Capitolo 26
And in my head I did my very best saying goodbye
And I don't miss you, but
I think of you and I don't know why
I still feel high.
————
Dopo un mese...
New York l'avevo trovata uguale a come l'avevo lasciata, era cambiata la mia voglia di viverla. Prima riuscivo a vedere solo gli aspetti positivi, mentre adesso facevo ammenda anche su quelli negativi, avvertendo una puntura di malinconia quando chiudevo gli occhi e immaginavo la spiaggia, il patio di casa...
Il lavoro, comunque, mi teneva indaffarata. Non avevo tempo di pensare, figuriamoci di fantasticare. La razionalità era uno strumento, ma lasciavo i sogni a chi ne aveva il tempo. Io mi dividevo fra ufficio, tribunale e casa. Non avevo sgarrato neanche per sbaglio. Anzi: gli sbagli erano casualità da prevenire per non incappare in fatalità.
Per il resto stavo bene. Andava tutto bene. Non importava quanto rimpinguassi le giornate per non avere nemmeno un minuto di autonomia al pensiero. Non importava se l'unica cosa che sentivo era il rumore dei tasti sul computer. Ero impegnata. Capitava. Era tutto normale. Andava tutto bene. Anzi, andava meglio di bene: andava come sempre.
Dinah entrò nel mio ufficio senza bussare, ma non era una novità: «Ho chiuso con questo stronzo!» Proruppe, falciando la distanza con passi belligeranti.
«Quale dei tanti?» Domandai senza alzare la testa dai documenti.
Lei si sedette sulla poltrona, leggermente offesa per la mia indolenza: «L'unico che non paga abbastanza.»
«Le tariffe sono uguali per tutti.» Feci spallucce, confusa dalla sua affermazione.
«Camila, era una battuta. Sai cosa significa ridere? Questo verbo astruso e psicotico nel tuo mondo?» Si scolpì un'espressione bonaria ma derisoria, con cui mi canzonò da una parte ma sondò la verità dall'altra.
Le rivolsi un'occhiata sinistra, poi tornai al mio lavoro senza dargliela vinta.
«Ma che ti succede?» L'intonazione era scesa da acuta a greve, come succede quando si sottovaluta la portata del problema.
«Che mi succede...» Feci finta di non capire a cosa si riferisse: «Sto lavorando, sono concentrata.»
«Non "che ti succede" adesso. Che ti succede da un mese a questa parte?» Incrociai il suo sguardo solo perché eluderlo avrebbe connotato ogni mia risposta di ipocrisia.
«Sto lavorando anche da un mese a questa parte.» Stirai un sorriso, incastonandomi in una solenne indifferenza.
Mi squadrò per qualche secondo, cercando dove fosse l'errore: se nella sua analisi o nella mia parola. La verità era che nemmeno per me fosse intuitivo. Il dolore per me non era come un pugno, subitaneo e inconfondibile; per me era più come il livido dopo la botta, bisogna sempre sfiorarlo per sapere se duole o no. Così soffrivo senza saperlo. C'era un patto fra la mia testa e il mio corpo: nessuna sofferenza andava sprecata in tempo perso. Per gli altri era diverso, incomprensibile anche. E come spiegava a loro qualcosa che non aveva senso neanche per me, ma che mi era soltanto utile?
«No,» trasse infine Dinah dopo il suo attento calcolo, «no.» Scosse la testa piano piano, rispettando il mio silenzio con un'ossequiosa sobrietà.
Inspirai teatralmente, tirai la schiena all'indietro e incrociai le braccia al petto. La guardai sfrontata a questo modo, come per dirle di scagliare tutti i tiri che aveva.
«Dopo Chicago qualcosa é cambiato in te.» Fece centro al primo colpo, cogliendomi talmente sprovveduta da incespicare nel mio respiro.
«Non so da dove...» Ma il mio passo falso aveva accelerato il suo.
«E dopo Miami é cambiato di nuovo.» Se avesse avuto altre frecce, mi sarei fatta arco per non sentire più i colpi.
Sostenni malferma il suo sguardo, inspessendo le spalle per nascondere il fremito del battito. Due nomi che erano sacrilegi, due posti che erano fantasmi. Gli spettri abitano i luoghi più tristi, e per questo la mia memoria traversava a mani nude il muro fra questi due ricordi.
«Ti sei fatta un film.» Smentii senza esser convinta nemmeno io di quanto bene fingessi.
«Non mi sono fatta niente perché non ho la minima idea di cosa possa essere capitato, ma quando vorrai parlarmi sarò qui. Come sempre.» Cullò il mio sguardo con affetto impenitente, facendomi sentire meno sola nella mia rabbia.
Annuii riconoscente, ma non permisi alla mia ferita di sanguinare attraverso le ciglia, dunque dissi: «Avrei bisogno di distrarmi, magari una serata per noi aiuterebbe.» Non so nemmeno se fosse vero, cercavo solo nuovi espedienti per non piangere. Per quanto fosse stupido (e lo era), vedevo tutto il male del mondo in una lacrima; era un dolore troppo diafano per una come me che patteggiava con ogni sofferenza quasi avesse voce in capitolo su cosa sacrificare. Non volevo assaggiare l'amaro di quanto perdevo, perché ero sicura che avrei succhiato via il sale come il veleno di un morso che promette di ucciderti solo per sbaglio.
«Perfetto, anzi, sarebbe il momento ideale per presentarti la mia fidanzata.» Ammiccò maliziosa, cavandomi un sorriso sincero.
«Dinah... sono felice per voi.» E stavolta lo ero davvero, ma l'eco nel mio petto mi arrochiva la voce.
«Si, beh.. anche io.» Annuì fra sé e sé, ma non esplose di entusiasmo. Nella sua tangibile felicità c'era un che di angosciato. «D'accordo, allora stasera?» Mi sembrò un aut-aut: ora o mai più.
Non compresi la fretta tipica di chi avrebbe cambiato idea se non si fosse incastrato da solo, ma accettai di buon grado. Ally era atterrata a New York una settimana prima. Il suo cliente viveva nei dintorni, perciò si sarebbe fermata qualche giorno per sbrigare alcune pratiche. Invitammo anche lei alla serata.
Tornai a casa a cambiarmi. Non avevo voglia di strafare, non avevo voglia di fare, in realtà, però mi impegnai per vestirmi e truccarmi. C'era un gusto di rivincita nella bellezza. Uscii di casa puntuale, ma riuscii ad arrivare comunque in ritardo. Ally e Dinah stavano parlottando fra di loro. I loro bisbìgli si estinsero quando mi avvicinai, ma le loro espressioni non fecero in tempo a mutare. Colsi l'agitazione nei loro sorrisi estemporanei, ma l'attribuii al sentimento generale e non ad un dettaglio specifico. É la cecità del bene che rende ogni malizia pudica.
«Ehi, sei bellissima stasera.» Mi lusingò Ally, mentre Dinah si limitò a baciarmi la guancia.
«Anche voi.» Dichiarai, poi successe un'anomalia mai avvenuta nel nostro rapporto: calò il silenzio.
E allora capii che qualcosa non andava davvero. «Che c'è?» Feci spola tra l'una e l'altra, notando gli stessi sguardi cupi ma nessuna chiarezza.
«Senti, Mila,» iniziò con un tono basso Dinah, voltandosi verso di me ma senza guardarmi, «non so come tu possa prendere questa serata, ma voglio tu sappia che niente viene programmato nella vita, succede e basta.» Non la pensavo così, ma non mi sembrava il momento di limare il senso del discorso. «E quando é successo, é difficile tornare a quando non si era consapevoli...»
«Dinah, non credo di capire una parola.» Ammisi nervosamente. Solitamente i giri di parole significavano grossi guai in vista.
Dinah scagliò lo sguardo dietro le mie spalle e un sospiro greve la sollevò o la appesantì, non seppi dirlo sul momento. «Si ecco, ti volevo dire questo.»
Mi girai adagia come quando ci si aspetta il peggio e si sa di aver ragione. La prima impressione non fu rivelatrice, ma il mio lavoro era unire i punti e il disegno che ne venne fuori assomigliava ad un disastro. No, non é vero, pensai, ma tutto ciò che mi pareva surreale aveva assunto le sembianze del concreto in poco tempo, perciò non mi sorprese ma mi lasciò senza parole.
Normani baciò Dinah e strinse la mano ad Ally, dopodiché si voltò verso di me come qualcuno a cui era stato fatto un lungo discorso prima di un ciao.
«Ciao, Camila.» Abbozzò un sorriso plastico, restia anche a rendermi la mano. Aveva paura la mordessi o l'orgoglio vinceva la scioltezza?
«Normani...» Scambiai un gesto cordiale, solo perché il suo braccio era già a metà.
Dovevo metabolizzare la notizia, ma non avevo tempo di farlo. Dinah aveva scelto un ristorante vista mare dove la statua della libertà non personificava la mia prigionia. Perlomeno non era venuta accompagnata, ma questo non mi dissuadeva dal pensiero che ogni evento, personale o vicino, aveva il retrogusto di un tormento. Per fortuna non credevo al destino, altrimenti avrei già tirato giù il cielo.
Ci sedemmo ed ordinammo. Ally sembrava a suo agio ed era l'unico anello a tenere insieme la catena. Io ero rintanata in un silenzio scioccato più che caparbio e da lì non mi smuovevo per timore di svelarmi incattivita più del previsto.
Normani stava parlando di un caso che seguiva, probabilmente per intavolare un argomento a cui tutte potessimo partecipare. Ammetto, purtroppo, che si sforzò per trainarmi nella conversazione, ma quando gli sguardi non bastarono usò il lazo delle parole: «Tu che ne pensi Camila?»
«Mh?» Mi ero persa quasi metà della conversazione, ma feci in modo di non darlo a capire. «Beh, penso che ogni processo dovrebbe essere equo, ma che chi ha sbagliato debba pagare, a prescindere da quanto ti paghi. Mi focalizzerei su questo.» Passai in rassegna i loro volti per intuire quanto lontana ero andata dal punto focale. Sembrava molto lontano.
Dinah venne in mio soccorso, sfruttando il momento di attenzione per dirmi: «Quest'estate andremo tutte insieme in California. Perché non vieni anche tu, Mila?»
Era quel "tutte insieme" che mi interdiceva. Balbettai frasi inintelligibili, non sapendo come chiedere quello che mi premeva senza apparire inadeguata.
«Scusate, devo andare un attimo al... al bagno.» Balzai in piedi troppi rapidamente per non aver qualcosa da nascondere, così non mi diedi pena di cadenzare il passo nemmeno dopo.
Mi mancava l'aria, mi mancava anche altro. Aprii la porta del bagno con l'irruenza di chi cerca un posto appartato per essere sé stesso. Insegnai ai miei polmoni a respirare, boccata dopo boccata. Non credo fosse il cedimento di un attimo, ma più attimi messi insieme in cui avevo giocato troppo spesso alla partita del non essere sempre la stessa. E mi spezzavo mentre tornavo ad essere me e solo me.
L'uscio del bagno si schiuse lentamente. Normani si materializzò con un sorriso già affabile. Ricambiai per automatismo. Sgusciò cauta all'interno della stanza e scelse un silenzio rispettoso mentre mi osservava ricompormi.
«So di Chicago.» Confessò, permettendomi di non rimpicciolire il respiro di fronte alla verità. «Non l'ho detto a Dinah, mi sembra di capire che non lo sappia.»
Annuii una sola volta: «Grazie.»
«No, non c'è nemmeno da dirlo.» Mosse una mano nella mia direzione. Adesso che avevamo stabilito una certa confidenza, si affiancò a me. «Però... Non parlarne non ti aiuterà a sentirti meglio.»
«Aiuterà a far finta non sia successo.» Ridacchiai, ma ero seria, solo non volevo renderla troppo drammatica.
«Anche fingere non sia successo non é un buon modo per stare meglio.» Inspirò a fondo e ripresi con più veemenza: «Camila, tu non mi piaci. Non mi piaci per quello che hai fatto a Lauren tanti anni fa, ma Dinah parla molto bene di te e questo mi fa pensare ci sia tanto di te che non conosco. Quello che vedo é che nemmeno tu sapevi quanto ti avesse toccato questa situazione prima di oggi, perciò, se domani vorrai parlarne con qualcuno che sa...» Si strinse nelle spalle, rendendo chiaro il messaggio.
Annuii, sorridendo onestamente commossa. Non aveva alcun dovere verso di me; non mi conosceva e quello che conosceva non le piaceva, ma era lì e di questo dovrò dargliene sempre atto.
«In più, fra due settimane vi rivedrete al processo, giusto?» Domandò e fu come se una pala intaccasse il metallo per cui stava scavando. Aveva trovato il mio tesoro nascosto.
«Si.»
«Vedrai che andrà meglio del previsto.» Fece una pausa: «Certo, non posso dire di fare il tifo per te, però...» Non mi abbracciò, ma mi fece ridere e questo mi aiutò molto di più.
E così adesso avevo trovato un altro motivo per girare la medaglia dell'odio e trovarci la testa a tutte le croci. Se avessi dovuto scommettere, avrei detto che quella moneta non avrebbe mai smesso di volteggiare. E questo voleva dire che anche quella di Lauren, da qualche parte, continuava a vorticare e vorticare e vorticare... Fino alla mia mano.
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