Capitolo 23
Spoke a lot of words
I don't know if I spoke the truth
Got so much to lose
Got so much to prove
God, don't let me lose my mind
Trouble on the left, trouble on the right.
————
Il mio aereo sarebbe partito in tre giorni, il che fu un incentivo per accettare le scuse di mia madre. Non volevo restare a tenerle il broncio. Sapevo che ogni grande rabbia é solo un esercito di dolore.
Dopo la chiacchierata con Lauren, non avevo più avuto contatti con lei. Erano passati solo due giorni, ma continuavo a tornare a quel momento. Era stata la prima volta che avevo capito di conoscere qualcuno che avesse patito la stessa ferita. Ma era anche la prima volta che mi vedevo aprirgliela.
In tutti quegli anni, il risentimento per Lauren aveva accecato la deposizione dei fatti. Si, anche gli eventi possono apparire diversamente se raccontati da una ferita aperta. Io mi ero sempre detta che combattere una scomoda verità con una bugia crudele rendesse evidenti i ruoli. Ma mi sbagliavo. Ogni verità colpisce forte quanto una bugia, se raccontata nel modo erroneo. E soprattutto, non importa se credi di batterti lealmente, comunque qualcuno soffrirà e nessuna sofferenza é leale.
Sofia mi distrasse da me stessa, in quei giorni, trascinandomi in un gioco o l'altro, ma per quanto mi impegnassi il mio era un dispendio di energie futile. Mia madre era sempre appollaiata vicino a noi, un po' per contrastare la sua tristezza ma un po' anche per analizzare la mia. In realtà non ero propriamente abbattuta, mi sentivo più che altro assente, dispersa in un ricordo che ora era più un dubbio.
Alla sera, dopo aver messo Sofia a letto e aver liquidato mio padre, Sinu venne a sedersi accanto a me sulla veranda. Condividevamo la transitori complicità di chi si é urlato contro per dispiacersi di non aver pianto in modo normale. In quella connessione, riuscivamo a sentirci anche stando in silenzio, dunque sapevo che lei sapesse... o perlomeno immaginasse. Certo, nemmeno la più fervida fantasia sarebbe riuscita a disegnare uno schizzo così contorto, ma percepiva cosa provavo e questo valeva più dell'azzeccare un pensiero.
«Sei pronta per tornare a New York?» Domandò teneramente mia mamma, con un velato imbarazzo per come l'aveva chiesto l'ultima volta.
«Si, é tutto pronto.» Annuii, sorseggiando un po' di tè. «Mi aspetta un processo importante, quando tornerò. Almeno, una prima parte, ma comunque...» Feci spallucce, abbozzando un sorriso.
«Sei nervosa?» Mi rimirò affettuosamente.
«No,» scossi la testa, cercando di indovinare i miei turbamenti. «Sono contenta.» Che non voleva dire agguerrita, ed era già di per sé una novità.
Mia madre schiuse una risatina, non di tanto stupita per la mia risposta controcorrente quanto per la serenità con cui la diedi. Non era proprio "contenti" che si doveva essere quando si decideva la vita di una persona.
«Non sembri molto contenta, però.» Incoccò un'occhiata furtiva nella mia direzione.
«Che vuoi dire?» Mi accigliai.
«Voglio dire, che so quando una delle mie figlie non é felice.»
«Mamma, non ricominc...»
«No. Non intendevo quello. Volevo soltanto dire che avverto la tua inquietudine.» Non era neppure una domanda. Una madre non ha bisogno di chiederti cosa già sente.
Sospirai sonoramente. Forse da una parte mi sentii sollevata a poter ammettere a qualcuno di essere soprappensiero. Forse aspettava solamente mi venisse imputato per poter confessare.
«É vero, sono dubbiosa.» Ecco fatto. Mi ero uccisa e costituita. Ero stata vittima e assassina di me stessa.
Sinu non investigò oltre. Sapeva di dovermi lasciar articolare da sola i pensieri senza tirarli dal filo sbagliato.
«É che, per tanto pensi una cosa e poi...» Soffiai nella vestigia della notte, «poi non sai più se sia vera o no.»
«C'è sempre tempo per cambiare idea. Cambiare idea non é una vergogna.» Disse placidamente, ma come glielo spiegavo?
«No, certo, lo so.» Bagnai le labbra per trovare il gusto di parole nuove. «Intendo dire che, questa cosa che ho pensato per tanto tempo, mi ha reso una percezione chiara di chi sono e di come vanno le cose.»
«Questo é sbagliato.» Giudicò senza nemmeno ascoltare oltre, attirando la mia attenzione. «Non si deve mai permettere che un unico pensiero ci renda adulti. Si rischia di vedere tutto il mondo con un unico occhio.»
«A me forse quell'occhio bastava.»
«Camila, ma che dici? Combatti per la giustizia di tutti tranne la tua?» Mi rimirò scioccata.
«Quando combatto per la mia, non sono.. giusta, per così dire.» Siccome il suo cipiglio non era diminuito, trovai altri compromessi. «Insomma, non sono una brava persona, quando si tratta di farmi giustizia.»
«Beh, ma tutti facciamo cose di cui non andiamo fieri, l'importante é non venire meno a se stessi per un errore.» Mi prese le mani nelle sue, placando il mio subbuglio con un sorriso. «Chi sei non ti può essere tolto da una verità, altrimenti ti ingannavi già da prima.» Si strinse nelle spalle, riassumendo con semplicità un grande tormento. «Se provi il senso di un'altra verità, dovresti concedere a te stessa il lusso di accettarla. Non tutti possono vivere le loro verità, ma quando si é ancora in tempo non si dovrebbe scegliere di adeguarsi a cosa si conosce solo per paura di essersi sbagliati. Capisci cosa intendo?»
Si, capivo perfettamente cosa intendeva, lo capivo con tutto il cuore che avevo segregato.
Le diedi un bacio sulla fronte e mi alzai: «Mi sa che devo andare.»
«A New York?!»
«No.» Risi, carezzandole una spalla: «Più vicino.»
C'era ancora uno spicchio di sole quando uscii di casa. Non ero in vena di grandi gesti e non sarebbero stati nemmeno spontanei. Però mia madre mi aveva aiutato ad accogliere ciò che volevo, senza respingerlo per ottusa coerenza. Non ero sicura cosa andassi cercando, ma speravo mi trovasse preparata. Io continuavo ad andargli incontro.
Avevo ripensato a quello che mi aveva chiesto Lauren, e mi ero resa conto di aver risposto troppo velocemente per pensare a cosa volessi. Avevo preferito negarmi qualcosa piuttosto di morirne, non perché temessi la morte ma perché oltre il suo buio non c'era luce, c'era altro buio ed era il mio.
Un caffè, un caffè non avrebbe cambiato la vita di nessuna delle due. In più, avevamo già assistito a più giravolte della stessa. Camminavo spedita verso casa della corvina, ed ogni passo era una guerra per non tornare indietro. Non so cosa volessi da lei. Sicuramente non pensavo al contrario dell'odio perché sarebbe stata una catastrofe peggiore della prima, ma non le avevo mai concesso di riscattare il suo nome, non avevo mai creduto potesse essere qualcosa di diverso da quello che ricordavo. Almeno questo glielo dovevo, il beneficio del dubbio. Probabilmente sarebbe stato meglio anche per me, avere un'immagine più morbida di lei; non é rendendo i tuoi nemici più cattivi che trovi la pace.
Ero vicina alla sua casa, ma invece di suonare passai dal retro. Fu un'azione istintiva, come se l'avessi compiuta da sempre piuttosto che una sola volta, ma ogni obiettivo ci rende indomiti.
Pensai di bussare alla porta finestra del patio, ma nessuno venne ad aprire. Tentai di nuovo, ma con lo stesso esito. Mi guardai attorno, cercando un indizio attorno, ma trovai qualcosa di meglio.
Scorsi Lauren in lontananza. Stava parlando concitatamente con qualcuno. Mi approssimai cautamente, assottigliando le palpebre come binocoli. Il vento mi scompigliava i capelli, peggiorando la visione. Fu solo quando arrivai troppo vicina per passare inosservata che entrambe si voltarono verso di me, e il mistero si rivelò da solo.
Halsey?
Lauren si ricompose in un sospiro quasi amareggiato. A quel punto era inutile andarsene. Mi avvicinai del tutto.
«Halsey, ma che ci fai qui?»
«Ciao, Camila.» Si passò una mano nella chioma, recuperando fiato sprecato a discutere, evidentemente.
Feci spola fra loro due, tentando di capire da chi avrei estratto una parvenza di verità, ma nessuna mi guardava.
«Beh!?» Rincarai altera.
«Sono nei guai.» Ammise infine. «Sono in guai seri e ho bisogno del vostro aiuto.»
Balbettai disorientata, occhieggiando Lauren nella vana speranza aiutasse a completare il puzzle. La corvina ci fece segno di seguirla dentro casa. Ci accomodammo in salotto, in un luogo dove i nostri segreti sarebbero stati protetti.
«In che senso? Che vuol dire nei guai?» Chiesi subito.
«Camila, io non ho studiato ad Harvard.» Sbottò più esausta che arrabbiata. «Non ho una villa a Miami e un appartamento a New York. Ho dovuto fare cose di cui non vado fiera, per sopravvivere, va bene?»
«Halsey ha bisogno di una mano perché il suo business di droga non va così bene come credeva.» Intervenì finalmente Lauren, inchiodando la ragazza al suo sguardo severo.
«Droga... ma che...» Scossi la testa. É la maledizione di non saper ritagliare un'immagine per inserirla in bordi nuovi. La ricordavo come la ragazza perfetta, intonsa, e non riuscivo a capire cosa fosse successo, a parte la vita.
«Ho bisogno che voi mi aiutate a trovare la strategia migliore per costituirmi e non trascorrere il resto della vita in galera, va bene?» Fece spola fra di noi, capendo bene di elemosinare un miracolo. «Lo so che voi due vi odiate, ma fatelo per me, per favore.» Supplicò.
Io e Lauren ci scambiammo un'occhiata complice. Forse eravamo andate un po' oltre l'odio, solo che non sapevamo cosa ci fosse al di là. La corvina solo allora aggrottò le sopracciglia e scosse impercettibilmente la testa, chiedendosi perché fossi lì. Non era il momento di parlarne, soprattutto quando nella stanza non ero la prima che guardava.
«Se non c'è altro modo, ti aiuteremo. Non preoccuparti, Halsey.» Sentenziai infine.
Così, invece di trovarmi di fronte ad una rivelazione, tornai esattamente al punto d'inizio. E questo non era mai un bene, nemmeno quando lo sembrava. In quel caso non lo sembrava nemmeno.
E non lo fu. Non lo fu per niente.
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