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3.


«Oi, Deku.»

Sospirai appena.

Vorrei dire che avrei riconosciuto la voce della persona che amavo tra mille, la verità era che chiunque sarebbe stato in grado di farlo. Non era niente di speciale, non quando si trattava dell'unica persona in un'intera scuola che urlava più di Present Mic.

«Tieni.»

Non alzai la testa dal banco. Mi limitai a sollevare un braccio per dargli quello che voleva: i verbali dell'ultima ronda di tirocinio e i turni per il mese successivo.

«Spero n-»

Fece per aprire bocca, lo interruppi di nuovo continuando a scrivere sul mio quaderno.

«No, ho chiesto che ti lasciassero libero il venerdì e sì, puoi avere la notte tre giorni a settimana.»

Rimase in silenzio, cosa piuttosto strana. Per me era normale capire in anticipo cosa stesse per chiedermi o per fare, era parte di me più di quanto volessi ammettere.

Più di quanto desiderassi.

Quel collegamento si ramificava dentro di me, controllava ogni fibra del mio essere e stava letteralmente paralizzando i miei polmoni di più ogni giorno che passava.

Eppure, la colpa era la mia.

Gli permettevo di farlo e non me ne vergognavo affatto.

«Oi.»

Non risposi. Non riuscivo a guardarlo. Averlo vicino peggiorava le cose, il suo profumo mi faceva tossire più del normale e l'ultima cosa che volevo era mostrarmi debole ai suoi occhi.

Più di quanto già non fossi, almeno.

«Deku.»

Sentii una prima fitta di nervosismo nella sua voce.

Pessimo segno.

"Ti prego, lasciami in pace", mi ritrovai a pensare, ma lui alzò una mano.

La vidi con la coda dell'occhio, sobbalzai e scattai in piedi alla velocità della luce tenendo il dito medio col pollice. Mi resi conto solo dopo di essere in posizione d'attacco e che lui aveva semplicemente sollevato il foglio davanti al viso per leggere gli orari.

Sgranai gli occhi, lui non disse niente.

Si limitò a fissarmi.

C'era qualcosa in quelle iridi scarlatte che per la prima volta in diciassette anni non riuscivo a decifrare.

Sembrava risentimento, delusione, forse sorpresa.

Cosa scattava, in me, che mi portava ancora a pensare che Katsuki mi avrebbe fatto del male?

«Volevo solo dirti che All Might ci ha chiesto di raggiungerlo dopo le lezioni».

Il suo tono di voce era insolitamente basso, io sentii crollare il pavimento sotto i piedi.

Lasciò il foglio sul banco e si voltò senza aggiungere altro, le mani affondate nelle tasche e la testa bassa come se cercasse di mettere in ordine pensieri a cui non potevo arrivare.

Tesi la mano verso la sua schiena, volevo fermarlo e dirgli che mi dispiaceva.

Per cosa, poi?

Riuscivo a scusarmi con lui per qualsiasi cosa, e questo atteggiamento innervosiva lui quanto me. Non riuscivo a fare a meno di sentirmi in difetto quando sapevo perfettamente che ero io, tra i due, a meritare delle dannatissime scuse.

Eppure, nonostante questo, bastava un bagliore diverso nei suoi occhi per far crollare ogni certezza e mettere da parte quel briciolo di dignità che faticavo a conservare quando lui era nei paraggi.

E poi, lui con me si era scusato.

Lo conoscevo da quando eravamo bambini, sapevo meglio di chiunque altro quanto facesse fatica a mettere da parte atteggiamenti che lo avevano accompagnato per una vita intera.

"Non è colpa tua", lo pensavo sempre quando Mitsuki sgridava Katsuki per ogni cosa. A volte avevo l'impressione che alla zia desse fastidio anche il modo in cui suo figlio respirava. E lui non fiatava, abbassava la testa e si convinceva di essere debole.
Doveva fare di più, doveva diventare più forte.

Lo aveva fatto, era diventato più forte ma in cambio aveva perso l'amore che a me non era stato mai negato. A volte, quando era piccolo, si rifugiava a casa mia e si sedeva sulle gambe di mia mamma perché era l'unico posto in cui sapeva che nessuno gli avrebbe urlato addosso. Si addormentava con le dita strette intorno alle ciocche verdi dei suoi capelli, lei lo cullava con dolcezza e mi faceva segno di sedere accanto a lei.

Non ero geloso, anzi. Vederlo sereno era ciò che più di tutto mi faceva stare bene.

E mentre guardavo la sua schiena allontanarsi da me pensai che l'avessi tradito, perché io lo avevo visto piangere e non avevo capito.

Non giustificavo quello che era successo tra noi, né quello che aveva detto. Ero riuscito a racimolare abbastanza amor proprio da capire che non meritavo tutto quello che mi aveva fatto.

Ma nemmeno lui, in fondo, meritava di non essere mai abbastanza per sua madre.

Mi alzai di scatto, la matita sul mio banco rotolò e cadde a rallentatore mentre nel mio campo visivo appariva il braccio dell'ultima persona che avrei voluto vedere: Eijiro.

Il mio cuore perse un battito, mi sentii paralizzato sul posto. Non avevo mai davvero pensato che avrei perso Kacchan. Per quanto fosse malsano, quel rapporto era una costante che prima o poi speravo si sarebbe evoluta.

Kacchan è stato il mio modello, credevo in lui più di quanto lui stesso non abbia mai fatto. Ho sempre pensato, stupidamente, che quando se ne fosse reso conto io sarei stato al suo fianco.

Ma non c'ero.

C'era Eijiro.

Gli cinse le spalle con una naturalezza che a me non era stata mai concessa e sussurrò qualcosa che non potevo sentire, Kacchan alzò appena la testa verso di lui, poi per una frazione di secondo guardò me.

Mi ero chiesto tante volte, in quei tre anni, cosa avesse Kirishima che non avessi anche io.


«Tocca a te!»

La voce squillante di Mina mi fece sobbalzare e Tsuyu, seduta a gambe incrociate accanto a me, ridacchiò per la mia reazione prima di passare un bicchiere pieno a Denki.

Era il 20 aprile, stavamo festeggiando il diciottesimo compleanno di Kacchan ed io ero emozionato come se fosse il mio.

Lui teneva le mani nelle tasche della tuta e parlava distrattamente con Sero. Mi meravigliavo sempre più del percorso che aveva fatto, e vederlo tanto sereno a parlare di strategie con un compagno di corso era qualcosa che non pensavo mi sarebbe mai stata concessa.

Non lo dava a vedere, ma il fatto che tutti avessero collaborato per organizzargli una festa lo stava letteralmente mandando fuori di testa.

Ochako gli mise una mano sulla spalla, lui si voltò a guardarla con una naturalezza che mi fece venire i crampi allo stomaco.

Dio, perché non guardi così anche me?

Lei disse qualcosa indicando la torta, lui si sciolse in un sorriso che aveva comunque conservato il ghigno tipico della sua espressione arrabbiata. Vidi le dita della ragazza scivolare lungo il suo braccio e accarezzare i muscoli che io potevo solo guardare da lontano. Era un gesto così naturale, in fondo lei stava solo passando oltre per andare a parlare con Momo. Era come un "ci vediamo dopo".

Io non potevo farlo. Non potevo toccarlo, nemmeno con la mente. Sembrava infastidirsi anche per i miei pensieri, e infatti scelse quel momento per alzare lo sguardo su di me.

Si impietrì di colpo, lo faceva sempre se ero io a guardarlo.

Schiuse le labbra come per dire qualcosa, si mosse quasi volesse venire verso di me, poi scosse impercettibilmente la testa e mi diede le spalle.

Sentii nuovi petali formarsi alla base dei bronchi e sbuffai appena. Non avevo nessuna voglia di vomitare sui rustici del suo compleanno.

«Tocca a me...cosa?» chiesi cercando di concentrarmi sul gioco. C'erano una serie di bicchieri capovolti sul tavolo legati tramite dello spago ad un bicchiere centrale. A turno dovevamo tirare uno dei fili nel bicchiere centrale e sollevare quello corrispondente. Sembrava semplice anche se Denki aveva appena tirato per la terza volta lo spago a cui era legato un bicchierino contenente Vodka.

Ridacchiai della sua espressione persa, poi ne scelsi uno a caso. Vi trovai sotto anche io un bicchierino colmo di liquido trasparente ed alzai gli occhi al cielo sperando per lo meno che l'alcol mi facesse dimenticare per un paio di ore di essere condannato a morte.

Denki si accasciò contro la mia spalla, io buttai giù d'un fiato quella che si rivelò essere Tequila. La sentii bruciare in fondo allo stomaco, gli occhi mi si riempirono di lacrime ma mi ritrovai a ridere come un cretino mentre Mina passava il turno a qualcun altro.

Pensai che in fondo, al terzo anno di superiori, fosse quasi un mio diritto vivere una serata come un qualsiasi ragazzo normale.
Il One for All era stato la mia salvezza e contemporaneamente la mia condanna. Aveva realizzato i miei sogni e mi aveva tolto la spensieratezza. Non pensavo ad altro se non ad esserne degno.

Denki si svegliò di colpo lanciandosi su Jirou, io sobbalzai con la sensazione che le orecchie mi stessero andando a fuoco riscuotendomi da quelle fantasie mentre guardavo i miei amici che ridevano.

Sorrisi, Shoto apparve magicamente alle mie spalle insinuando la mano destra tra i miei capelli. Sentii scivolare le dita fredde fino al collo per alleviare il calore che mi stava risalendo alla testa e mi resi conto di essere infinitamente fortunato.

Forse non aveva senso buttare al vento la mia vita per qualcuno che non mi avrebbe mai amato.

La mano di Shoto vagò lenta fino a posarsi sulla mia spalla, sentii le dita accarezzare il bordo della maglietta mentre si spostavano sul mio petto.

La mia mente brilla impiegò davvero poco a sostituire l'immagine di Shoto con quella di Kacchan; di colpo il tocco divenne bollente, io avevo l'impressione di poter esplodere da un momento all'altro ed il respiro mi si mozzò in gola.

Se non fosse stato per un rumore improvviso e forte alle mie spalle, probabilmente avrei mugolato il nome di Kacchan senza un briciolo di ritegno. Sgranai gli occhi saltando sul divano come un gatto, Shoto ritirò la mano per voltarsi confuso insieme agli altri.

Eijiro teneva il volto di Kacchan tra le mani e lo guardava con un'espressione indecifrabile. Sussurrava qualcosa, l'altro sembrava non riuscire a sentirlo. Fissava il pavimento, tra di loro c'era un piatto che Kacchan doveva aver fatto cadere per la sorpresa. Non riuscivo a ragionare, non capivo cosa fosse successo ma le loro teste erano troppo vicine. Eijiro sembrava quasi respirare sulle labbra dell'altro, il rosso ed il biondo dei loro capelli si fondevano in un arancione caldo e sicuro.

Sentii subito i conati risalirmi lungo la trachea, così mi alzai di scatto premendo una mano sulle labbra.

«Deku, stai bene?» chiese Ochako alzandosi con me. Annuii rapidamente superando Denki mezzo addormentato a terra.

«Tequila», bofonchiai con uno sguardo innocente. Kacchan mi fissava oltre la spalla di Eijiro mentre correvo verso il bagno. Shoto mi corse dietro ma non riuscii mai ad arrivare alle scale, mi fiondai direttamente in cortile.

Mentre guardavamo i fiori sempre più nitidi sparsi sull'erba umida di pioggia, io e Shoto rimanemmo in silenzio.

Mi teneva la mano mentre piangevo e guardavo l'ultimo petalo sprofondare nello stesso sangue che mi imbrattava la camicia bianca e le mani tremanti.

«Non hai più tempo» mormorò il mio migliore amico con la voce rotta. Non sapevo esattamente cosa gli passasse per la testa, ma sentivo che il terrore di perdermi lo stava divorando dall'interno insieme alla consapevolezza che non poteva fare niente per farmi cambiare idea.

Ero l'unico artefice del mio destino.

Tirai su col naso, ogni parte di me stava crollando su sé stessa e prima o poi di me sarebbero rimaste solo macerie.

«Ho bisogno di parlargli» mormorai rabbrividendo appena per la brezza serale. «E se le cose non andranno per il verso giusto, ti prometto che valuterò l'idea di operarmi».

Non potevo vederlo, ma riuscii a sentire distintamente i muscoli di Shoto rilassarsi mentre tornava a sperare in qualcosa che gli permettesse di immaginare un futuro in cui ero vivo e stavo bene.

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