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"Pizza e birra"

Hoseok guardò l'hacker digitare con furia sul cellulare e imprecare sottovoce.

«Che stai facendo?» gli chiese perplesso.

V alzò lo sguardo dallo schermo e lo fissò su di lui. «Jimin sta bene».

«Okay» gli rispose Hoseok, «ma dov'è?»

«A casa mia».

«E perché?»

L'hacker tornò a concentrarsi sul cellulare, quasi lui stesso non credesse alle parole che gli uscivano di bocca «È possibile che io abbia chiesto a qualcuno di andare a prenderlo».

Hoseok non capiva quel ragazzo. Ci aveva provato. Davvero. Ma ogni volta che pensava di averlo finalmente compreso, faceva qualcosa che lo spiazzava e buttava all'aria tutte le sue convinzioni.

Aveva mandato qualcuno a salvare Jimin.

Una persona che conosceva da poco tempo.

Lui, che sembrava essere privo di emozioni.

Ma che a volte si trasformava in un cucciolo bisognoso d'affetto.

«Chi hai mandato?» gli chiese alla fine, potendo dare voce a quell'unica domanda tra tutte quelle che gli vorticavano in testa.

«Ha importanza? Jimin è salvo, questo è tutto quello che conta».

V era nervoso.

Aveva troppi segreti.

E Hoseok era stanco.

Di fingere.

Di assecondare, lui e sé stesso.

Ma avrebbe lasciato perdere, per ora.

Sorrise e gli allungò una mano per accarezzargli i capelli spettinati.

Quasi gli faceva pena.

Non aveva idea di quello che lo aspettava.

«Per questa volta lascerò correre» gli disse pizzicandogli una guancia e avvicinandolo al suo viso «ma ora andiamo a casa tua».

L'hacker non ne voleva sapere di portarsi Hoseok a casa.

Finì per portarsi tutta la squadra.

Namjoon, Yoongi e Jungkook si erano infilati nell'auto di Hoseok e non ne avevano voluto sapere di scendere.

Taehyung invece ci aveva provato, ma il detective, stringendo la cintura di sicurezza molto più di quanto fosse necessario, gli aveva fatto capire che non sarebbe andato da nessuna parte.

Si era arreso.

Che senso aveva lottare?

Gli avevano anche nascosto le chiavi della motocicletta, quindi, sbuffando, non gli restava che fornire indicazioni verso casa sua.

«Pensavo che gli hacker guadagnassero di più» affermò Yoongi dopo aver visto la vecchia fabbrica abbandonata.

Taehyung si limitò a emettere l'ennesimo sbuffo indignato e ad aprire le porte del garage.

«Porca puttana» imprecò Namjoon alla vista di quello che c'era all'interno.

Taehyung sorrise e guardando le bocche spalancate dei tre passeggeri sui sedili posteriori disse: «guadagno sicuramente più di un poliziotto».

Hoseok gli pizzicò un fianco ridendo. «Non vantartene troppo, non è che sono frutto di un lavoro onesto i tuoi soldi».

«Certo che sì!» gli rispose massaggiandosi il fianco l'hacker. «Io derubo onestamente persone disoneste».

«Non fa una piega guarda» disse il detective scendendo dall'auto seguito dagli altri.

Taehyung face strada verso l'appartamento interno e quando arrivarono alla porta di casa non si preoccupò di occultare il codice d'accesso, l'avrebbe semplicemente cambiato quando sarebbero andati via.

Fece strada nell'ampio soggiorno avvertendo dietro di sé la preoccupazione dei suoi ospiti tornati d'un tratto seri. D'altronde il pensiero di Jimin non li aveva mai abbandonati.

Prima ancora che potessero vedere, udirono le voci.

Di Jin e di Jelo.

Quei due erano piegati sul divano coprendone la visuale.

«Sei sicuro di aver fatto un buon lavoro?»

«Certo che ho fatto un buon lavoro! Con chi credi di star parlando?!» rispose indignato Jin alla domanda di Jelo.

«Con un medico legale».

«Noi medici legali abbiamo studiato la stessa cosa di quelli che si occupano dei vivi».

«Ma ti sei mai occupato di qualcuno vivo?»

«Sì» disse esasperato il medico. «Una volta un cadavere si è risvegliato sul tavolo per le autopsie mentre stavo per incidere».

«E tu che hai fatto?» gli chiese la ragazza curiosa.

«Gli ho dato una botta in testa e ho chiamato l'autombulanza».

«E lo hai curato nel frattempo?»

«No, mica vengo pagato per badare a cadaveri che dovrebbero essere morti ma tornano fastidiosamente in vita».

Jelo tornò a guardare l'uomo steso sul divano e gli appoggiò le dita sul polso. «Giusto per sicurezza» disse a Jin che la guardava offeso, «non perché non mi fidi delle tue capacità».

«Per questo Jimin doveva essere portato in ospedale» disse Taehyung interrompendo la bizzarra conversazione che si stava svolgendo in salotto tra sua sorella e il medico legale.

Jin e Jelo si spostarono permettendo così al resto della squadra di poter finalmente vedere Jimin.

Impazienti gli uomini si avvicinarono al divano per osservarlo meglio.

L'analista non aveva decisamente un bell'aspetto.

«Ha un paio di costole rotte e brutti lividi e tagli sul corpo, ma nulla di grave, si riprenderà senza problemi» disse loro Jin per rassicurali.

I suoi vecchi compagni annuirono, nonostante gli scherzi, si fidavano cecamente del parere del medico.

Jungkook, nuovo membro della squadra, guardava Jimin con tanta pena negli occhi, lo sfiorò con la punta delle dita, quasi timoroso di fargli male.

Namjoon, osservando la sua reazione, gli strinse una spalla, rassicurandolo. «Starà bene».

«Starà ancora meglio quando metterò le mani sui bastardi che gli hanno fatto questo» disse Hoseok sinistro.

Nel mentre, intanto che gli altri erano accalcati intorno a Jimin, Taehyung aveva trascinato sua sorella in cucina.

«Spiegami dettagliatamente quello che hai fatto» le ordinò sibilando e cercando di tenere la voce bassa.

Jelo sbuffò annoiata. «Non ne possiamo parlare dopo?»

«No» le disse agitato Taehyung, «faranno delle domande, dobbiamo concordare una versione da rifilargli».

«Diremo quello che ho detto a Jin».

«E che hai detto a Jin?»

«Che sì, sono stata io a rintracciare la posizione di Jimin e curiosa mi sono diretta sul posto. Una volta lì ho trovato Jimin vagare ferito, lo caricato in auto e ho chiamato Jin affinché se ne occupasse».

«È andata davvero così?» le chiese Taehyung speranzoso.

«No, ovviamente. Ma lo hai visto? In quello stato non sarebbe arrivato nemmeno alla porta».

«Quindi hai davvero ucciso quegli uomini?! Ti avevo detto che qui in Corea non dovevi farlo!»

«No» lo corresse Jelo «mi hai detto che potevo in casi estremi e poi sei stato tu ad insegnarmi a sparare e comunque non li ho uccisi, li ho solo sedati».

«Tu non-»

«Hey» li interruppe Namjoon, «volevamo ringraziare Jelo per aver aiutato Jimin. Jin ci ha raccontato tutto».

«Non c'è problema!» rispose Jelo. «Non ho fatto granché» e sorridendo ritornò in salotto.

Taehyung digrignando i denti la seguì.

E continuò a farlo per tutto il resto della serata.

Ignorando ogni sua obiezione rimasero tutti a cena lì, stretti intorno al piccolo tavolo a mangiare e bere per festeggiare il ritrovamento del loro compagno.

La versione ufficiale era che non volevano lasciare Jimin da solo. Ma l'analista, sedato da Jin affinché riposasse meglio, dormiva pacificamente sul divano, ignaro di tutte quelle persone che facevano a gara per stargli accanto.

Secondo Taehyung, erano rimasti solo per scroccare la pizza.

Dopo estenuanti lotte e molto tempo addietro finalmente l'hacker riuscì a mandarli a casa. Quasi tutti.

Jimin, per forza di cose, sarebbe rimasto sul suo divano.

Jin si era accampato sull'altro dicendo che la sua vocazione di medico non gli permetteva di lasciare il paziente. Russava già da un po'.

Hoseok fu il più difficile da far sloggiare e quello che preoccupava di più Taehyung era che adesso sapeva dove viveva.

Dopo aver chiuso la porta alle spalle del detective, sospirò esausto e dopo aver coperto i due corpi addormentati sul divano con delle coperte spense le luci.

A qualche isolato di distanza un uomo camminava nervosamente parlando al cellulare.

«Non doveva andare così! No, non m'interessa, non mi calmo! Nessuno aveva parlato di fargli del male! E invece l'avete quasi ucciso! Fanculo il piano!»

Jungkook chiuse la chiamata e si lasciò cadere contro il muro, infilandosi le mani tra i capelli disperato.

Non doveva andare così, Jimin non avrebbe dovuto farsi male. Ma avevano sottovalutato l'analista e anche l'hacker, entrambi erano riusciti a scoprire più di quanto fosse previsto e nonostante Jungkook avesse dirottato e sabotato molte delle loro indagini... non era riuscito ad evitare quello che era successo.

Lui stesso aveva fornito loro l'indirizzo di casa di Jimin.

Non voleva più farlo e sapeva di non potersi tirare indietro ma non voleva nemmeno ferire delle persone innocenti.

Sbatté frustato la testa contro il muro dietro di lui e si accorse dell'uomo che si stava lentamente avvicinando.

«Non voglio più farlo» gli disse amareggiato.

Una lacrima scese solitaria sul suo viso, per poi depositarsi sulle labbra secce e screpolate.

L'uomo gli tese la mano e lui, impotente e tremante, la prese, sperando di non aver fatto la scelta sbagliata.

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