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2.


Shoto non capiva, ed era normale che non ci riuscisse in fondo. Voleva solo che stessi bene, se ne inventava una diversa ogni giorno.

La sua ultima trovata, totalmente fallimentare, era stata cercare di farmi innamorare di lui.

«Credi che cresceranno fiori arancioni, qui?»

Eravamo dietro la palestra, Kacchan aveva scelto quel momento per sorridere.

Non a me, ovviamente.

A Kirishima.

Indossava i pantaloni della tuta della scuola, la felpa era poggiata malamente su una spalla perché diventava più stretta ogni giorno a causa dei continui allenamenti.

Sembrava una persona nuova, come se avesse scoperto qualcosa che gli faceva venire voglia di essere migliore, e non era complicato attribuire la cosa al raggio di sole che aveva accanto.

Non riuscivo ad odiare Eijiro.

Avrei voluto, con tutto il cuore. Odiarlo avrebbe significato darmi una valvola di sfogo in quella spirale che finiva con la mia morte.

Ma lui era semplicemente la persona più bella che avessi mai incontrato.

Era premuroso, non si tirava mai indietro se un amico aveva bisogno di aiuto. Aiutava Denki a fare i compiti perché sapeva che a volte faceva fatica a concentrarsi, spegneva la luce quando Tokoyami si addormentava sul divano perché Dark Shadow si rigirava di continuo sotto il mantello del ragazzo, quando Mina era triste le permetteva di fargli maschere per il viso e quando Ochako si sentiva spaesata a causa del suo Quirk lui la stringeva tenendola saldamente con i piedi a terra per ricordarle che non sarebbe volata via.

Non faticavo a credere che Kirishima fosse il ragazzo che aveva distrutto i muri che Kacchan aveva costruito in una vita intera. Era qualcosa in cui io non sarei mai riuscito e che lui aveva fatto con la stessa facilità con cui sbocciano i ciliegi in primavera.

Era bastata la sua risata per provocare in me l'ennesimo conato di petali esplosi nel giardinetto dietro l'edificio.

Fissavo la pozzanghera sul terriccio umido immaginando l'alberello di fiori arancioni, Shoto sbuffò a quella battuta infelice.

«Se crescessero, li strapperei uno ad uno.»

Ridacchiai e posai la testa contro la sua spalla, lui lasciò un bacio tra i miei capelli con aria pensierosa.

«Vorrei che mi amassi», mormorò di colpo facendomi perdere un battito.

Conoscevo Shoto da quasi tre anni, eppure a volte facevo ancora fatica a capire quando era serio e quando scherzava.

«Ma che dici, Sho?»

«Pensaci» fissava insistentemente i fiori sparsi a terra, il suo cervello faceva quasi rumore per quanto velocemente stava lavorando. «Non sarebbe tutto più facile?»

«Tu... Sho, mi ami?», chiesi quasi terrorizzato.

«Io...no, ma potrei», rispose con aria disperata. «Potrei renderti felice. Voglio dire... non ti farei mai soffrire, Izuku. Meriti un amore che sia vero, semplice e premuroso. Meriti qualcuno che ti dia il giusto valore.»

Sollevò lo sguardo su di me, io ero pietrificato sul posto. Portò la mano a spostarmi una ciocca di capelli dal viso, poi la posò sulla mia guancia e lasciò scivolare le dita fresche sulle lentiggini disordinate che mi ricoprivano la pelle.

Non mi dava fastidio, quel contatto mi provocava brividi lungo tutto il corpo ma sicuramente non mi faceva venire voglia di scappare.

Socchiusi appena gli occhi, posai la testa contro la sua mano, lui si avvicinò a me senza il coraggio di fiatare.

Mi sarebbe piaciuto innamorarmi di Shoto.
Sarebbe stato bello, sicuro, accogliente, sicuramente non doloroso. Sembrava la scelta giusta, quella che dall'esterno appariva come l'unica plausibile. Se la mia vita fosse stata un film, Shoto sarebbe stato il migliore amico del protagonista che alla fine si rivela essere anche colui che lo ha sempre amato.

Era perfetto in ogni aspetto, ma sentivo che era profondamente sbagliato per entrambi.

«Cosa speri di ottenere?», chiesi con un sospiro. Era tanto vicino che potevo sentire il suo respiro sulle mie labbra. Studiai i suoi occhi, a quella distanza riuscivo a cogliere ogni sfumatura di cielo nell'occhio sinistro ed ogni sbuffo di fumo in quello destro.

Rabbrividii ancora.

Avrei voluto baciarlo, stringerlo a me, strappargli i vestiti di dosso e fare l'amore fino a dimenticare tutto.

«Non lo so, ma posso farti stare meglio.»

Vero.

Poteva sicuramente farmi stare meglio.

Mi avrebbe riempito di attenzioni con quell'ingenuità che lo aveva sempre caratterizzato. Probabilmente mi avrebbe regalato un'intera fabbrica di cioccolato a San Valentino, perché non era certo di quali gusti mi sarebbero piaciuti di più.

Avrebbe organizzato visite ai musei, mi avrebbe portato a vedere le stelle e mi avrebbe abbracciato quando avevo freddo.

Lo sapevo, perché erano cose che già faceva. Si prendeva cura di me con quei dettagli di cui nemmeno si rendeva conto.

Mi ascoltava parlare per ore senza mai stancarsi e teneva la mia tazza di tè nella mano sinistra per evitare che si raffreddasse. Diceva che per lui era un esercizio, lo aiutava a controllare il fuoco; io sapevo che non ne aveva bisogno e che lo faceva solo per assicurarsi che avessi la mia bevanda calda.

Riuscivo ad immaginare la piacevole sensazione delle sue mani sulla pelle, dei suoi denti che si stringono intorno al lembo più morbido dietro il mio orecchio e del suo respiro caldo che si infrange sulle mie labbra.

Avrei tracciato con le dita i solchi tra i muscoli definiti del suo addome, lui avrebbe baciato una ad una ogni lentiggine sulle mie spalle.

Le dita strette tra i suoi capelli, le gambe avvolte attorno al suo bacino.

Mi sarei sentito amato per quei folli istanti, avrei sorriso e pianto di gioia, ma sapevo che avrei distrutto lui.

Perché non sarebbe mai stato suo il nome che avrei urlato in preda al piacere.

Non sarebbero stati suoi gli occhi che avrei immaginato incatenati ai miei mentre graffiavo la sua schiena con le dita.

«E a te non ci pensi?»

Portai le mani sul suo petto e lo allontanai appena senza il coraggio di guardarlo.

«Starò bene.»

«Davvero? E se finissi solo per sputare fiori accanto a me?»

Shoto sbuffò spazientito, sembrò quasi ringhiare. Sentivo il nervosismo montargli dentro come se potessi vederlo risalire lungo l'esofago. Gli tremavano le mani, avevo paura potesse seriamente farsi del male. Lo sentivo, avevo imparato a conoscerlo facendomi spazio a poco a poco nel suo mondo, e forse per questo non mi sorpresi troppo quando di colpo tirò un cazzotto al muro accanto alla mia testa tanto forte da far tremare la mia schiena.

L'intonaco, crepato, schizzò attorno alle sue dita per ricadere ai nostri piedi.

«Vuol dire che vomiteremo fiori verdi ed arancioni uno vicino all'altro!»

Per quanto drammatica fosse la situazione, quella affermazione spiazzò entrambi.

Mi ritrovai a ridere senza rendermene conto, lui rilassò lo sguardo e rise insieme a me poco dopo.

«Sei un idiota», mormorai prendendo la sua mano tra le mie. Sanguinava leggermente, così tirai fuori un fazzoletto pulito e presi a tamponare piano le sue nocche.

«Tu di più», rispose borbottando senza opporre resistenza. «Tengo troppo a te per guardarti mentre ti riduci in questo stato.»

Finii di tamponare il sangue, sentii Shoto abbandonarsi contro di me in uno dei suoi abbracci impacciati.

Sollevai la mano, le dita si persero tra i suoi capelli ed io mi strinsi a lui.

Nascosi la testa contro il suo petto e lasciai che il suo corpo diventasse l'unica cosa reale intorno a me.

Sentivo il suo cuore battere ad un ritmo regolare e cadenzato, l'aria fluire nei suoi polmoni perfettamente sani.

«Shoto... ti prego, promettimi di non ammalarti mai per me».

Mi sentivo stupido a chiedergli di non amarmi, quasi egocentrico, ma la sola idea mi faceva sentire paralizzato ed inerme.

Per tutta risposta, Shoto mi sollevò il viso con le dita.

«Tu promettimi che non ti lascerai morire per lui.»

Non dissi niente, lui strinse i denti e soffocò un'imprecazione contro la mia spalla perché sapevamo entrambi che non ero certo di saper mantenere quella promessa.

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