna d'acqua prese vita, e forma. Osservai con il cuore in gola. Forse voleva uccidermi. Un cavaliere d'acqua con in mano un tridente mi porse la mano per aiutarmi ad alzarmi. Sembrava non avere età, e il suo volto era indecifrabile, a me pareva tra il severo e il compassionevole. Afferrai il palmo fluido ma forte, e mi misi in piedi. La sua armatura era molto leggera, la sua spada aveva l'elsa a forma di pesce. Era curioso.
«Ciao Clhoe» mi disse. Balbettai un saluto che suonò strano. «La tua forza è ammirevole»
«La mia forza?» dissi spontaneamente. «Ma se ho buttato la perla... sono una codarda»
«Io credo che tu mi abbia voluto mettere alla prova. Non vuoi liberartene, altrimenti l'avresti data al vecchio». Ovvio che non volevo gettarla, non sapevo nemmeno io perché lo avevo fatto.
«Non si è trasformata» gli feci notare «quindi è inutile. Inutile così come me, qui, sulla Terra, dove la mia magia non esiste».
«Per questo sei qui. Qui sei al sicuro, qui non possono trovarti nè farti del male».
«Perchè io?» continuai a chiedergli. Lo spirito prese la perla e se la passò tra le dita. Sembrava un giocoliere. Poi fece cadere una goccia d'acqua dal suo dito indice e quella si posò sulla sfera, che si illuminò e si schiuse. Come se fosse stata il bozzolo di una crisalide, si aprì, e dal suo interno uscì la farfalla. «Perchè tu non sarai mai inferiore agli altri, per coraggio e indole. Sarai abbastanza responsabile da gestire il potere che l'acqua dona, un potere supremo, che nessuno conosce ancora. Sii giusta Clhoe. Addio».
Si dissolse da dove era venuto. Non avevo ottenuto un granchè di risposta, ma mi aveva donato la quiete. Andava bene così.
Camminai per un bel po', senza una meta ben precisa, come ero solita fare quando ero pensierosa. A volte mi mettevo anche a lavare i piatti. Nessuno poteva capirmi. Solo lei avrebbe potuto. Lo so, lo so. Dovevo andare avanti. Beh è facile dirlo dal di fuori. Non avevo nessuno, avrei potuto avere lei, ma... sappiamo tutti come è andata. Mi venne un'idea.
Corsi a perdifiato indietro, da dove ero venuta, non curante delle macchine per strada e delle persone che inveivano contro di me. Ero stanca, e quello avevo pensato poteva darmi una risposta, forse. Le monetine tintinnavano nello zaino, rendendomi una strana maracas ambulante. Quando arrivai mi misi a urlare come una forsennata. «MARE! MARE!» non sapevo nemmeno perchè lo stessi chiamando così. Il cavaliere solitario spuntò di lì a poco, con un'espressione perplessa in volto. Mi avvicinai. «Tu sai dov'è? Lambisci con i fiumi ogni angolo della Terra, e le tue onde solcano tutte le cose. Sai dove si trova? Me lo puoi dire? È l'unica cosa che ti chiedo...»
Sembrò ponderare e studiare il mio volto. Volevo aggiungere suppliche, qualcosa di patetico per addolcirlo, ma tacqui. Avevo ancora una dignità. «Perchè vuoi saperlo?»
«Perchè nel regno non mi ha voluta. Forse qui...»
«Ho giurato a tua madre di non rivelartelo mai. Per il vostro bene. Qui sulla Terra i vostri poteri non si rivelano, ma se siete vicine il blocco imposto si spezza, e sarebbe come sparare un razzo segnalatore. Non metterò in pericolo la mia prescelta».
Lo fissai sconcertata. «Mia madre è morta» dissi con durezza. Iniziò a dissolversi, ma io afferrai lo spirito per un braccio e mi gettai in acqua tutta vestita. Lo tenni fermo anche quando era diventato una cosa sola con il fluido: sentivo una corrente, uno spostamento a forma di braccio, e quando i miei occhi si abituarono al liquido che li circondavano iniziai a vedere distintamente i contorni della sua figura. Non lo mollai un attimo, anche se quello si divincolava per liberarsi, e mi trascinò lontano.
La mia vista ogni tanto si offuscava per le bollicine che emettevo per respirare, ma avevo la mano ben salda su quell'arto, se così posso chiamarlo. Il mio corpo veniva sballottavo ovunque, a destra, a sinistra, a causa della velocità. Non mi facevo male, e ogni volta che urtavo una roccia o un corallo era costretto a rallentare. Vidi specie di pesci che non credevo nemmeno esistere, e passai anche sotto l'enorme ventre di una balena. Era assurdo: la distanza dalla costa era ancora minima, e lì c'erano enormi cetacei e profondità abissali. Stava succedendo qualcosa che non capivo. Gli animali si spostavano con reverenza al nostro passaggio e io, senza dimenticare la presa, mi stavo divertendo un mondo. Sentivo una forza nuova in me, un'onda carica di positività. Lo spirito imboccò poi una zona più stretta, forse il letto di un fiume, e proseguì per altri minuti. Avvertii l'acqua dolce sulla pelle e sui vestiti e mi lasciai trasportare, che lui lo volesse o meno. Ad un tratto esplose in mille bollicine, e io imprecai. «Dove diavolo vado ora?» chiesi a nessuno in particolare. Una voce mi disse la cosa più ovvia di tutte: in superficie.
Era pomeriggio inoltrato al villaggio sotto Castelcristallo, e io mi afflosciai sulla riva, aspettando di asciugarmi. Mi aveva portata da lei, è vero, ma non come mi sarei aspettata. Ora capivo la distorsione della realtà e il resto. «Beh... allora... grazie...» bofonchiai. La fontana zampillava tranquilla, circondata da bambini che giocavano. Nelle casine di cristallo si accendevano le prime luci, creando uno spettacolo davvero suggestivo. Il cielo si era tinto di rosa, e il castello sembrava una stella lontana.
Non sapevo cosa stessi aspettando. Magari che si materializzasse davanti a me e mi salutasse. Nella mia mente risuonò quell'indirizzo: Via delle Arance 10. Vagai per un po', non avevo fretta. E poi mi ritrovai non so come davanti casa sua. Mi accorsi di tremare, improvvisamente, apparentemente senza motivo, anche se il motivo c'era ed era piuttosto importante. Da una finestra al pian terreno usciva un delicato profumo di frutta. «Dovresti riprendere la scuola...» disse una voce calda e tranquilla. «Ultimanente non sei stata bene, è vero, ma ora non vedo perché tu non debba tornare a Corallorosa...»
Sussultai. Anche lei...
«Forse non è la salute il problema» azzardò una voce che conoscevo benissimo. Lei sembrava non esserci nemmeno, dato che non parlava e non rispondeva. «Ora devo proprio andare» disse la ragazza dopo un lungo momento di silenzio, in cui immaginai la carezza materna di Aura posarsi sul viso di mia sorella. Fu un attimo: un soffio di vento spostò la tenda che mi separava da lei, e la vidi. Il suo sguardo verde smeraldo mi trafisse per un istante troppo breve per essere calcolato, e io mi spostai subito, maledicendomi per non aver avuto l'accortezza di rendermi invisibile. Poi la porta si aprì, e ne uscì Antares. Per tutto il tempo che seguì non vidi più Ignes. «Clhoe, vieni qui» disse pacificamente. Io avevo la schiena premuta alla parete perpendicolare a quella d'ingresso, il fiato corto, e anche un po' di paura. Poi fu lei a raggiungermi: «Devi entrare?»
Esitai. Sarei potuta entrare violando la privacy di Ignes e di Aura, e non lo volevo. «Hai un foglio e una penna?» chiesi semplicemente. Lei intuì la mia decisione e chiuse il battente. Poi mi porse il necessario.
"Non mi è mai importato di stare sola, ma poi qualcosa in me si è rotto e ho provato il desiderio di tornare a casa, dove sei tu. Ma anche vicino a te, sembri così distante. Ora so che con queste parole spero di raggiungerti, e spero anche che ti arrivino con un vento piacevole, ti avvolgano e ti sussurrino all'orecchio che mi manchi e che vorrei che fossi qui.
C."
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