I
A chi non si lascia cadere.
Non ho mai amato parlare di me. Ho sempre preferito affrontare i problemi degli altri, non per ottenere la riconoscenza altrui o sentirmi utile, quanto per cercare di comprendere ciò che sono e sento tramite l'esperienza di quello che mi sta intorno. Quando però la costrizione stringe il petto e non si può scappare da se stessi, non si può fare che accettare di essere preda e tentare di trasformarsi in predatore. Preferisco immergermi nella gente anziché farmi sopraffare dai miei problemi.
Alcuni – mio padre soprattutto – scambiano questo atteggiamento per un rifiuto, una scappatoia. Io vivo invece l'apprensione della gente come un peso, una responsabilità come un eremita costretto dal senso di colpa a immergersi in una società che disprezza.
L'apprensione nei miei confronti mi lascia in bocca un senso d'angoscia, di costrizione. Come se dovessi morire domani, e allora tutti corrono da me con l'ansia di salutarmi per l'ultima volta così da scappare dal rimorso futuro di non avermi nemmeno abbracciato.
Così apro il diario, l'agenda, il libro, ancora non ho ben definito quello che ho davanti: mi è stato solo detto che sarà necessario scrivere, per capire. Siedo su una sedia di vimini, cigolante e accogliente come le gambe di mio nonno, mentre davanti a me, dopo il profilo della villetta in cui soggiorno da una manciata di giorni, un campo appena lavorato inebria l'aria di odore di terra e grano appena piantato.
In grembo un quaderno di carta riciclata mi guarda, bianco, pronto ad accogliere e attaccare. La penna stilografica che ricordo di aver rubato, ma non più a chi, freme nella mia mano.
15 Giugno 2018, Giorno Uno.
Rifletto con cura su come scrivere i giorni, ma l'angoscia di quell'affollamento di numeri mi pesta la gola, così scrivo per intero. Ho sempre amato la matematica, ma lei non ha mai accettato la mia distrazione, la mia insulsa voglia di trovare sempre un'alternativa alle cose.
Mi impegno minuziosamente a scrivere in una grafia comprensibile ed elegante, ma la scrittura mancina fa inciampare le lettere e la U di Uno si sbava, macchiando il foglio che già sento osservarmi indispettito. La situazione è ridicola, è assurdo che io guardi accigliato la sbavatura, come se si stesse prendendo gioco della mia calligrafia rovesciata verso destra. Tengo a freno i nervi, quel fanatico senso di ordine che vorrebbe avere la meglio, e farmi strappare il foglio. Per calmarmi poggio la testa sulla schiena della sedia, aprendo i pugni e appoggiando le mani piene di ragadi. Non mi ricordo di appisolarmi, come un vecchio, fino a quando mi tocca destarmi quasi saltando sulla sedia per rispondere al telefono. Mi viene voglia di mandarmi a farmi fottere da solo, per l'iconica ridicolaggine involontaria che continuo a dimostrare a me stesso.
«Papà? Sei a Roma in 'sti giorni?» Mi sembra stanco, affannato. Mi massaggio le meningi, non riuscendo a trattenere uno sbuffo nel sentire il mio stesso accento, la mia stessa voce, in un uomo come lui. Dovrei esserne orgoglioso – lo sono, ma mi fa realizzare il tempo che passa, e io che invecchio.
«Sono in campagna, è urgente?» Mi esce quasi come se fosse un problema, mettermi a guidare mezz'ora per raggiungere mio figlio. Non è che non abbia voglia di vederlo, anzi. Probabilmente è ancora il risveglio brusco a trasformare le mie parole in minacce e svogliatezza.
«Dai papà, vieni su che ci facciamo 'na carbonara da Felice! Mando Eli a prendere la piccola a scuola, così siamo soli e ordiniamo la porzione grande» E ride, l'insolente. Vuole prendermi per la gola. Sorrido in una smorfia, ho ancora i pantaloncini e sono sudato, dovrei fare anche una doccia, e fare benzina perché sono a secco. La pigrizia mi fa mugugnare.
Che vecchio bavoso sto diventando.
«Posso però parcheggiare da te? Non mi va di andare fino a Re di Roma per trovare posto» ribatto, e lui con fin troppo ardore mi dà il consenso, dandomi un orario senza nemmeno chiedere conferma se alla fine andrò a pranzo con lui o meno. Non è più un adolescente, eppure ha ancora l'entusiasmo di chi non ha paura del mondo, di chi non teme le avversità della vita.
Infastidito, e geloso delle sue energie che ormai non ho più in corpo, getto il quaderno sulla sedia e chiudo la penna stilografica, macchiandomi le dita.
Sono bloccato nel traffico, in una situazione catartica di clacson, bestemmie, bambini che attraversano ma non sulle strisce, semafori rotti e vecchi che fanno spegnere il motore delle auto. Vedo la distrazione, la noia e la fretta di passanti e lavoratori alla guida. Tutti frenetici, in ansia, ma placidi. Quasi come se, in fondo, non disprezzassero questa confusione.
E questa placidità: che acidità di stomaco! Che atteggiamento insulso, che virus asintomatico!
Sento la bile in fondo alla gola, poi bruciore una volta ingoiata l'amara sensazione. Abbasso il finestrino in cerca d'aria, ma trovo solo un odore fetido di gas di scappamento e rifiuti, misto al piscio e al sudore.
È proprio vero che Roma è una città morta. Troppo grande, troppo affollata, troppo rumorosa, pericolosa, vecchia e sporca, troppo sudicia e troppo falsa, troppo poco patriottica, troppo diversificata, troppo inquinata, troppo distrutta dal consumismo, troppo poco legata alla meraviglia che ha dentro di sé, probabilmente perché la maggior parte di chi ci vive non riesce a farsi smuovere da tanto disagio.
La calma della sopportazione sembra aver inibito i loro nervi, solo qualche giovane – e rispettiva famiglia – evade, sguscia dall'inezia di una vita circondata da questa marea di gente. Chissà come fa mio figlio, guardando quella piccola creatura, a non sentire il bisogno di scappare per lei, finché si può.
Io ormai sono vecchio. Anche se non mi piscio addosso nel letto, già affronto i problemi della vita come quando si otturano i tubi dell'acqua: chiamo qualcun altro che me li metta a posto.
Dopo una buona mezz'ora di semafori ignorati e di rotonde superate senza dare la precedenza arrivo di fronte al condominio cadente dove vive mio figlio, ma anziché proseguire fino al suo garage parcheggio sotto un albero secco che prova ipocritamente a fare ombra. Non è ancora iniziata ufficialmente l'estate, ma già sento il sudore fra le scapole e la pelle assottigliarsi dietro il calcagno, pronta ad aprirsi e a bruciare per le prossime tre settimane. Tengo a freno la mia impazienza quando mi attacco al citofono: vedere il mio cognome vicino a un altro da perfetta coppia di sposati dà sempre un certo senso di inadeguatezza.
Alessandro scende, mi apre la porta con un sorriso, abbraccio, pacca sulla spalla, buffetto sul muso di Momo (il suo Shiba), soliti «Come stai?», «Tutto bene» e la classica indecisione su dove andare, perché magari Felice è lontano, non ci sono i mezzi, fa caldo e non abbiamo prenotato.
«Pa', una carbonara da qualche parte a Roma ce la fanno, non t'angustiare» tronca lui, mentre mi fa tenere il guinzaglio per liberarsi della spazzatura che tiene nell'altra mano. Vedere quei sacchi stracolmi risveglia la coscienza del puzzo nauseabondo della città, così acido che mi fa tossire, di una tosse secca, con un accenno di fischio, tipica di un vecchio insolente e schizzinoso. Mio figlio infatti sembra ignorarlo senza problemi, riesce addirittura a sbuffare notando la bella giornata, il sole caldo ma secondo lui non cocente.
Così passeggiamo, alternandoci il guinzaglio e iniziando una conversazione più scolastica che informale. Io gli chiedo come va il lavoro, lui mi risponde che c'è crisi ma che secondo lui il mercato si sta risvegliando, mi racconta della piccola che già inizierà le elementari a settembre – «Come vola il tempo, vero?», mi dice, ma mentre lui sorride malinconico in me si risveglia solo angoscia, a quell'allusione. È inevitabile per me osservarlo camminare, stare nel mondo e notare la somiglianza: come me appoggia il passo sul lato più esterno del piede, consumando sempre quella parte della suola per prima, ha le mie stesse braccia lunghe, le mani lunghe e ossute. Ma la cadenza della voce non mi appartiene, gli zigomi e il sorriso mi sono estranei, e quasi mi urta notarne le differenze. A pranzo, mentre arrotola le maniche della camicia, noto il polso sottile, opposto al mio più tozzo e sporgente.
Questa diversità, adesso ancor più di allora, dopo tanti anni mi lacera il petto, diffonde un senso di panico nel mio corpo.
«Quindi hai iniziato ieri la terapia?», e mi versa un bicchiere di vino. Mai domanda più inopportuna, e più fuori luogo, eppure giusta, quasi scontata. È pur sempre mio figlio, il figlio che amo ma anche un ostacolo, una prova, la guaina che ti blocca la marcia e non ti fa scalare quando guidi in mezzo al traffico.
«L'altro ieri» Correggo, e mento spudoratamente. Perché poi?
«Ah, ero convinto fosse il 14», non so se si beva la mia idiozia, o se si lasci scivolare la situazione come si fa con i deliri dei vecchi. Vedo che vuole aggiungere qualcosa, ma è troppo impegnato a finire l'ultimo boccone di pasta, così colgo il momento di silenzio per passare sotto il tavolo un pezzo di pancetta unta. Il naso umido di Momo mi ringrazia, concedendomi anche una leccata sul palmo sinistro e un colpo di coda sul polpaccio.
«Ti sei trovato bene? Credi possa essere la persona giusta?»
«Alessandro, sai cosa ne penso: trovare la persona giusta è come provare a ritrovare la moneta che avevi lanciato nella fontana di Trevi. Vale per le relazioni così come per i terapisti. Forse peggio» Dico, e lui mi guarda da dietro la forchetta, soffoca una risata che finalmente mi contagia.
Finalmente, con quella sua risata negli occhi, sento la sua giovinezza – o meglio la sua giovane età adulta, che per me è fresca come l'acqua, eppure non è così lontana da me – colpirmi non più per punirmi, per massacrarmi. Quel barlume di ottimismo che ancora conserva non mi guarda dall'alto al basso, ma mi tende la mano.
«Vorrà dire che dovrai rubare un sacco di soldi prima di trovare la tua, no? Mastroianni ci trovò la Ekberg, magari tu ci troverai un buon psicoanalista» E mi sorride. Mi puntella, mi provoca come quando era bambino. Mi tira la sottana con quei miei stessi occhi e io, da buon padre che si ammazzerebbe per vedere il figlio felice, non posso che abboccare, cedere – e quindi vincere – ai suoi ammiccamenti.
«Non sono convinto comunque. È già il terzo che provo e la prima cosa che hanno fatti tutti è stato dirmi cosa fare. Ordini su ordini, e già a me viene voglia di fare il contrario»
«Ecco allora da chi ho preso» E Alessandro così mi dà un altro schiaffo sul collo. Maledetto, questo giovane me insopportabile tenace, vivo. E ha perfettamente ragione, cosa che ancora di più mi mette in difficoltà.
«Vuole che scriva, capisci? E ha specificato, vuole che scriva a mano i miei pensieri. Ti rendi conto? Io, mancino, a scrivere a mano con la penna stilografica?»
«Magari ti fa bene, decifrare quello che hai scritto fra le macchie d'inchiostro e la grafia di merda» E ride, ride e fa ridere pure me. «Non lo buttare nella spazzatura prima del tempo, dagli ancora qualche seduta. Al massimo puoi sempre smettere di andarci del tutto, non hai alcun obbligo né nei suoi confronti, né di nessuno. Anche di te» E si alza dalla sedia, lasciandomi lì per una manciata di istanti a ragionare su quello che mi ha appena detto.
La semplicità con la quale ha appena analizzato il problema mi fa venire voglia di andare a chiedere di farmi rimborsare i soldi dall'ultimo strizza cervelli, e da tutti gli altri prima di lui. Solo vederlo avvicinarsi alla cassa mi risveglia dai pensieri e mi fa balzare direttamente da lui appena lo vedo aprire il portafoglio.
Una volta usciti l'afa di Roma ci sale in spalla e pesa quanto la carbonara nello stomaco. Lui gesticola nella tasche dei pantaloni, e sfila un pacchetto stralcio, o meglio quello che ne resta, di sigarette. Semivuoto, lo apre e me lo porge. Non mi stupisco, è asmatico e da giovane lo avevo quasi preso a schiaffi quando lo beccai con le sigarette nello zaino. Smise quando scoprì di essere padre. «Non fumo credo da anni, ma ho ancora degli strascichi nei vestiti, come quando trovi i soldi dopo che magari li hai lavati due o tre volte nei jeans».
«Almeno sei sicuro che siano pulite» e ne sfilo una delle due rimaste. Davvero, anch'io non fumo da anni. Non sono mai stato un fumatore, anzi mi ha sempre schifato e lo fa ora anche solo tenere in mano questa sigaretta ammaccata, con la cartina secca, come se effettivamente fosse finita in lavatrice e si fosse poi asciugata nei pantaloni. Come in tutte le cose che odio, però, ci ho sempre visto un grande fascino, e da giovane, come da adulto, una o due volte all'anno mi è capitato di fumarne una. Mai solo.
Nessuno dei due ha un accendino, ci vuole un buon quarto d'ora di camminata per trovare un'anima viva alle tre del pomeriggio che abbia un accendino. Quando una volta accese, lui tossisce in modo molto più violenti di me, ghigno dietro il fumo. Con questo caldo, pensare di mettersi a fumare è davvero provo di senso.
«Volevo farti il culo, ma ho poi pensato che ti saresti punito da solo» sputo, mentre ride e tossisce quando fatica a tirarla abbastanza da sentirne un vago sapore.
«Fa proprio schifo» replica, mi sorride triste mentre annuisco.
«Se proprio devi farti del male, almeno compratele buone» Lo provoco, ma mi esce in tono così auto accusatorio che mi guarda di sbieco con un sopracciglio alzato, anche se poi torna a guardarsi i piedi. Momo, accaldato, tira il guinzaglio indietro, stanco.
«Ma tu invece? Come stai? Dico seriamente» e prendo in braccio il cane, stanco di vederne la lingua balzare da un lato all'altro della bocca in cerca d'acqua. Devo coglierlo di sorpresa, perché tentenna e fatica a guardarmi. Sceglie ogni parola con fatica, e nel mentre arriviamo alla fermata dell'autobus, che aspetteremo per ore.
«Sono un po' preoccupato per Janine. Voglio dire, non che ci siano problemi tra di noi, è che da solito uomo che se la fa sotto vedere mia figlia crescere e vedere le nostre vite cambiare... Fa impressione in qualche modo». Allora non sono il solo. Non sono l'unico che non vede l'ora di balzare nel cambiamento ma poi, voltandosi indietro, si chiede quanto quello che sta facendo sia la cosa giusta. Sarà la sigaretta, il caldo, o entrambe le cose, ma le parole fluiscono da sole mentre appoggio Momo per terra che in risposta mugola e si sdraia sulle mie scarpe.
«È normale, è la tua prima figlia, siete giovani come l'acqua ed è normale avere paura»
«Proprio giovani come l'acqua non lo siamo, pa'. Io ho trentasei anni e Janine ne compie trentacinque ad agosto. Tu e mamma, voi eravate giovani come l'acqua quando io ero piccolo»
«Lo so, ma sono cambiati i tempi. Per voi tutto è ancora più difficile. Fa paura veder crescere perché significa dall'altro invecchiare. Conosco benissimo la sensazione» per fortuna torna a sorridere. Aspro, come se dovesse pretendere di amare il sapore del limone dopo averlo morso, quando in realtà gli si sta bruciando il palato.
«Senti pa', perché non vieni a stare un po' da noi? Abbiamo un letto in più, è una vita che non vedi le ragazze, magari quello ti farebbe bene per davvero». Le parole sono disturbate dall'arrivo dell'autobus, puzzolente e bollente sotto il sole. La sua proposta suona più come una richiesta di aiuto che un incentivo. Forse è per quello che mi mostro ottimista.
«Magari sì, devo ancora sistemare un po' di cose in campagna. Ma quella casa così grande in effetti è vuota con la mia presenza» metto un piede sull'autobus mentre lui butta la sigaretta nel tombino, ma non fa cenno di salire.
«Pensaci, farebbe piacere a me e a loro» e ricaccia le mani in tasca. Ci guardiamo per un attimo, ci studiamo e forse ci capiamo pure. con un cenno del capo annuisco, ma non così sicuro come neanche un minuto fa. L'inadeguatezza mi si piazza in gola come se mi stesse aspettando su quell'autobus.
«Ma non sali?» Sono comunque titubante, mio figlio (come me da giovane) sa essere molto imprevedibile. Tutto in questa metà della giornata lo è stato: dalla sua chiamata, al pranzo, alla sigaretta.
Lui sorride, e mi sembra di rivedermi trent'anni fa, quando ero più giovane di lui ma sorridevo ancora così.
«Preferisco camminare un po', questa carbonara non l'hanno mantecata bene, e credo di non averla digerita».
A/N:
Torno dopo anni di silenzio (che non significa inattività) per esigenza personale.
Sarà forse egoista, eppure sento il bisogno di riempire le pagine, di macchiarmi anch'io le dita ma a modo mio, con i tempi miei.
Forse solo così riuscirò a plasmare il progetto che ho in testa come voglio davvero, e al meglio delle mie possibilità. Questo è solo un primo capitolo, piuttosto breve e forse confuso.
Eppure per la prima volta tutto appare tremendamente limpido nella mia testa, tanto che questo mi fa quasi paura.
Chissà, forse è solo così che si tira fuori io meglio di se stessi.
- M.
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