Lettera di scuse
Forse dovevo dirtelo. È solo che non ho avuto abbastanza tempo. Vedi, le cose stanno così: sono io ad aver ucciso tuo fratello. Quando l'ho conosciuto era un ragazzo solitario e triste. Non aveva amici e più volte mi è capitato di vederlo circondato dai ragazzi più grandi mentre lo prendevano in giro e gli tiravano del fango in testa. Io lo guardavo da lontano, senza intervenire perché avevo paura, paura di diventare come lui.
La prima volta che gli parlai fu sul tetto della scuola; lui era seduto sul bordo, i piedi a penzoloni sul vuoto. Credo stesse pensando di farla finita. Lo salutai con un semplice "ciao", che probabilmente lui sentì a malapena a causa del vento. Lui si girò a guardarmi, con il volto inespressivo, e mi chiese, sarcastico: -Mi vuoi fermare?
Io gli risposi, serio, che no, non volevo fermarlo. Non lo conoscevo e non sapevo del tutto i suoi motivi. Quella fu la prima volta che vidi un'espressione diversa dalla tristezza solcare il suo viso: sgranò gli occhi evidenziati dalle occhiaie e alzò le sopracciglia, mentre rimaneva con la bocca semiaperta, sorpreso. Fu così che diventammo amici. Lui scese dal limitare del tetto e tornò all'interno dell'edificio senza voltarsi. Da allora iniziammo a salutarci quando ci incrociavamo nei corridoi, con semplici gesti della mano, e pian piano iniziammo a parlare tra di noi. Scoprii che gli piaceva il dark humor e metà delle frasi che diceva erano sarcastiche. Riusciva a farmi ridere come poche persone al mondo e sono felice di essere riuscito a farlo sorridere qualche volta. I suoi sorrisi erano rari, ma ogni volta che li notavo mi sembrava di vedere il mondo più chiaramente e i colori più vividi. Odiava parlare di sé stesso e della vostra famiglia e ogni volta che accennavo ad essa si richiudeva in sé stesso, mentre evitava il mio sguardo e iniziava a parlare in modo distaccato, chiedendo di cambiare discorso. Io non ho mai insistito, perché sapevo che sarebbe stato inutile.
I miei amici iniziarono a evitarmi, o forse io iniziai a evitare loro, e mi resi conto di quanto poco li conoscessi e di quanto fossi più felice con quel ragazzo solitario e depresso che con loro. Non gliene attribuisco la colpa, però: immagino che neanche loro mi conoscessero così bene. I bulli non presero di mira anche me, non da subito, almeno. Credo fosse perché non cercavo di fermarli, o forse perché quando parlavo con lui eravamo sempre lontani da sguardi indiscreti. La nostra amicizia iniziò a creparsi con l'inizio dei pettegolezzi: alcuni pensavano che mi stava ricattando, altri che stavamo insieme. Non mi diedero poi tanto fastidio, fino a quando non arrivarono i bulli. Iniziarono piano, spintonandomi nei corridoi mentre mi urlavano dietro: -Frocio!- e ridevano. A volte sentivo le lacrime che minacciavano di uscire, ma io le ricacciavo indietro e tornavo dal mio amico, dalle nostre chiacchierate e le serate di videogiochi fino a tarda notte. Fu durante una di queste ultime che ti conobbi: entrasti nella sua camera mentre stava parlando con me e ti sorpresi del suo sorriso.
A mano a mano che la situazione dei bulli verso di me peggiorava, io mi distanziavo da lui sempre di più, il rimorso che pian piano cresceva, assieme alla paura. Un giorno i bulli mi dissero che se fossi rimasto lontano da lui avrebbero smesso di tormentarmi. Accettai. Iniziai a ignorarlo e ricordo ancora l'espressione che fece quando capì l'accordo tra me e i bulli e il fatto che l'avevo tradito. Ci guardammo per quelle che mi sembrarono ore, ma che probabilmente furono solo pochi secondi, i suoi occhi sgranati che diventarono freddi come il ghiaccio alla realizzazione. Non riuscii a sostenere il suo sguardo e abbassai il viso, gli occhi serrati e la nausea causata dal rimorso, causata da me stesso, che mi richiudeva lo stomaco e mi fece rigettare il pranzo nel water, poco dopo. Per diversi giorni mi sentii perso, le ore che passavano velocemente cone se fossi in uno stato di trance, mentre due voci mi urlavano nel cervello: una mi diceva che avevo fatto bene, che ora potevo stare in pace, l'altra mi urlava di aiutarlo e mi ricordava di tutti i suoi sorrisi. Ogni giorno lo vedevo abbandonarsi sempre di più ai soprusi dei bulli e continuava a tornarmi in mente il primo giorno in cui gli avevo parlato.
Un giorno lo vidi nel retro della scuola, appoggiato al muro e con del sangue sulla tempia destra, che colava lentamente sulla sua faccia e sul suo collo, senza che lui provasse a fermarlo. Mi avvicinai, una delle voci che mi urlava di scappare, sovrastata però dall'altra voce che mi gridava di aiutarlo. Lui mi guardò, inespressivo come la prima volta, mentre prendevo un fazzoletto e dell'acqua dalla bottiglietta che avevo con me e lo pulivo dal liquido rosso che già iniziava ad asciugarsi sulla sua pelle pallida. Tamponai la sua ferita e la pulii, per poi appoggiarci un cerotto sopra. Per tutto il tempo rimanemmo in silenzio, senza alcun movimento né lamento da parte sua, facendomi sussultare quando, appena ebbi finito, parlò: -Attento, i bulli potrebbero tornare da un momento all'altro.
Il suo tono sarcastico mi provocò un sollievo che nemmeno io capii fino in fondo. Lo guardai negli occhi, le lacrime che minacciavano di uscire: -Mi dispiace.- sussurrai, la voce rotta dall'emozione. Lui non rispose. Non mi aveva perdonato, ma non aspettavo diversamente.
Da quel giorno iniziai ad aiutarlo contro i bulli e provai a difenderlo. Non funzionava, ma il suo sguardo, sotto l'espressione preoccupata, mi sembrava sollevato dal fatto di non essere più solo. Continuava ad ignorarmi e non rispondermi quando gli parlavo durante le nostre conversazioni a senso unico durante il pranzo, ma ogni giorno sembrava un po' più rilassato. Lo notavo dalla curva delle sue spalle, da come stava seduto, dal fatto che iniziava a mangiare di più e, soprattutto, dall'angolo della bocca che si increspava involontariamente dopo una mia battuta.
Un giorno rise. Quando me ne accorsi rischiai di soffocarmi con il cibo e lui mi guardò, gli occhi sgranati dalla sorpresa e un leggero rossore che si allargava sulle sue guance per l'imbarazzo. Lo guardai sorpreso per qualche secondo e poi sorrisi: -Quindi anche tu sai ridere!
Come risposta lui mi tirò un pezzo di pane, che mi fece ridere ancora di più. Fu così che tornammo amici, anche più di prima. Ora capitava andare in giro insieme dopo scuola e sentirlo ridere non divenne più così raro.
Ricordo ancora vividamente la nostra ultima uscita: stavamo camminando mentre chiacchieravamo del film che avevamo appena visto. Avevo appena fatto una battuta stupida, ma lui aveva riso comunque. Si teneva lo stomaco mentre singhiozzava per le risate e io ridevo con lui. Una luce improvvisa mi accecò e sentii una spinta che mi mandò a terra. Un'esplosione e un rumore di vetri infranti, poi delle urla. La prima cosa che vidi quando riaprii gli occhi, ancora sotto shock, fu il fumo, grigio e puzzolente di bruciato. Poi una macchina accartocciata contro il vetro infranto di un negozio. Sentii il sangue che pompava in testa, affievolendo tutti i suoni di urla e sirene attorno a me. Poi guardai le mie braccia, ricoperte di sangue e schegge di vetro, le stesse che ricoprivano il pavimento intorno a me. In mezzo ad esse, il suo corpo steso a terra, la faccia ricoperta di sangue rivolta dalla mia parte e le labbra distese in un ultimo sorriso, rivolto solo a me.
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