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1.


Il senso di familiarità è qualcosa di particolare. Si tende a credere che "familiare" sia un profumo, un viso, un suono. Cose positive, belle, che fanno sentire al sicuro e che riportano a galla ricordi piacevoli.

È familiare l'abbraccio di una madre, il calore di un caminetto acceso durante le vacanze natalizie, il profumo di dolci la notte del sette luglio prima che esplodano i fuochi d'artificio.
È familiare la voce di qualcuno a cui si vuole bene, il tocco di dita che si conoscono e a cui non ci si abitua mai.

Per me, invece, "familiare" era diventato quel leggero senso di nausea che precede i conati di vomito. Avevo imparato a riconoscerli nel tempo; arrivavano insieme a quel bruciore all'altezza dello stomaco che sembrava un piccolo fuoco esploso sotto al diaframma.

Anche in quel momento, con le mani premute sulle labbra, sapevo che stava succedendo ancora.

I miei occhi vagarono in cerca di qualcuno; non impiegai troppo tempo per incontrare la figura di Shoto che già camminava verso di me riducendo la distanza tra noi ad ampie falcate. Malgrado tutto, sorrisi e lasciai che mi cingesse la vita con il braccio per sostenermi. Mi trascinò in bagno mentre la mia vista iniziava ad offuscarsi, presto mi ritrovai con la testa piegata sul water e le labbra schiuse in un rigetto di sangue e numerosi petali di un bel mix rosso-arancione.

«Per quanto hai intenzione di andare avanti così?»

La voce di Shoto mi giunse dura, quasi arrabbiata.

Sapevo cosa pensava, era stanco. Non ce la faceva più a stare dietro ai miei drammi, ai miei continui malesseri e bisogni. Mi sarei odiato anche io, l'avevo fatto spesso in passato, eppure mi risultava così difficile fare a meno di lui in quel momento.

Non risposi, mi limitai a sospirare mentre premevo la carta contro le labbra e mi rialzavo indolenzito.

«Cosa dovrei fare?», la mia voce era esausta. Tirai lo scarico in modo meccanico e lanciai la carta nel cesto con una certa frustrazione. Lui non si fece scalfire minimamente da quella reazione, non che mi aspettassi qualcosa di diverso.

L'espressione di Shoto era come un lago piatto in una giornata soleggiata di primavera. Era imperscrutabile per tutti, tranne che per me.

«Non saprei, confessare ciò che provi? O magari deciderti ad operare quei dannati polmoni.»

Il tono sarcastico di Shoto suscitò in me un moto di irritazione che non riuscivo più a controllare. Sapevo che non lo diceva con l'intenzione di ferirmi, ma odiavo quei momenti in cui mi trattava come se la soluzione ai miei problemi fosse semplice ed immediata.

Mi ritrovai a stringere le dita a pugno e per un breve attimo le cicatrici bianche si illuminarono di un bagliore verdastro.

Negli occhi di Shoto balenò qualcosa che sembrava stupore, intorno a me sentivo sollevarsi le scariche di energia che caratterizzavano il mio Quirk.

«Ma certo!», esclamai usando il suo stesso tono. «Che stupido a non averci pensato. Basta confessarsi, sono sicuro che finirebbe alla grande. O forse no, hai ragione, la cosa migliore è operarmi e decidere di dimenticare per sempre ciò per cui mi sono ammalato, giusto. Che cazzo ti dice il cervello, Shoto?»

Istintivamente calciai il secchio della spazzatura vicino a me che rotolò pigramente sul fondo della stanza; lo ignorammo entrambi, tendevo a perdere il controllo in quel tipo di situazioni.

Non mi piaceva, odiavo il senso di impotenza che mi attanagliava le viscere e non mi faceva ragionare.

«Credi che questo fottuto amore non corrisposto sarebbe una malattia letale se fosse così facile uscirne?»

«Io... no», i tratti del viso di Shoto si addolcirono appena mentre rialzava il secchio con quella diligenza che non riusciva mai ad abbandonare. «Ma non voglio stare a guardare mentre ti ammazzi per... per questo. Non posso. E poi, guardati, più lo ami più diventi scurrile.»

Le mie dita si rilassarono a quelle parole. Mi sfuggì un sorriso, non potevo davvero dargli torto. Lo osservai in silenzio per qualche secondo, se ne stava in piedi come se non sapesse esattamente come comportarsi. E probabilmente era così, perché quel senso di impotenza aveva attanagliato anche lui il giorno in cui avevo deciso di metterlo a parte del mio più grande segreto.

Feci qualche passo fino a stringere la sua mano sinistra solcata da piccole bruciature che risalivano lungo il polso. Ci guardammo in silenzio, lui mordeva l'interno della guancia con aria nervosa in cerca di qualcosa da dire, ma sapevamo entrambi che non avevamo modo di affrontare quel discorso senza uscirne sconfitti.

La malattia di Hanahaki era stata descritta in un articolo scientifico per la prima volta nel 2001, ma studi su tutto il territorio avevano confermato la sua presenza in appunti medici e disegni già da decenni, addirittura secoli.
Si pensava fosse una malattia risalente ai tempi dell'antica Grecia, quando l'amore non aveva niente di spontaneo. Principi e principesse non potevano amare schiavi e soldati, uomini e donne erano costretti ad accettare matrimoni che garantissero eredi forti che salvaguardassero il nome della famiglia.

Le persone tendevano ad ammalarsi di amore non corrisposto.

Iniziava lentamente, con conati di tosse in momenti del tutto casuali. Poi, senza una logica, apparivano i primi petali. Si accumulavano a livello dei bronchi, sempre più numerosi, fino a formare fiori interi che ostruivano le vie respiratorie e uccidevano la vittima per asfissia.
Più l'oggetto del loro amore si allontanava, più le vie aeree venivano ostruite.

La cosa poetica, in tutto questo dramma, erano proprio i petali: assumevano il colore che più simboleggiava l'oggetto dell'amore non corrisposto.

Nel mio caso, arancione come le sue esplosioni e rosso come i suoi occhi.

Il mio amore non corrisposto era Katsuki Bakugou, il ragazzo che mi disprezzava da tredici anni e che mi aveva consigliato di buttarmi dal tetto della nostra scuola nella speranza di non nascere di nuovo tanto inutile.

Patetico, non trovavo un altro aggettivo per definirmi.

Era stato complicato per me metabolizzare quella consapevolezza. In fondo ho sempre saputo che Kacchan era più di ciò che mostrava agli altri, ed era stato proprio il giorno in cui lo aveva dimostrato a tutti che la mia malattia aveva preso il sopravvento e si era manifestata.

Mi aveva salvato la vita, aveva messo in pericolo sé stesso per mettere al sicuro me, e quando mi ero svegliato l'avevo trovato accanto al mio letto con la divisa da eroe ancora addosso e la fronte premuta contro il mio braccio.

Lui pensava che dormissi, io lo sentivo mormorare scuse e piangere contro il lenzuolo macchiato di sangue per le ferite che ancora faticavano a guarire.

Da quel momento il nostro rapporto era cambiato; era più silenzioso, non mi insultava nonostante a volte preferisse fingere che non fossimo nella stessa stanza e pensavo davvero che quel legame mi bastasse.

Anche Shoto aveva faticato non poco ad accettare l'idea che mi fossi innamorato della persona che mi aveva procurato più cicatrici di quanto non avessero fatto le mie numerose ossa spezzate. Lui non riusciva a perdonarlo con la mia stessa facilità.

Aveva cercato mille modi diversi per guarirmi: cliniche private, ricerche all'avanguardia, soldi su soldi che non gli avevo chiesto di spendere e che lui aveva volentieri sperperato per aiutarmi e contemporaneamente svuotare il conto di suo padre.

Niente, ovviamente.

La risposta a tutte le sue domande era stato il nulla assoluto.

C'erano due sole opzioni per uscirne: confessare i propri sentimenti nella speranza che fossero ricambiati, oppure operarsi con la consapevolezza che la chirurgia avrebbe portato via, insieme ai fiori, anche ogni ricordo della persona amata.

Ed io non ero pronto a questo.

Non ero pronto a dimenticare Kacchan, la sua voce da bambino, gli occhi pieni di meraviglia e le mani calde sulla mia pelle.

Non ero pronto a lasciare andare il suo profumo dolce di caramello e la sensazione di calore che mi provocava ogni sorriso che gli scappava e che riuscivo a rubare.

Non ero pronto ad accettare l'idea che non avrei più potuto vederlo mentre cresceva e diventava l'eroe che, lo avevo sempre saputo, era destinato a diventare.

Non ero pronto ad abbandonare la nostra storia, seppure dolorosa. Non volevo dimenticare la lentezza con cui aveva iniziato a guardarmi di nuovo senza disprezzo.

Mi tollerava.

Non mi amava, ma mi tollerava.

Avrei tanto voluto che la tolleranza fosse abbastanza per salvarmi la vita. 

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