Capitolo 38.
Una nuova alba colorava il cielo di rosa e giallo, sfumature ben diverse da quelle di un tramonto, ma che custodivano come quelle, un grande fascino. Un altro giorno era iniziato ed ero pronta ad affrontarlo con il mio insolito sorriso e la mente più riposata e rilassata. Mi svegliai con un forte senso di fame e con una voglia incontrollabile di dolci fatti in casa. Andai in cucina e ci misi tutta la mia pazienza, che non sapevo di possedere, per prepararmi una sostanziosa colazione.
Presi da internet la ricetta per fare i pancake e prima di mettermi all'opera, controllai se in casa ci fossero tutti gli ingredienti. Disposi sul ripiano della cucina tutto ciò che serviva alla preparazione: latte, farina, uova, zucchero, lievito e burro. Non mancava nulla all'appello, così mi rimboccai subito le maniche e mi misi a lavoro.
Mi sorpresi per la semplicità e la velocità della ricetta e mi ripromisi che avrei iniziato a cucinare più spesso.
Li deposi in due piatti in file da due con l'intenzione di condendoli uno, solamente con lo sciroppo d'acero, come voleva la ricetta tradizionale, e l'altro con la poca Nutella rimasta nel barattolo semi vuoto.
Ero molto soddisfatta di me stessa e lo era anche il mio stomaco che sembrava non esserne mai sazio.
Una volta sparecchiato e ripulito la cucina da cima a fondo, andai in salotto per continuare la mia giornata.
Mi misi a leggere un romanzo che mi consigliò molto tempo prima, la mia insegnante di italiano delle scuole superiori. Non lo avevo mai letto prima di allora e rimpiansi la mia strana decisione, poiché era così travolgente che non riuscivo a fermarmi. Il libro in questione era Anna Karenina.
ed era un bellissimo romanzo ambientato nell'ottocento. Amori proibiti dovuti alla mentalità di quel secolo e la passione che ardeva all'interno del cuore dei personaggi, erano solo due degli aspetti che rendevano la storia tanto intrigante. Mi aveva colpito l'audacia della protagonista e fin da subito capii perché me lo aveva consigliato. Voleva che imparassi ad amare come Anna
e ad avere il suo stesso coraggio di
affrontare la vita e di innamorarmi.
Il cellulare tintinnò, segno che era appena arrivato un nuovo messaggio.
Era Jonathan e solo allora pensai che non ci sentivamo dalla mattina precedente. Da quando se ne era andato per via dell'imprevisto, di cui non mi aveva voluto parlare, non ci eravamo più visti, ne tanto meno cercati.
"Verrò questo pomeriggio, fatti trovare pronta. Ho intenzione di portarti nel posto di ieri e non accetto un no come risposta"
Il messaggio di Jonathan mi aveva allargato il sorriso se possibile, e una sensazione di gioia si propagò all'interno del mio cuore. La sua determinazione si riusciva a percepire all'interno di quelle tre righe e non avrei mai pensato prima di allora che un messaggio potesse far trapelare così tante emozioni.
Si diceva sempre che le persone si nascondevano dietro lo schermo di un telefono poiché gli risultava più facile rapportarsi con le persone ed essere più dirette e meno timide, di come invece lo erano nella realtà. Anche io facevo parte di quel team e mi era sempre stato più facile sconfiggere la timidezza che mi aveva ostacolato per tutti gli anni di scuola superiore. Era incredibile come invece, Jonathan riuscisse ad essere se stesso anche dietro un telefono. Ed era altrettanto incredibile come riuscii ad immaginarlo mentre pronunciava quelle parole, con le mani nelle tasche dei suoi jeans e quell'odioso ghigno da strafottente stampato sulle labbra.
Digitai velocemente una risposta affermativa e, una volta premuto il tasto di blocco del cellulare, posai quest'ultimo sopra il tavolo di vetro del salotto.
Tornai a leggere il mio libro e non mi resi neanche conto del tempo che passò.
Due ore più tardi, a causa di un leggero mal di testa, fui costretta a chiudere il libro, non prima di aver lasciato un segno sull'ultima pagina letta.
Notai a malincuore che all'arrivo di Jonathan mancavano poco più di quattro ore. L'idea di continuare a poltrire sul divano mi balenò in pochi secondi ma se ne andò alla stessa velocità in cui era arrivata.
Mi guardai intorno, pensando a qualsiasi cosa che avrei potuto fare. Pensai di riordinare la libreria o pulire la casa, ma entrambe le cose erano state fatte da Kelly prima che partisse. Iniziai a camminare nervosamente, passando da una stanza all'altra con la testa da tutt'altra parte e per poco non scivolai sul lucido pavimento della stanza a causa di una maglia buttata a terra. Solo in un secondo momento realizzai che la maglia in questione era la mia e che mi trovavo nella mia stanza. Guardandomi intorno, stentavo a credere che quella fosse davvero la mia camera e che tutto quel caos che regnava tra quelle quattro mura, fosse opera mia.
Non ero mai stata una ragazza disordinata ma neanche una maniaca dell'ordine. Però, guardando il lato positivo, avevo trovato qualcosa di cui occuparmi fino all'arrivo di Jonathan.
Iniziai a ordinare la stanza da cima a fondo, togliendo tutti i vestiti dall'armadio e i libri dalle mensole. Riformando: non ero una maniaca dell'ordine ma solo una maniaca del cambiamento. Per capirci meglio, avevo lo stramaledetto vizio, di cambiare ordine delle cose almeno una volta al mese. Odiavo di dover vivere in una stanza sempre uguale e ancora di più, vivere allo stesso modo tutto i giorni. Non conoscevo bene il motivo per cui lo facevo, ma sapevo solo che l'involuzione mi provocava un forte senso di malinconia.
Accesi lo stereo della mia stanza, collegandoci il mio iPod. Feci partire la mia playlist preferita e, sulle note di Freddie Mercury, iniziai con il riporre i libri sul ripiano seguendo una sistemazione ben precisa. Nella mensola in alto, riposi i libri che avevo già letto e che probabilmente non avrei riletto per un po', mettendo su quella più bassa, i libri che ancora dovevo leggere. Cercai di ordinarli in maniera da avere un gioco di colori con le copertine, piacevole alla vista.
Un'ora dopo mi occupai dei vestiti ancora poggiati sul letto, fatta ad eccezione per qualche capo sparso sul pavimento e all'interno dell'armadio.
Raccolsi in un primo momento quelli a terra, decidendo se riporli al loro posto o se metterli nella sacca del bucato per lavarli. Finita questa veloce distinzione, raccolsi anche quelli caduti sul fondo dell'armadio, per fare lo stesso procedimento.
Nel prendere il mucchio di vestiti stropicciati, andai a urtare con le dita su qualcosa che produsse uno strano rumore.
Una scatola di cartone bianca, che aveva tanto l'aria di essere abbastanza vecchia, risaltò all'interno nell'armadio color mogano. Strano che non me ne fossi accorta prima, pensai, mentre feci spazio sul letto per appoggiarla.
La curiosità di scoprire cosa ci fosse all'interno, era molta e stava quasi per divorarmi, ma mi imposi che solo una volta aver finito di sistemare, l'avrei potuta aprire.
La camera era tornata come nuova ed ero molto fiera dei piccoli cambiamenti che ero riuscita a fare nel giro di due ore, però il mio auto elogio venne presto sepolto dalla curiosità.
Con il cuore a mille per l'agitazione, portai la scatola sulle gambe notandone il notevole peso. Nella testa provavo a immaginare cosa ci fosse all'interno ma una parte di me, come se sapesse cosa contenesse quella scatola, mi ripeteva che era meglio lasciar perdere.
Alzai il coperchio bianco, molto lentamente come se avessi paura di trovarci una bomba pronta ad esplodere.
A mia sorpresa, trovai numerose cartoline, videocassette e fotografie con la stampa leggermente rovinata per via del tempo.
Il cuore continuava a martellarmi nel petto mentre quella voce mi continuava a ripetere di metterla dove l'avevo trovata.
Giusto per sbirciare un altro po', afferrai una manciata di foto per scoprire qualcosa in più. Non ci misi molto a riconoscere i soggetti delle foto e un forte dolore al petto mi costrinse ad allentare la presa delle mani, facendomi scivolare le fotografie.
Ricordi. Una valanga di ricordi. Una valanga di emozioni e soprattuto ricordi, mi travolse in pieno non lasciandomi il tempo di prendere fiato. Mi sembrava di soffocare ed ero sicura di essere diventata bianca come quella scatola che tenevo ancora in grembo.
Presa da un attimo di forza, iniziai a frugare più velocemente al suo interno scoprendo solo altri oggetti famigliari che mi trasportavano in un ricordo doloroso se pur bello.
C'erano almeno una decina di cassette nere etichettate e altrettante cartoline che raffiguravano diversi posti nel mondo.
Londra. Canberra. Bangkok. Roma. Helsinki.Pechino. Singapore. Madrid. Mauritius. Parigi.
Tutte foto firmate sul retro con la stessa frase e la stessa sigla.
"Il mondo è sempre più nostro. REM"
Grazie al cielo, quella sigla di cui non
riuscivo a scorgerne il significato, mi aveva fatto spostare l'attenzione dai ricordi, prima che scoppiassi a piangere. Nel frattempo le domande si manifestavano prepotenti, alla ricerca di una risposta. Cosa stava a significare quella parola? Perché quella scatola era nel mio armadio? Possibile che non me ne ero mai accorta fino a quel momento?
Continuavo a sbirciare all'interno, in cerca di risposte, anche se ad ogni sguardo caduto involontariamente sulle foto, una nuova pugnalata mi faceva tremare.
Non trovai nulla che potesse aiutarmi, se non cartoline, qualche souvenir e quelle videocassette.
Chiusi velocemente la scatola, respirando profondamente, provando a soffocare quel desiderio di scoppiare in un pianto disperato. Mi alzai pronta a riporla nel posto in cui l'avevo trovata, ovvero nel fondo del mio armadio, convincendomi di dimenticarmene non appena avessi chiuso anche l'anta del mobile.
Però, forse in quelle cassette c'erano le risposte alle mie domande e se magari fossi riuscita a capirne di più, mi sarebbe stato più facile dimenticarmene completamente.
Correndo andai a posare la scatola sul divano per poi correre ancora verso il sottoscala, dove mio padre teneva alcuni dispositivi antichi, per via delle sue manie da collezionismo.
Frugai tra vari scatoloni in cui erano costituite alcune medaglie universitarie e delle coppe, cercando un lettore.
Lo trovai, ma tornando in salotto mi resi conto che c'era un altro problema da risolvere: l'avrei dovuto collegare alla TV per riuscire a vedere le cassette registrate.
Non sapevo se la cosa potesse funzionare vista l'incredibile differenza di tecnologia. Insomma, stavamo parlando di un televisore al plasma e di un lettore per videocassette di vent'anni prima!
Passai una buona mezz'ora ad analizzare i vari jack del lettore, cercando di capire quale fosse quello che mi avrebbe permesso di accenderlo, nella speranza che funzionasse ancora.
Nel dubbio, li collegai tutti alla TV aspettando qualche segno di vita da parte dell'aggeggio.
Una luce si accese e inserii la prima videocassetta togliendola dalla custodia nera su cui vi era un'etichetta adesiva bianca con scritto "play".
Un'inquadratura interamente nera di presentò sullo schermo della TV e si sentiva solo lo stormire delle foglie.
Stavo per cambiare videocassetta proprio quando una voce mi fece perdere un battito, congelandomi sul posto.
**
«È partito?» la videocamera si mosse cambiando l'inquadratura sull'erba verde. «Si è partito» constatò la voce di mia madre. Due bambini comparvero davanti la telecamera e fu un ulteriore colpo al cuore vedere la me bambina affiancata da un Kayl bambino. Ridevamo e urlavamo mentre mio padre ci rincorreva per tutto il giardino.
«Aiutaci mamma» urlai ridendo mentre mio padre allungava le braccia per afferrarmi. «Finalmente ti ho preso e ora ti mangio» usò un tono di voce più basso e roco sorridendo mentre mi capovolgeva con la testa a pochi centimetri dall'erba.
Iniziò a farmi il solletico sulla pancia tenendomi con l'altro braccio ben saldamente per paura che gli scivolassi.
«Mark fai attenzione» lo rimproverò mia madre, probabilmente con la paura che potessi farmi male.
A quel richiamo mio padre mi mise sulle sue spalle posando le sue grandi mani sulle mie esili gambe.
«Ora andiamo a prendere Kayl»
Esultai all'istante tenendo le braccia al cielo, mentre mio padre partiva all'attacco verso mio fratello.
Una volta preso anche lui, ci sdraiammo sul prato, ridendo ancora e mi parve di distinguere anche la risata gioiosa di mia madre.
Mio padre teneva le braccia dietro la testa guardando rapito dietro la telecamera dove c'era sua moglie. Io e Kayl continuammo a ridere mentre ripartimmo all'attacco, correndo fuori dall'inquadratura.
«Fatti vedere dalla telecamera» mio padre si alzò andando verso sua moglie.
«No Mark, sai che non sopporto essere ripresa» si lamentò mia madre.
«Fatti vedere, sei bellissima» la telecamera si spostò ancora e mia madre comparve al centro dello schermo.
**
Ed eccola lì, come mi aspettavo, la pugnalata che mi fece crollare. Calde lacrime caddero sulle mie guance e la vista mi si appannò così tanto da non riuscire più a distinguere le immagini sullo schermo.
Numerosi singhiozzi mi scossero e non c'era nessuno al mio fianco. La consapevolezza di essere sola, la solitudine che avevo provato alla morte di mia madre, mi lacerò il petto. Tutte quelle emozioni che avevo oppresso e tutte quelle lacrime che avevo trattenuto in quegli anni, si sfogarono in meno di dieci minuti passati a vedere un video. Mi sembrava di essere tornata la bambina di cinque anni a cui avevamo detto che la sua mamma non sarebbe mai più tornata.
«Abby» i miei singhiozzi furono interrotti da una calda voce e due braccia mi circondarono la schiena. Non mi ero neanche resa conto di star piangendo su un petto caldo.
Sussurrò ancora, «Va tutto bene» cercando di farmi calmare.
Negai con il capo non riuscendo a parlare, quando in realtà avrei voluto urlare tutto ciò che stavo tenendo dentro.
«Abby, guardami» mi ordinò, prendendomi il viso tra le mani e con i polpastrelli, cercava di togliere ogni traccia delle mie lacrime. Tentativo impossibile, in quanto ad ogni lacrima ne susseguiva subito un'altra.
Posizionai gli occhi sulla figura davanti a me e pur avendo la vista appannata, mi fu facile riconoscerlo.
I suoi lineamenti definiti cercavano di trasmettimi calma e sicurezza ma dai suoi occhi si leggeva chiara la preoccupazione.
Quella situazione era nuova per entrambi. Lui non sapeva cosa fare e come comportarsi, ed io non sapevo come calmarmi.
Continuò a farmi quei versi che solitamente si facevano ai bambini per calmarli.
«Basta piangere» ripeteva «Ci sono io» e ancora, «non riesco a sopportare vederti così»
Passai un tempo indeterminato tra le sue braccia e mano a mano che il tempo passava, mi resi conto che il senso di solitudine mi aveva quasi del tutto abbandonato.
Jonathan sospirò, quando finalmente ero riuscita a calmarmi.
Gliene fui immensamente grata per non aver fatto domande e, ancora di più per avermi aiutata.
Dai suoi occhi si poteva ancora leggere la preoccupazione e la curiosità di sapere.
Avevo tremendamente bisogno di sfogarmi con qualcuno, così iniziai a raccontare. I suoi occhi grigi mi guardavano comprensivi e le sue mani mi accarezzavano, confortandomi e incoraggiandomi.
Guardammo le altre videocassette e alla fine di ognuna gli raccontavo qualcosa in più di mia madre, della mia famiglia e della piccola Abby.
Per tutto il tempo venni cullata tra le sue braccia e, prima di chiudere gli occhi, lo ringraziai per tutto quello che aveva fatto e non smetteva di fare per me.
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