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Prologo

«Azura, sei pronta?» sento la voce di mio padre chiamarmi dal piano di sotto.

Chiudo la valigia e mi guardo intorno, focalizzando la mia attenzione anche su dettagli che possono sembrare inutili. Non posso dire che questa casa mi mancherà, ormai sono abituata. Va avanti così da quattro anni. Io e mio padre, a causa del suo lavoro, non restiamo mai nello stesso posto per più di due mesi.

Mi affaccio alla finestra di camera mia. Ragazze della mia età, che hanno sempre vissuto una vita stabile, passeggiano per le stradine della piccola città, godendosi il primo giorno delle vacanze estive.

Sorrido al solo pensiero che questo momento sia finalmente arrivato. Dopo continui viaggi e traslochi infiniti mio padre ed io torniamo a New York. Mi sembra un sogno. Passeremo le vacanze a casa di mia nonna paterna, nel Queens. Sono troppo felice che tutto ciò accada veramente, avevo perso le speranze ormai.

«Sì, adesso scendo!» urlo, sperando che mi abbia sentito.

D'improvviso sento una scarica di brividi irradiarsi per tutto il corpo, una sensazione ormai familiare ma che temo ogni volta. Il freddo sembra invadere la stanza e pizzicarmi la pelle. Ci metto poco a capire che il motivo è la mia mano appoggiata a una lastra di ghiaccio apparsa improvvisamente sul muro. Arretro di scatto, mentre il battito del mio cuore prende ad accelerare. Del leggero fumo azzurrino fuoriesce dalle mie mani e di conseguenza la temperatura nella stanza scende di un paio di gradi. Corro a chiudere la porta semiaperta della camera prima che possa entrare mio padre, giro subito la chiave; nel frattempo una leggera brina si deposita sui mobili.

Se la cosa non mi terrorizzasse, scherzerei e direi di essere diventata Elsa di Frozen.

Mi appoggio alla porta e, prima che la situazione mi sfugga del tutto di mano, prendo dei bei respiri profondi. Penso a tutte le cose che mi rilassano di più: i libri, il mare, l'aria aperta.

Il cuore torna al suo battito regolare, lentamente, ma ci ritorna; la temperatura nella stanza aumenta piano piano tornando quella di prima e sul pavimento rimangono solo delle piccole chiazze d'acqua, decisamente meglio di ghiaccio e brina.

Scivolo lungo la superficie, sedendomi a terra incurante che il jeans possa bagnarsi. Mi porto le ginocchia al petto e le circondo con le braccia, stando attenta a non toccare niente con le mani.

Tremo, ma non per il freddo. Ormai questi attacchi, non so bene come definirli, si fanno sempre più frequenti e fuori controllo. E ogni volta che succede ho paura, paura di non riuscire a fermarmi e di combinare un casino.

Sento dei passi provenire da fuori e farsi più vicini. Mio padre starà salendo le scale e molto probabilmente entrerà in camera mia per capire come mai non sia ancora scesa. Non posso permettergli di entrare in stanza.
Mi alzo in piedi di scatto, afferro tutto ciò che mi devo portare ed esco fuori. Come previsto, lo trovo a pochi metri dalla porta.

«Andiamo?» chiede aggiustandosi i suoi occhiali da vista, poi allunga una mano per prendere la mia valigia.

Carichiamo tutto sull'auto e, prima di salire, mi giro verso la casa. La mia ormai ex camera da letto affaccia dall'altro lato, quindi mi è impossibile vederla. Ciò però non mi impedisce di provare una scossa di brividi poco piacevoli. Spero che nessuno si chieda come mai la moquette sia bagnata a chiazze.

Salgo in macchina, allaccio la cintura e prendo il mio iPod. Il viaggio dura tre ore, circa; quindi mi metto comoda, con il sedile leggermente reclinato e la mia musica preferita nelle orecchie, addormentandomi senza accorgermene.

Mi sveglio a quasi metà tragitto. Per sicurezza, però, controllo l'orario: manca poco più di un'ora.

La mia eccitazione cresce, entusiasta di passare l'intera estate nella Grande Mela. Ho già avvisato Leila e Kevin, i miei migliori amici d'infanzia, con i quali sono rimasti in contatto e in ottimi rapporti durante tutti i miei traslochi. Ci siamo accordati di incontrarci al Cunningham Park più o meno un'ora e mezza dopo il mio arrivo. In questo modo ho il tempo di sistemare un po' la mia roba prima di passare, sicuramente, tutta la giornata fuori casa.

«Sei contenta di tornare?» mi domanda papà tenendo sempre incollati gli occhi sulla strada. Nel suo tono, però, percepisco qualcosa di strano. Mi chiedo cosa gli prenda.

«Assolutamente sì!» rispondo entusiasta. «Posso finalmente passare un'estate intera con Leila e Kev», dico prima di correggermi. «Non che le precedenti siano state brutte, ovviamente.»

Mi dispiace fargli pesare anche un po' della mia scontentezza per tutti i nostri spostamenti. So che anche lui non ne è felice, ma quella promozione era un'offerta che non poteva rifiutare. Probabilmente gli dispiace pure che durante questo periodo io non abbia avuto una figura materna a supportarmi. È vero, forse mi avrebbe dato un gran conforto, ma non posso farci niente. Mia madre non c'è più e questa cosa non può cambiare.

Provo a cambiare argomento, proponendo delle attività che potremmo svolgere nei prossimi mesi. Nonostante sia sicura che alcune salteranno perché spunterà fuori un'emergenza lavorativa, mio padre le accetta tutte.

A volte mi verrebbe voglia di sgridarlo per le milioni di volte in cui acconsente a ciò che gli chiedo, ma sono convinta che ci penserà mia nonna. Credo che questo sia anche un po' il suo modo di sdebitarsi per non poter avere una vita stabile al momento.

Quando finalmente vedo apparire i primi grattacieli all'orizzonte, sono emozionatissima. Nonostante tutto, però, devo contenermi, o finirò per fare qualcosa che non vorrei.

Arrivati a destinazione, scendo velocemente dalla macchina. Kent Street non è cambiata per niente in questi in quattro anni, tutto è esattamente come lo ricordavo.

Aiuto mio padre a portare le valigie fino all'uscio. Poiché lui non riesce a trovare la chiave giusta nel mazzo che ha in mano, suono il campanello per fare più in fretta. Subito ci viene ad aprire una donna anziana, poco più bassa di me. I capelli castani mostrano varie striature di grigio, ma nonostante ciò non sembra portare l'età che ha. A occhio esterno potrebbe apparire più giovane dato il suo comportamento.

«Nonna!» le getto le braccia al collo, felicissima di vederla dopo tanto tempo.

«Azura, cara, come sei cresciuta», mi guarda bene dalla testa alla punta dei piedi. «Figlio mio», si rivolge a mio padre «finalmente ti sei degnato di farti vivo.»

Dopo i convenevoli, la nonna ci fa entrare e ci porta verso le camere da letto. La casa è perfettamente lucida, come se venisse pulita ogni giorno anche negli angoli più nascosti. Non è molto grande, ma per una persona sola è più che abbastanza.

Poso i bagagli in quella che sarà la mia stanza per i prossimi tre mesi. Mi butto sul letto incrociando le braccia dietro la testa e guardando il soffitto.

Stabilità, stabilità per tre mesi interi. Mi sembra un sogno e non ho nessuna intenzione di svegliarmi.

Rimango in quella posizione per poco tempo, decidendo poi di alzarmi e sistemare almeno il necessario, cosicché più tardi possa scendere tranquillamente.

Inizio a cacciare i vestiti dalla valigia per appenderli nell'armadio perfettamente pulito. Nel frattempo faccio partire un po' di musica a tutto volume e comincio a canticchiare mentre infilo gli abiti sugli appendini.

Solitamente non sono una persona molto ordinata. È più probabile che butti i vestiti ammucchiandoli nell'armadio e cerchi di nascondere tutto. In questo momento, però, sono talmente felice da fare un'eccezione. Questa piccola azione conferma la nostra residenza a New York per l'intera estate.

Mentre posiziono gli indumenti non posso non notare quanto sia tirato a lucido guardaroba. La nonna deve aver assunto una ditta di pulizie per pulire così bene l'intera casa. Una persona sola si sarebbe uccisa, specialmente vista la sua età.

Dopo che l'indispensabile non è più riposto negli scatoloni, afferro uno zainetto per metterci il portafogli e un pacchetto di gomme.

Scendo le scale quasi correndo, prendo le chiavi dal mobile in legno vicino la porta e mi dirigo all'uscio.

«Io vado», grido spalancando la porta, sistemando nel contempo la roba all'interno dello zainetto.

Manca ancora mezz'ora all'appuntamento, ma sono scesa prima per guardare meglio la città.

Sono quattro anni che non vedo il Queens e voglio stare attenta a ogni singola cosa prima di arrivare al parco.

Il profumo di Lulu's bakery mi invade le narici e mi riporta alla mente vecchi ricordi d'infanzia.
Ricordo quando papà, mamma e io venivamo a fare colazione qui la domenica mattina. Cerco di visualizzare quell'immagine nella mente, ma mi sembra sfocata e in più non riesco a distinguere il numero delle figure. Due o tre? Eravamo tutti e tre o solo io e papà?

Più provo a focalizzare quel ricordo, più mi sembra confuso.
Mi fermo davanti la vetrina con la speranza che guardare il luogo possa aiutarmi. Ricordo il solito tavolo, il solito gelato con i soliti gusti, ma qualcosa non torna. È una sensazione fastidiosissima, che non ho mai provato fino a questo momento.

Mi sforzo così tanto che a un certo punto sento venirmi l'emicrania, così decido di lasciar perdere e di continuare a camminare.
Più tardi chiederò chiarimenti a mio padre.

Per arrivare al parco ci vuole poco, infatti in meno di dieci minuti sono già lì. Mi siedo all'ombra di un albero vicino al luogo del nostro incontro, con la schiena appoggiata al tronco e il laghetto delle anatre a pochi metri. Chiudo gli occhi per un paio di secondi, godendomi finalmente il ritorno che ho sempre sognato.

Inspiro a pieni polmoni. New York non sarà la città meno inquinata sulla faccia della Terra, ma poco mi importa. Se potessi mi addormenterei qui seduta stante, ma preferirei non essere derubata.

D'improvviso, però, questa sensazione di pace cessa per far spazio ad un'altra meno piacevole. Apro gli occhi e mi guardo intorno, cauta e leggermente turbata. Per un attimo mi è sembrato di essere osservata, ma non c'è nessuno vicino a me che appaia interessato alla mia presenza.

Mi alzo in piedi pulendomi velocemente il pantalone con le mani. Scruto per bene il paesaggio intorno a me, alla ricerca di un indizio che possa confermare o disdire la mia sensazione.

«Azura!» sento chiamarmi alle mie spalle e mi giro, dimenticandomi per un attimo di quel sentore quando vedo i miei due migliori amici venire verso di me.

Spazio autrice
Hey guys, come state?
Finalmente ce l'ho fatta e vi ho portato la revisione di questa storia.
Molte cose cambieranno, altre invece resteranno le stesse (spoiler-no-spoiler anche quelle spiacevoli).
Spero di riuscire a portarvi un capitolo nuovo ogni lunedì. Nel frattempo ditemi come vi sembrano queste modifiche.
A settimana prossima (si spera)💗

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