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Capitolo 7



I can't help but give in
Like blood in my veins
Darkness is sinking
Darkness is sinking me.

———

«Aspetta un attimo, Camila. Non possiamo farlo...» Il timoroso sorriso di Dinah istigò il mio fuoco. Se c'è una cosa in vita mia che ha fatto divampare le fiamme dove c'erano solo braci, é proprio la paura.

«Non é illegale.» Alzai le spalle.

«Ma é scorretto.»

«Stai seriamente parlando d'etica di fronte a Lauren Jauregui?» Si risentì per la mia risata, ma rimase composta. Ammiravo, senza alcun invidia, la sua flemma.

«Lei può giocare sporco quanto vuole, non ha altri modi di vincere, é sempre stato così.» La pausa voleva solo essere d'effetto, e devo rendere merito ai suoi intenti. «Ma tu puoi fare di molto meglio di così, santo cielo.» Si grattò la fronte. C'erano ragioni che nemmeno il bene poteva comprendere. L'unica volontà capace di afferrare il male era quella in grado di sopportarlo e lei era troppo buona per un sacrificio.

«Dinah, non sto andando a derubare una banca. Ho un'amica in ospedale, le voglio solo chiedere un favore. Tutti gli archivi sono sia cartacei che telematici... É solo una sbirciatina innocente.»

«Tu sei tutt'altro che innocente.» Mi dedicò un'occhiata torva ma l'angolo della bocca si arcuava solo come un perdono sa fare.

«Beh, non ho scelto questo lavoro per divertimento.» Ammiccai amabilmente, ingraziandomi la sua approvazione.

«Ti citerò in giudizio per questo.» Tuonò alle mie spalle mentre raggiungevo l'uscita.

Abbozzai un sorriso, ricambiando con un ironico: «Mi dispiace per il tuo avvocato!»

Il viaggio mi diede modo di pensare, ma non di cambiare idea. Non ero convinta la scorrettezza fosse il merito migliore, ma questo avveniva prima di Lauren. Vittoria e integrità erano due opposti in questa sfida e, prima o poi, dovevi rinunciare ad uno dei due. Un passo oltre il limite non mi sembrava un travalicamento, ma questo perché non sapevo ancora cosa fosse più importante per me: la vittoria o l'etica. La parte giovane di me aveva una risposta che la parte odierna non ascoltava, e così andavano avanti gridandosi contro e tappandosi le orecchie vicendevolmente. Da quando Lauren era tornata nella mia vita, ogni giorno ero uno sorpresa per me stessa e, in mancanza del timore, accoglievo il dubbio con euforia. Non ero disposta a far del male, non più, ma ero pronta a schierarmi al di là del bene per sopravvivergli.

L'ospedale era in fermento. Mi districai fra la ressa e mostrai il badge con il mio titolo per ricevere un trattamento speciale. Non mi dispiaceva affatto sentirmi superiore agli altri, non mi metteva in imbarazzo usufruire dei miei crediti per ottenere vantaggi. Era un diritto guadagnato da sforzi. L'infermiera mi accompagnò gentilmente dalla sua collega, la quale mi riconobbe anche in lontananza.

«Sei sparita per un bel po'.» Disse quando restammo sole, facendo scivolare spudoratamente i suoi occhi dall'alto in basso.

«Ho avuto questioni... complicate da risolvere. Tu puoi ben capire.» Sorrisi ammiccante, adagiando il gomito sul bancone.

«In realtà, non molto. Sono stata impegnata, certo, ma ti ho scritto lo stesso.» Mi rimirò dritto negli occhi, innalzando le sopracciglia come se la domanda fosse implicita.

«Sicura fosse il numero giusto?»

Suo malgrado, ridacchiò: «Almeno tu non me lo abbia dettato sbagliato.»

«Lo sai, non sono sicura che in un tribunale questa sarebbe la mossa azzeccata, Christina.»

«Per fortuna non sono io l'avvocato.»

Venimmo interrotte da un medico. Christina gli consegnò la cartella che stava cercando. Quando tornò alla nostra conversazione, aveva già preso coscienza non fossi lì per lei.

«Quale favore ti serve stavolta?» Sospirò, raddoppiando le distanze.

«Lo fai sembrare un rituale più che un evento isolato.» Scattare sulla difensiva era deformazione professionale.

«Non sto dicendo tu sia un'approfittatrice, ma non vieni qui a chiedermi una seconda uscita.» Si strinse nelle spalle. Ergo, si mi riteneva un'egoista.

Sospirai dispiaciuta, alzando le mani più in segno di scuse che di innocenza; erano più sincere le prime che la seconda.

«D'accordo, ho bisogno di un favore.»

Schioccò la lingua contro il palato, sorridendo trionfante. Si accontentò di quella piccola vittoria per venirmi incontro: «Dimmi.»

Le riassunsi brevemente la storia e giunsi alla conclusione di abbisognare della cartella del paziente John Terrison, per comparare la versione del mio cliente alla verità, ma soprattutto per sapere come difendermi da essa.

«Non sei una che si fida nemmeno se pagata profumatamente, eh?»

«Soprattutto in quel caso.» Sorrisi, ma lo pensavo davvero. Le persone sono disposte a qualsiasi costo pur di perorare una bugia.

«Va bene, si può fare... Ma!» Drizzò l'indice prima ancora che la ringraziassi. «Stasera prenoti un tavolo per due nel ristorante più caro di New York.»

«Questo non é un favore, é una minaccia.» Mi sporsi in avanti. Mi piaceva.

«É una trattativa.» Mi corresse, dedicandomi uno sguardo languido.

«Lascia dettare i termini a me. Per adesso accetto solamente le condizioni.» L'avvisai provocatoria, mettendola in guardia sulla serata che l'attendeva.

Ridacchiò, colpendomi il braccio, infine mi fece cenno di raggiungerla dietro il bancone. Scovò la cartella con due click e mi concesse cinque minuti per memorizzare tutto. Ingrandii il documento.

John Terrison, ricoverato il... alle ore... Capace di intendere e di volere... Stato: cosciente. Lesioni multiple... emorragia interna dovuta a percosse... Il paziente é stato aggredito molteplici volte al volto e allo stomaco, riportando una frattura alle costole. Si é dovuto agire chirurgicamente per tamponare l'emorragia. Stato attuale: dimesso.

«Camila...»

«Si, ci sono.» Chiusi il documento, fagocitando le informazioni. Qualcosa non mi quadrava. Dovevo contattare il mio cliente per un secondo colloquio, ma non quella sera.

Alzai lo sguardo verso Christina mentre le lasciavo la sua postazione: «Passo a prenderti alle otto.» La salutai quando già ero nell'ascensore.

                                       *****

Rise contagiandomi: «No ok, dico davvero. Perché?»

«Le risposte precedenti non ti piacevano?» Abbozzai un sorriso.

«Non erano sincere.»

«Non saresti un buon avvocato.» La condannai con la punta della forchetta.

«Tu invece lo sei, devo dedurne tu sia bugiarda?» Inclinò la testa, come se le bugie uscissero storte.

Annuii compiaciuta. Ero soddisfatta -per non dire stupita- dalla sua amenità. Forse aveva capito che per ammaliarmi doveva sfidarmi, per conquistarmi vincere.

«Non sono bugiarda, ma in ogni stanza so chi mente. Perciò non sono io a dovermi preoccupare.»

«Ma davvero?» Suonò scettica al limite dell'offensivo. Sostenni il suo sguardo come risposta. «Va bene, allora dimostralo.» Si guardò attorno, poi indicò una coppia casualmente. «Lui o lei, chi dei due é il bugiardo?»

Li sbirciai prudentemente. Erano i dettagli a rivelare grandi segreti. «Lei é una bugiarda di prima classe. Indossa un vestito falso, ma l'ultimo modello. Il piede non sta fermo sotto al tavolo, vuol dire che é nervosa. Sta giocherellando con un anello, sono quasi convinta sia la sua fede e che abbia solo spostato il dito per questa sera. Lui invece non é un bugiardo, ma é un'ipocrita perché finge di non saperlo.»

Christina mi osservava a metà fra il divertito e lo sbalordito. Non sapeva se ridere o applaudire. Era buffa. «Te lo sei inventata, ammettilo.»

«Temo non lo sapremo mai.» Strizzai l'occhio, aspettando la sua onesta reazione.

«Quella coppia.» Additò un altro tavolo, stavolta tutto al femminile.

«Sono mamma e figlia. Hanno gli stessi colori dell'incarnato, gli stessi atteggiamenti. La figlia é agitata, ha bevuto più della madre visto che uno dei due calici é pulito. Continua a distogliere gli occhi da lei, non vede l'ora di andarsene. Come tutti i figli, appunto.»

«Andiamo, stai mentendo.» I suoi occhi andavano rimpicciolendosi, quasi potesse vedermi meglio attraverso due tagli.

«Potrei sbagliarmi, ma non sto inventando niente. Cosa ti aspetti? É il mio lavoro.» Sorrisi modestamente.

«D'accordo. Ultimo tentativo.» Ispezionò i tavoli accuratamente prima di sceglierne uno. «Quelli in fondo alla sala.» Un cenno del capo mi suggerii la traiettoria.

Mi voltai, sbarrando gli occhi. Disattesi il silenzio carico di curiosità con un'affermazione poco elegante: «Due pezzi di merda.»

Christina smise di ridere quando mi alzai nella loro direzione. Mi avvicinai marzialmente al tavolo, ignorando le occhiate furtive dei commensali. Potevo accettare la slealtà, potevo passar sopra la scorrettezza, ma non ero disposta a indulgere sullo smacco.

«Beh? Hai sbagliato numero di telefono questa mattina?» Entrambi fecero scattare la testa verso di me, intontiti.

Lauren roteò gli occhi al cielo, mentre Alex farfugliò qualche espediente.

«Camila, non é come pensi, credimi.» Mostrò i palmi delle mani, ma avevo perso la fiducia già prima di acquisirla.

«Se questa storia é una trovata del cazzo per screditare la mia reputazione, é meglio che parliate prima che vi rovini.» Feci spola fra i due, ma Lauren ricambiava la mia insolenza con il silenzio.

«No, Camila. Io ho solo accettato un invito.» Se ne lavò le mani il mio cliente.

«É colpa mia.» Come se non lo sapessimo. Il tono di Lauren era talmente calmo da irritarmi doppiamente. «Volevo parlargli per convincerlo a patteggiare.»

«Queste sono richieste che devi fare a me.» Scandii lentamente, fissandola negli occhi.

«Non devi spiegarmi come svolgere il mio lavoro.» Rispose posata, ma austera.

«A quanto pare si, se ci troviamo a svolgere le pratiche formali ad un ristorante.» Scossi la testa, incredula della mia stessa dichiarazione. Come le era passato per la testa?

«Non ho chiamato il tuo ufficio perché é domenica. E perché avrei voluto evitare le scenate che stai facendo.»

«Se avessi voluto evitarle, avresti aspettato lunedì.» Sibilai a denti stretti.

«Camila, calmiamoci adesso.» Alex abbassò il capo intimidito dall'attenzione della sala. Osservai fugacemente decidendo di spostare la conversazione altrove. Feci segno a Lauren di seguirmi fuori dal locale e, per la prima volta in vita sua, non mi contraddisse.

L'aria vespertina mi pizzicò la pelle, ma il bollore della rabbia fece evaporare i brividi. Appena la porta si chise una seconda volta, la inchiodai al muro, puntandole un dito contro: «Ascoltami bene, Lauren. Te lo dirò una volta e una soltanto.» Rimase imperturbabile, quasi sapesse di meritarlo e soprattutto se lo aspettasse proprio per lo stesso motivo. «Non siamo più in classe, questo non é un gioco innocente fra ragazzini. Ci sono di mezzo delle vite e non sono le nostre. Ora, non mi aspetto certo tu agisca correttamente, perché ti conosco.» Lasciai volutamente la frase in sospeso; il silenzio dava il peso giusti agli sguardi. «Ma ci sono dei limiti, legali tra l'altro, che se ti azzardi a superare di nuovo ti costeranno la carriera.» La spinsi verso il muro con la forza di un dito, innervosendomi per l'impassibilità del viso. «Non mi interessa come intendi giocare, ma non pestarmi i piedi un'altra volta perché ti ho già fatto vedere di cosa sono capace e non ho paura a farlo di nuovo.»

Respirava placida, attuando il silenzio come strategia. L'affanno della mia collera rimbombava fra noi. Inspirò un'unica volta, aggiungendo: «Un ristorante italiano come prima uscita é un po' scontato.»

Mi allontanai di un passo, altrimenti avrei permesso all'ira di agire inconsultamente. Non rispondevo più alle sue picche con i miei capricci. Era stato proprio quel meccanismo a tirare fuori il peggio di noi.

«Ti ho avvisato, Lauren. Non rendere le cose difficili, lo sono già di suo.» 

La lasciai da sola, ritornando al mio tavolo. Lei non si mosse per qualche minuto. Se non si stava pentendo, stava pensando a come peggiorare la situazione. Non c'era via di mezzo: se non voleva irritarmi, voleva umiliarmi, e quello era un lusso che le avevo già consentito una volta di troppo. Non una volta in più in questa vita. Mi aveva conosciuto come una ragazzina, ma la donna che ero non ammetteva la metà dei suoi giochi, e presto lo avrebbe scoperto.

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