Capitolo 1
-Maestà.
Il re inclinò la testa, stufato.
Nessuno riuscì a sostenere quello sguardo rovente, occhi infiammati che guardavano le ombre difronte a lui: Minosse nella sua tunica nera, Ermete unico essere vivo fra di loro e due servi morti.
-Non capisco quale sia il problema.
Tuonò. La sua voce sapeva essere così profonda da sembrare un latrato d'un cane.
Le due ombre si fecero più trasparenti, spaventate. Minosse invece non arretrò, poiché giudice e amico di Ade, non si allarmava più davanti ai suoi scatti d'ira. Ermete d'altra parte era sempre gentile e paziente con tutti, dunque per fino Ade si sentì in dovere di scusarsi con lui.
-Così ha richiesto, oh nostro re. Rispose lui con un lieve sorriso.
Ade pensò a quanto scaltro fosse Ermete, il Dio messaggero, era un fanciullo bello con un fisico muscoloso ma asciutto, invidiabile. Correva per tutto il globo, senza fermarsi mai, a recapitare messaggi e obblighi, non che la sua carica gli creasse malcontenti, anzi adorava essere al corrente di molte cose.
-Ma lui non dovrebbe sapere.
C'era un solo modo per cui suo fratello era venuto a conoscenza del suo segreto, ed era attraverso il Sole.
Ora se una divinità come Elio, impossibilitata a fermarsi, comunicava a suo fratello Zeus che il famoso Ade era innamorato, parola che faceva rabbrividire Ade stesso, la situazione toccava note scomode.
Ade amava l'intimità ed il suo regno degli Inferi, e a parer suo, non era cambiato affatto. Ma Zeus non era d'accordo. Mandare un messaggero a rivelare che lui sapeva e che voleva parlarne non era affatto piacevole.
Si drizzò sullo scranno e sospirò afflitto, avrebbe affrontato la situazione di petto, da soldato.
-Ermete digli che ci incontreremo quando il sole sarà calato, vicino al monte.
Non sarebbe mai uscito di giorno, si ripromise.
Il messaggero, suo nipote, dopo essersi congedato volò via così veloce da non poter essere visto a occhio umano
Ade si alzò dallo scranno e prese una coppa di vino vermiglio dalla tavola di marmo nero.
Bevve il liquido acido e lo gettò per terra, imbrattando il pavimento striato marrone e scheggiando il calice di vetro.
-Questo vino fa schifo. Disse infuriato.
Non capiva se la sua ira fosse dovuta a causa del fratello, del segreto rivelato o a causa dei suoi sentimenti.
Un giovane spirito, che alloggiava nel castello come domestico, raccolse il bicchiere e muto si avviò verso le cucine a riferire la lamentela.
Minosse, che aveva insistito per ascoltare il messaggio di Ermete guardava il suo signore con viso serioso, toccava distrattamente le punte dei capelli corvini.
-Parla. Gli ordinò Ade quando non poté più sopportare quel suo comportamento silente.
-Non deve di certo giustificarsi con me. Gli rispose il regnante con ilarità.
Minosse sapeva, ma non teneva conto.
Ade sospirò, forse se si fosse ripetuto abbastanza che non era succube all'amore, avrebbe davvero sciolto le sue intenzioni.
-Vuoi aggiungere qualcosa. Gli chiese con tono duro, che non rivelava la preoccupazione e l'insicurezza del re dell'oltretomba.
- I vizi smettono di essere tali, solo quando essi perdono valore per noi.
Recitò Minosse.
-Grazie. In cuor suo Ade sperò che la passione sfumasse col tempo, definendo la giovane come una delle tante. Ma non vi erano state tante donne nella vita di Ade: si potevano contare sulle dita di una mano.
-Radamanto ha fatto visita nel tartaro.
Avvisò Minosse, fratello dell'altro giudice infernale.
Gli Inferi avevano una struttura sociale molto rigida: a capo di tutti vi era Ade, seguivano tre giudici o meglio definiti governatori, un posto d'onore era riservato alle anime che soggiornavano nei Campi Elisi, erano le più illustri, ma non possedevano alcunché nell' Ade se non i ricordi di una vita passata e qualche agio. Gli ultimi erano le anime dei morti che aveva condotto una vita priva di meriti, che avevano sbagliato e peccato, questi ultimi erano la moltitudine.
Ma vi erano certe anime che non potevano neanche vivere negli Inferi libere, venivano invece spediti nel Tartaro per ordine di Ade, di Zeus od anche dei tre giudici.
- Come stanno? Chiese camminando verso il balcone, con solcate lente e pesanti.
- È una domanda retorica?
Ade sorrise, ammirava il paesaggio dannato e oscuro con orgoglio e disgusto.
Minosse lo raggiunse serio in viso, con poca fretta; entrambi avevano un senso di dovere verso il regno, ma al tempo stesso l'odiavano.
-Non hai chiuso tua moglie lì? Gli chiese soprappensiero.
Minosse poggiò una mano sul marmo nero levigato, un ghigno si andò a formare sul suo viso.
-Una donna molto dolce.
Ade rise brevemente, felice della sua sofferenza: la figura di Minosse era molto più simile a lui di quanto altro potessero presumere.
-Come mai è giunto fin il tartaro?
Finalmente Ade raggiunse il succo della questione; con fare stanco si portò una mano fra i ricci dei capelli.
- Fratture. La mano si fermò e il re degli inferi guardò il giudice con un sopracciglio inarcato.
-Nel mio regno?
- Sì signore. Ade si avviò verso una fiaccola riposta sul muro.
Ammirò la fiamma danzare e tingere le sue vesti scure.
- Dovute da cosa?
- Non saprei. Ammise Minosse con tono basso e vergognato.
Le loro conversazioni erano ricche di battute brevi e silenzi di uguale durata, col fratello Radamante invece bastava un'occhiata profonda ed un accenno del capo per comunicare, parlava assai raramente che quasi Ade si era dimenticato la sua voce.
- Non è affatto un bene.
- È convocato da me appena torna. Diglielo.
L'altro annuì e si avviò verso la sala del trono per poi lasciare il palazzo di Dite.
Ade rimase con i suoi risentimenti ad ammirare il paesaggio un'altro po' finché l'ansia per l'incontro non lo costrinse ad agire.
Verso il tramonto decise di salire nel mondo di sopra e fermarsi in Sicilia per distrarsi, deciso ad ammirare l'unica distrazione che conoscesse.
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