Capitolo venticinque
«Non vedo l'ora ch questa vacanza finisca.» Sbuffò la cubana, lasciandosi cadere a peso morto sul letto.
Dinah e Ally si scambiarono un'occhiata complice, confusa. Camila era stata quella più entusiasta del viaggio, e ora non vedeva l'ora di tornare a casa. Qualcosa non quadrava.
«Stai bene, si?» La interrogò la polinesiana, lasciando perdere la rivista di gossip che sostava sotto il suo naso. Le ultime mode stavano alimentando molta pressione sul suo portafoglio.
Ally chiuse il libro che stava leggendo da quando erano partite. Un autore straniero tradotto in lingua inglese che l'appassionava molto. Il cibo, il sonno e le amiche erano le uniche ragioni per cui poteva rinunciare ad una buona lettura.
«Benissimo, sono solo.. stanca di questo posto.» Mentì Camila, ma fu una mezza bugia, dato che dopo quel sogno ogni angolo dell'albergo era divenuto un potenziale rischio.
«Tu ami viaggiare, non ti lamenti mai.» Insinuò Dinah, ricordando di quanto euforica fosse Camila quando Sinu ricevette in omaggio due giorni fuori città per una mostra d'arte e Camila la seguì a ruota. C'erano tanti momenti che la inducevano a pensare che Camila fosse un'amante accanita degli aeroporti, stazioni o autostrade, ma ora pareva che tutto le facesse venire il voltastomaco.
«Che devo dirvi! Non mi piace, non voglio stare qui.» Sospirò esasperata.
Avvertiva una pulsazione angosciosa proliferarle nel petto.
Quell'inevitabile senso di terrore, terrore puro, di non poter scappare, di non poter correre. Era come essere rinchiusa in una camera iperbarica e non poter uscire finché l'aria non si fosse depressurizzata.
«Voglio andarmene e basta.» Dichiarò infine.
«Mila, senti, perché non facciamo un giro? Così parlano un po', che dici?» Propose Dinah, ma la cubana rifiutò gentilmente, sostenendo che preferiva stare sola.
«Pizza?» Domandò Ally, ma anche stavolta non andò a buon fine l'inventiva.
La sua mente era tutta concentrata su Lauren. Quel sogno era talmente reale, le sentiva ancora addosso le sensazioni, se chiudeva le palpebre. Ma solo dietro di loro, dietro le palpebre, la scena esisteva, il ricordo era solo una pia illusione.
Non le era mai capitato di desiderare così tanto che qualcuno la volesse, che quei sogni si animassero. Voleva soltanto sapere se ciò che immaginava fosse molto caricato o fosse più sfumato di quanto credesse.
Provò a dormire, ma più desiderava appisolarsi più il sonno si allontanava da lei. Quella rincorsa vana la stizzì oltremisura, al punto che litigò un'ultima volta con il cuscino prima di pugnalarlo con un affondo diretto.
«Vado a prendere una boccata d'aria.» Sentenziò inalberata la cubana, prima di scendere dal letto.
«Vuoi che veng...»
«Ahia!» Esclamò Camila, raggiungendo la pianta del piede con la mano.
«Che è successo?!» Si preoccupò subito Dinah, issandosi sul letto.
La cubana sfilò L'orecchino dorato a forma di rosa che le si era conficcato nella pelle.
«Cazzo, almeno state attente a dove lasciate le vostre fottute cose!» Poi lasciò la stanza senza aggiungere una parola.
Dinah strabuzzò gli occhi, visibilmente esterrefatta. Camila non aveva mai avuto eccessi di rabbia, ma nelle ultime settimane sembrava una pentola a pressione pronta ad erompere. Ally, attonita quanto la polinesiana, si chiese se non fosse il momento di porgere una preghiera per la cubana, ma Dinah suggerì che un esorcismo era più appropriato.
Camila non aveva idea di dove stesse andando, ma sapeva di non poter restare in quell'albergo un minuto di più. Scale, atrio, sala, centro. Calcolava macchinosamente il percorso da intraprendere per evadere da una gabbia che si era creata da sola.
Una ventata d'aria refrigerante le investì il viso, intiepidendo il bollore delle sue guance paonazze. Inspirò a polmoni aperti, distendendo la tensione dei muscoli e del respiro. Era contenta del caos piatto che rivitalizzava lo scenario davanti ai suoi occhi. Un'intera città si stava svegliando e quel trambusto la mise stranamente di buon umore, o comunque le diede sollievo. Rimase a guardarsi attorno per un po', come se per la prima volta identificasse la realtà, come se i contorni del suo corpo si adattassero perfettamente alle linee eterogenee del panorama. Era reale, non stava più sognando. Non era in preda ad una psicosi, cosa che ultimamente stava considerando attendibile.
Si sedette su una panchina nelle vicinanze; un mozzicone di sigaretta stava ancora fumando e una lattina di coca-cola pendeva in bilico sul bordo irregolare. Camila si afferrò la testa fra le mani e stropicciò contro il viso, diluendo i segni inequivocabili di stress e sonno. Era stanca, si, ma non sconfitta. Quando si rialzò dalla panchina sentiva di aver ripreso il controllo di se stessa, delle sue facoltà. Stava bene. Ma il bene è un confine talmente labile che un passo può scavalcarlo. E infatti, mentre ripercorreva a ritroso la strada, incappò in Lauren e il castello di carte vacillò.
Era bella, sempre così spontanea nella sua bellezza naturale, trasgrediva ogni legge con uno sguardo distratto e le ridisegnava tutte con le movenze di una mano.
Lauren era seduta su una panchina poco distante, stava controllando qualcosa riguardo un malloppo di compiti che giacevano diligenti accanto a lei. Camila abbassò lo sguardo sui gesti nervosi che tessevano le mani. Davanti ai suoi occhi irrequieti danzavano le immagini della scorsa notte, immagini fittizie, per questo ancor più imbarazzanti perché reali solo nella sua fervida immaginazione.
Mentre proseguiva a passo spedito, ebbe il malsano e incontrollato riflesso di voltarsi solo una volta verso la corvina alla sua sinistra. I suoi occhi non intercettarono la testa china della donna, ma due smeraldi vigili che in controluce la stavano fissando. Camila incespicò nei suoi passi. Distolse immediatamente lo sguardo, tentò di improvvisare un espediente per restare immobile, li, al centro della scena, solo perché quello sguardo le aveva solleticato qualcosa sotto pelle. Era una sensazione medianica, intangibile ma presente.
Fu tentata di andarsene, di lasciar perdere, ma quella strana e indefinibile energia continuava a scorrere esigente. Era attratta da essa come lo siamo di fronte ad un corridoio buio: impaurita ma elettrizzata.
Quando si voltò nuovamente notò che Lauren aveva lasciato perdere i compiti, aveva accavallato le gambe, raccolto le mani in grembo, sollevato appena il mento, e mirato a lei. La stava fissando spudoratamente, anche un po' spavaldamente. Camila era un po' superstiziosa, e interpretò quel portamento come un segno che spronò la sua curiosità a inoltrarsi verso il buio. Si avvicinò alla corvina con i pugni stretti per farsi coraggio, le spalle dritte, i muscoli tesi e il mento appena sollevato, un po' spavalda un po' spudorata.
Lauren accennò un sorriso salace.
Camila si fermò di fronte a lei, oscurando il Sole che prima le bagnava la faccia.
Dì qualcosa, idiota! Si rimproverò, ricordandosi solo adesso di dover asserire qualcosa. E fra tutte le cose che avrebbe potuto dire, scelse la più banale.
«Le è caduta la penna.»
Lauren lanciò uno sguardo compassato ai suoi piedi, poi tornò lentamente a guardare Camila, reclinando appena la testa.
La cubana deglutì. Non riuscì a sostenere quello sguardo penetrante a lungo, così si chinò rapace per appropriarsi della biro. In quel breve lasso di tempo chiuse gli occhi e inspirò a fondo, ordinando a se stessa di fare mente locale.
«Grazie.» Rispose con sussiego Lauren, sfilando la penna dalla mano della cubana.
Camila annuì lentamente, poi, impacciata e indecisa come sempre, si sedette goffamente al suo fianco, facendo attenzione che le ginocchia non cozzassero l'un l'altra.
«Posso farle una domanda?» Si ritrovò a chiedere la cubana dopo una lacuna di silenzio apparentemente lunga.
Lauren voltò lentamente lo sguardo verso di lei, poi la incitò sporgendo appena in avanti il mento.
«Le è mai capitato di credere di conoscere una persona, ma in realtà di non conoscerla affatto?» Le iridi della cubana non lasciarono quelle dell'altra nemmeno per una frazione di secondo.
Gli smeraldi di Lauren rimasero inalterati, imperturbabili. Eppure, dietro quella maschera austera, Camilla notava onde e spiagge, orme e lune. Spazi infiniti, ma insondabili. Qualcosa le sfuggiva perché ciò che vedeva era solo ammirabile, non tangibile al tatto.
«Dipende. Credo di no.» Scrollò le spalle, tentando di impostare il discorso su una linea decorosa e insospettabile.
«E non le è mai capitato che questa figura, disegnata proprio da lei quindi, si imponesse sulla realtà?» La cubana passò la lingua sul labbro inferiore, mentre le mani tremavano sulle ginocchia.
«Non capisco cosa mi stai chiedendo, Camila.»
La cubana avvertì un brivido propagarsi lungo la spina dorsale, al suono del suo nome. Il modo in cui scivolava sulle labbra di Lauren era sensuale e fluido, pacato. Le piaceva troppo il suo nome pronunciato dalla bocca di Lauren.
«Le è successo che si sia fatta un'idea di qualcuno talmente bella e verosimile che poi ha confuso la vera personalità di quella persona con ciò che in realtà era solo frutto della sua fantasia?» Descrisse meticolosamente, tutto d'un fiato, riprendendo ossigeno solo dopo aver scagliato l'ultima parola.
«Mh, no. Sinceramente no. Forse sono troppo realista e concreta. So molto bene come sono le persone, ecco perché non mi concedo alcuna fantasia su di loro.» Spiegò la corvina, improvvisamente avvertendo la gola secca e la salivazione a zero.
Perché quella ragazzina continuava a metterla a disagio? Era bella, senza dubbio, ma c'era qualcos'altro in lei, qualcosa di profondamente irriconoscibile che offuscava la sua mente. Forse il modo di camminare, la gesticolazione nervosa, il ciuffo ribelle davanti agli occhi o le scarpe non abbinate al resto. Forse gli occhi grandi e scuri, o magari le mani piccole e graziose. O forse quel balbettio che produceva quando era in difficoltà, o le imprecazioni che slittavano fuori sommessamente quando il distributore le fregava gli spiccioli. Che cosa percuoteva il suo tronco fino alle radici?
«Capisco.» La voce sottile della ragazza la riportò alla realtà «Allora forse dovrei imparare ad esserlo, concreta. Ad avere un carattere concreto, amicizie concrete, una relazione concreta...»
«Ci vuole coraggio.» Si accavallò Lauren, alzandosi dalla panchina e raccogliendo i suoi documenti.
«Perché?» Chiese la cubana, strizzando gli occhi per schermarsi dal dardo di sole che le infelicitava la vista e procurandosi ombra con una mano.
Ora il sole bagnava la schiena di Lauren, donando lucentezza a ciocche sparse che le incastonavano il viso in un riflesso frammentato. I suoi occhi vennero riverberati da un bagliore di sole perso nell'aria.
«Perché concreto è un tempo più lungo anche di infinito.» La fissò per qualche istante, senza dire niente, poi abbozzò un sorriso ineffabile, infine scostò un ciuffo corvino dietro l'orecchio.
Fu un istante, un secondo talmente breve da sembrare inesistente, ma Camila fu sicurissima di riconoscere lo stesso orecchino trovato nella sua stanza appeso al lobo di Lauren.
Era lo stesso.
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