Capitolo tre
Tre anni dopo...
«Lauren!» Urlò Normani, irrompendo incurante nella camera della ragazza.
Ovviamente aveva ancora il viso infossato nel cuscino, la posizione innaturale definiva il suo corpo scolpito, mettendo in mostra il bicipite più tonico, le gambe maggiormente forti e lo scavo della spina dorsale che era dannatamente sexy.
«Sei ancora a letto?!» Gridò esterrefatta la ragazza, già angustiata per il ritardo che si prospettavano fare.
«Cinque minuti..» Biascicò la corvina, scacciando l'intrusa con un blando cenno della mano, affaticato e spossato.
«Ah... Scordatelo.» Normani tirò le coperte di netto, scoprendo del tutto la corvina, la quale bramì recriminante, precipitando con più convinzione nel cuscino, come se affondare la testa più in profondità le avrebbe permesso di essere inghiottita da esso.
«Dai, Lauren! Non puoi fare tardi agli allenamenti, la tua società ci sta già dando troppi ultimatum, lo sai, cazzo.» Le fece notare Normani, facendo deliberatamente trapelare tutta la sua apprensione che era sempre un'ottima sveglia per la corvina.
Lauren, difatti, mugugnò un'ultima caduca volta, poi rotolò sul fianco, assunse una posizione prona e «Fottiti.»
«Buongiorno anche a te.» Sorrise trionfale Normani, porgendo alla ragazza il bicchiere d'acqua che presidiava il comodino.
Lauren trangugiò gli ultimi sorsi con ingordigia, poi trovò la forza di ergersi, riservare un ultimo sguardo cagnesco a Normani, e dirigersi verso il bagno dove le sue cose erano già state ordinate sulla sedia e la vasca era pronta all'utilizzo. Normani la stava viziando troppo, ma d'altronde era per quello che la pagava.
Il suo stipendio non rispecchiava una cifra esorbitante, ma era decisamente fittizio e permetteva di sostentare entrambe. Normani la seguiva in giro per il paese, durante gli incontri, e si era trasferita nel suo nuovo appartamento a Detroit dove risiedeva la società di Lauren. Convivere con la propria migliore amica è un sogno che più o meno tutti gli adolescenti ambiscono, ma non è poi così idilliaco quando questo ruolo viene ricoperto da Lauren Jauregui.
«Chiamo il taxi!» La informò Normani, e poi udì il suono sordo della porta serrarsi.
Lauren tirò un sospiro di sollievo. Era rassicurante poter fare affidamento su qualcuno, ed era indicibilmente confortevole poter rincasare e parlare con una faccia amica, con qualcuno che oltretutto la stimasse anche, ma a volte Lauren invidiava la solitudine dei vecchi tempi e quindi godeva di quegli attimi per ristorarsi.
Schiuma che odorava di melograno, acqua calda che ammollava il corpo, i muscoli che si scioglievano delle tensioni accumulate durante notti sconsiderate o allenamenti defatiganti. Qualche anno addietro non avrebbe mai spasimato un trattamento simile, ma adesso faceva parte della sua quotidianità. Lauren adorava far migrare lo sguardo fuori dalla finestra, inerpicarsi sulle colline verdeggianti che incorniciavano lo sfondo. Le piaceva perché poteva contemplare il panorama senza ostacoli o interferenze che lo frazionassero. Nessuna sbarra a intralciare l'umana libertà fantasiosa.
«Lauren! Saranno qui fra dieci minuti, sbrigati!» Urlò dall'altra stanza Normani, seviziando la requie della corvina.
Lauren lanciò la testa all'indietro, scivolò più in basso, immergendo la testa fino al mento, e sospirò. L'acqua le tagliava le guance, solleticandole aggraziata; le orecchie erano completamente otturate sotto la superficie, così ogni respiro rimbombava come il rugghio di un leone addormentato. Lauren restò inerte a lungo ad ascoltare il suo sfiato, qualche volta fletteva il ginocchio per poi distenderlo e stuzzicare il piano crepato dell'acqua. Le piaceva il suono che produceva essa se trafitta.
«Lauren, muovi il fottuto culo!» La sollecitò cortesemente Normani, sbattendo l'uscio con poderosa forza.
Quello era il segnale che la sua pazienza si era estinta. Lauren inspirò profondamente, sciacquò velocemente il residuo di schiuma attecchito su varie porzioni di pelle, poi uscì dalla vasca, sgocciolando stillante fino al lavandino dove si arruffò i capelli con un'asciugamano e coprì il petto con l'accappatoio.
Aprì cautamente la porta, sbirciò la sua camera e, accertatasi della momentanea assenza del generale, sgattaiolò all'interno. I suoi vestiti erano sistemati sopra al letto, già metodicamente rifatto, e il borsone era stato posizionato a fianco alla porta, cosicché non lo dimenticasse come era spesso avvenuto.
Lauren squadrò l'abbigliamento prescelto per la sua corsa mattutina con integrati esercizi cardiovascolari e di resistenza. Indossò il tutto con agilità e rapidità, dato che l'unico indumento che sfoggiava durante la notte era una vecchia maglietta sdrucita.
Imbracciò il borsone, dopo aver legato i capelli in una coda di cavallo, e girò la maniglia, trovando Normani spaparanzata sul divano a fare zapping fra i canali, con un ghigno indelebile sulla faccia per la banalità di certi programmi.
«Pronta.» Comunicò Lauren, attirando l'attenzione dell'amica che si alzò di scatto, contenta finalmente di poter evadere da quelle mura e fruire della giornata mite che si prospettava.
Proprio mentre stavano aprendo la porta, squillò il telefono fisso. Normani le disse di lasciar perdere, che la chiamata sarebbe stata indirizzata alla segreteria e che avrebbero potuto ascoltarla dopo, ma Lauren indugiò, per qualche ignoto motivo, indugiò.
Restò ferma sulla soglia, incapace di muoversi, in un indecente stato d'atrofia. Solo quando la voce meccanica della segreteria richiedeva di lasciare un messaggio, voltò la testa.
«Ehm.. Ciao.. Cre-credo che, che questo sia il tuo numero.. Lauren.. ehm, è imbarazzante... Okay, preferirei parlare con te, perché mi sento immensamente idiota in questo momento. Ehm.. ok, ciao.. Ah! Se non avessi capito chi, chi io sia, ecco sono Tommy. Ok, chiamami.»
*****
Qualche mese dopo...
Camila tribolò a lungo per recuperare le pratiche, magicamente scomparse nel decorso degli anni. Si stava occupando di una causa importante, forse la più insigne da quando aveva istituito quella filiale.
Una compagnia stava citando in causa un partner che a quanto pare aveva incassato più del dichiarato, intascando delle percentuali ragguardevolmente più elevate.
Perché era di precipua importanza ottemperare in maniera integerrima a quel processo? Facile, perché la compagnia in questione era una delle più redditizie del paese, guidata da un certo Sig. Vanhussem così si firmava nello scambio epistolare che avevano intrattenuto.
Per ora nessun incontro ufficiale, ma solo perché stava trattando la questione da poco più di due settimane, e quando era richiesta la presenza di una persona fisica, il Sig. Vanhuassem spediva qualche fidato "accolito".
Ovviamente le giornate si erano prorogate, se ciò che era umanamente possibile. Camila non rincasava prima delle dieci o le undici di sera, e questo cagionava attriti fra lei e Angie che poi si risolvevano con qualche attenzione particolare come guardare un film assieme, o cucinare qualcosa prendendo ispirazione dalla propria inventiva. Bastava poco per rimarginare la ferita, e in fondo era meglio così.
A Camila non erano mai piaciute, tantomeno interessate, le cose semplici, ma forse era proprio di quelle che abbisognava.
«Terra chiama Camila, pronto? C'è nessuno?» Dinah fece capolino, guadagnando l'attenzione della cubana solo dopo qualche minuto.
«Niente corsa stamani?» Domandò la polinesiana, scaturendo subito un'espressione colpevole e mortificata da parte della cubana.
Era talmente assorta nel suo lavoro che aveva dimenticato di avvertire Dinah che non avrebbe fatto in tempo a raggiungerla quella mattina.
«Cazzo, mi dispiace.» Si scusò Camila, congiungendo le mani a preghiera per tramandare con più enfasi il suo messaggio.
«Tranquilla, domani ti faccio vedere quanta resistenza ho acquisito oggi.» La polinesiana contrasse il muscolo, mostrando il bicipite scarso, il che fece ridere Camila.
«Pranziamo insieme oggi?» Propose Dinah, ancora stagliata sulla soglia.
«Non credo che avrò tempo di pranzare.» Notificò con un sospiro la cubana, somatizzando la fatica con dei massaggi centrici sulle tempie.
«Ma quanto ti piace.» Insinuò franca la polinesiana, alludendo al caso intricato che aveva per le mani.
Camila per tutta risposta sorrise, ma non fornì alcun verdetto incriminante, poi si salutarono con la promessa di un'altra cena, ma stavolta solo loro due. Lo sguardo eloquente della polinesiana le diede ad intendere che non era gradita la presenza di Angie, non le era mai stata simpatica. Camila accettò e tornò a curvarsi sulla scrivania, digitando forsennatamente sulla tastiera del computer.
Fece una pausa solo attorno alle otto, quando il suo stomaco reclamò disperatamente del cibo. Fortunatamente aveva incartato una banana la mattina stessa, e poté mitigare il senso d'appetito.
Stava per rimettersi a lavoro, quando il suo cellulare squillò. Il numero comparve sullo schermo, apparteneva ad un cellulare, ma non era registrato in rubrica. Camila ingoiò il boccone, si pulì le mani contro la gonna e rispose.
«Camila Cabello, con chi parlo?»
«Ah, salve! Finalmente... Salve! Sono Vanhussem, avrei bisogno di un urgente favore.» Asserì schietto l'uomo, senza nemmeno preoccuparsi di eventuali convenevoli.
«Ah.. buonasera, mi dica.» La briosità dell'uomo aveva intorpidito le facoltà ridotte dall'incessante lavoro della cubana, in più c'era uno spiacevole ronzio di sottofondo che interferiva con la chiamata e menomava la voce.
«Ho urgente bisogno di quei resoconti di cui abbiamo discusso per telefono, la prego. So che è tardi, ma non posso aspettare. Non la contatterei se non fosse realmente di principale importanza.» Spiegò l'uomo, tentando di trasmetterle con quanta più enfasi possibile l'emergenza che stava fronteggiando.
Camila tentennò. Mancava una decina di minuti alle nove, avrebbe dovuto raggiungere Vanhussem chissà dove, consegnargli quei documenti che prima doveva scovare, e tornare a casa. Era tremendamente sconveniente, non solo per il tragitto spossante, ma anche per la certa litigata che avrebbe infuriato una volta tornata a casa da Angie.
«Ehm, non puoi passare a prenderli?» Tentò invano la cubana, venendo puntualmente smentita.
«Ho un incontro importante a breve, non posso proprio. La prego.» Postulò senza ritegno l'interlocutore.
«Ah.. Io.. Non so, non può mandare qualcuno a ritirarli?» Domandò Camila, ingenuamente.
«Signorina Cabello, ho degli impiegati che si occupavano delle questioni legali, ma ancora nessun maggiordomo.» Ridacchiò l'uomo, poi la comunicazione venne interrotta per un attimo.
Coprì la cornetta con la mano, ma non servì a sopraffare le urla che proveniva dall'altra parte «Ok, calmati... calmati cazzo! Adesso lo troviamo, porca miseria! Sono a telefono.. No, no quello non va lì, dannazione! Dove stai andando? È dall'altra parte, muoviti!»
Camila colse solo spezzoni del discorso, e in quella lacuna smorta sospirò svariate volte, sapendo già che avrebbe assecondato il suo spirito missionario e il suo intramontabile senso del dovere.
«Senta.» L'anticipò Camila prima di sorbire un altro monologo «Mi mandi le coordinate e vedo di arrivare.»
«Grazie infinite, le invio subito un messaggio.» Ovviamente non se lo fece ripetere due volte, e prima di attaccare la cornetta sbraitò qualcosa rivolto ai suoi dipendenti, chiedendo aiuto per condividere la posizione.
Camila si afflosciò contro la poltrona, lanci lo sguardo al soffitto «Brava stupida.» Si congratulò personalmente, e con un sospiro incoraggiante lasciò lo studio.
Fortunatamente le strade erano trafficate, sì, ma non congestionate come nelle ore di punta.
Camila guidò ad una velocità moderata, ma più spedita del suo solito. Non vedeva l'ora di tornare a casa, distendersi sul divano, sorseggiare buon vino e lasciarsi massaggiare i i piedi da Angie, che... Oh porca puttana!
Nel trambusto si era completamente dimenticata di avvisare la ragazza che avrebbe ritardato.. di nuovo. Scrisse un rapido messaggio, usando il controllo vocale per non essere costretta a rimuovere le mani dal volante, poi lo inviò e invocò l'aiuto divino.
Intanto il navigatore le comunicava che era giunta a destinazione. Camila alzò lo sguardo aspettandosi di trovare un imponente edificio industriale di fronte a se, ma invece quella non era la sede ufficiale dell'azienda, ma bensì...
«Uno stadio?» Storse il naso, confusa.
Provò a reinserire le coordinate, ma il gps le indicò la medesima posizione. Scese di macchina, e con un cipiglio interdetto che le solcava la fronte si approssimò alla costruzione di cemento dove voci concitate risuonavano stentoree, caldeggiando il proprio beniamino o stigmatizzando l'avversario.
Ma che diamine.. Ponderò la cubana, spingendo la porta da dove tutti stavano accedendo.
Venne investita da un fascio di luce e la voce entusiasta del presentatore che venne accolto con un boato echeggiante. Camila non si rese conto di dove fosse capitata e perché, in cuor suo sperava addirittura di aver sbagliato ubicazione, ma era alquanto impossibile considerato l'infallibilità del navigatore stradale.
«Ah, mi scusi.» Si appellò ad un ragazzo che passava di lì, il quale sfoggiava una maglietta con la scritta Staff «Sa dove posso trovare il signor.. Vanh, Vanhussem?» Ebbe qualche difficoltà a pronunciare il cognome correttamente, ma il suo interlocutore parve intuire.
«Il pezzo di merda è nel suo ufficio, in fondo al corridoio sulla sinistra.» La giudò com dei gesti, poi infilò le mani in tasca e se ne andò con passo cadenzato.
«Ah, bene.. Il pezzo di... Grazie.» Mormorò Camila, inspirando profondamente per placare i presentimenti negativi che le catalizzavano il pensiero.
Seguì le direttive del ragazzo, evitando di focalizzarsi troppo sull'epiteto che gli aveva avocato. Il corridoio non era troppo largo, già passarci in due non era semplice, infatti Camila si era schiacciata contro il muro più volte per permettere a qualche inserviente di superare quel tratto. Era colorato di un rosso acceso e foto di qualche faccia nota erano appese sulla parete, tappezzata di onorificenze. Perlopiù erano volti maschili, ma aveva intravisto anche qualche donna. Forse si trattava di un incontro di karatè, o MMA, insomma sport del genere.. Non ne era certa.
Camila si concentrò sulla sua strada, e quando la porta con su scritto il cognome del suo cliente comparve al suo cospetto, tirò un sospiro di sollievo. Alzò il braccio, serrando il pugno, ma prima di poter bussare l'uscio si aprì. Un uomo dalla corporatura ben piazzata, gli addominali aderenti alla maglietta a maniche corte, i capelli a spazzola che donavano lucentezza agli occhi marroni, apparve sulla soglia.
«Salve, lei...» Iniziò Camila, ma venne bruscamente interrotta.
«Senti, bambola, non è il momento, okay?» L'uomo la surclassò rapidamente, assestandole una spallata involontaria per la quale però non si scusò neanche.
«Ehm, bambolo, sono il tuo avvocato.» Annunciò la cubana, notando l'uomo sobbalzare sul posto.
Il ragazzo virò rotta, ricoprendo i pochi metri percorsi con le mani congiunte in segno di scuse «Sono desolato, mi scusi. Sa a volte capita che.. beh, ha capito.» L'attitudine prima insolente e tracotante dell'uomo era stata rimpiazzata da un atteggiamento del tutto imbarazzato.
Camila distese la tensione con un risolino che spolverò via il colore vermiglio dalle guance del ragazzo «Non si preoccupi.» Estrasse i documenti dalla borsa e li porse a Vanhussem.
«Lei mi ha salvato la vita.» Si mostrò esattamente devoto l'uomo, baciando il fascicolo come fosse oro.
In quel preciso istante lo smartphone della ragazza squillò, così fu lei a doversi scusare adesso, ma una volta visionato il nome apparso sullo schermo, rimandò con uno sbuffo la telefonata a più tardi.
L'uomo parve catturato da quel movimento irrequieto e spazientito, al che non riuscì a frenare la lingua «Le ho creato problemi?»
Inizialmente Camila rimase perplessa dalla domanda, così si corrucciò. L'uomo mosse il capo nella direzione della sua borsa dove aveva malamente depositato il telefono, e il suo volto si illuminò «Ahh, no, no. Non si preoccupi. Abbiamo gli stessi problemi di.. bambole.» Ridacchiò divertita Camila, guadagnando stima da parte dell'uomo che addirittura la invitò a restare gratuitamente ad assistere allo "spettacolo" per sdebitarsi.
«Non c'è bisogno, la ringrazio.» Ricusò educatamente Camila, la quale voleva soltanto tornarsene a casa.
Vanhussem sghignazzò, si passò una mano sul naso e poi «Mi scusi, non possiamo darci del tu? So che è informale, e che non sarebbe consono, ma mi fa strano dare del lei ad una mia coetanea.» Ammise sinceramente, con quel modo di fare genuino che sembrava appartenergli da sempre.
Camila acconsentì e tese la mano verso di lui.
«Come devo chiamarla.. Ehm, chiamarti?» Chiese la cubana, accennando un sorriso.
«Tommy andrà bene.» Strinse la mano l'uomo, allargando esponenzialmente l'incrinatura delle labbra.
Una campana riecheggiò in tutto il corridoio, quasi assordante per chi come Camila non era assuefatto a tale baccano. L'uomo le enunciò il finale dell'incontro e disse che doveva proprio scalare, ma soggiunse anche «Le consiglio di prendere un'altra uscita, se non vuole imbattersi in un uragano di insulti.» Ma ovviamente era sarcastico, perché l'unica uscita era quella da dove era entrata.
L'uomo sparì in un ufficio posto dall'altra parte del corridoio, mentre Camila venne arrestata dal trillo del telefono sul quale lampeggiava lo stesso nome di qualche minuto prima.
Roteò gli occhi al cielo e rispose alla chiamata, già sul piede di guerra «Angie, cazzo, sto lavorando!» Ringhiò a denti stretti, non potendo sbottare perché alcune persone si stava riversando nel corridoio e non era da lei erompere in pubblico.
Sgomitò per superare quel tratto, dopodiché l'angusto corridoio si ampliò e passeggiare in due corsie non era poi così arduo, anche perché la ressa si andava sfoltendo.
«Camila, se mi tradisci dimmelo subito. C'è un'altra? Hai un'altra? Dimmelo, ti prego.» Delirò la ragazza, chiaramente preoccupata per l'atteggiamento schivo che stava assumendo Camila, ma non era colpa sua se il lavoro le legava le mani.
«Ma che stupidaggini vai dicendo.» Sospirò la cubana, chinando la testa per razzolare dentro la borsa alla ricerca delle chiavi dell'auto.
«Lo sento subito se mi tradisci. Stiamo insieme da quasi sette anni, lo so se mi tradisci, eh!» La sua voce era rotta e si evinceva il groppo che le ostruiva la gola, così alla cubana accelerò il passo, udendo solo i suoi risuonare nel corridoio.
«Non è così, sto solo lavorando. Adesso vengo a casa e ne parliamo.» La rassicurò Camila, imprecando contro le chiavi che parevano essere introvabili.
Forse, e soltanto forse, se quel mazzo non fosse finito così tanto in profondità da costringerla quasi a scomparire dentro la borsa, avrebbe visto i suoi passi e avrebbe evitato di sbandare contro qualcuno, ma quando il destino decide di intervenire, non esiste combinazione che possa scompaginare i suoi piani.
Fu un urto neanche troppo violento, ma spodestò entrambi, tanto che Camila per poco non perse l'equilibrio.
«Stai attenta, cazzo!»
«Scusami tanto, io non...»
Ma comunque restava tutto un grandissimo forse, perché quel momento si avverrò.
Camila era rimasta paralizzata al suolo, mentre le grida di Angie continuavano a tramandasti attraverso la cornetta. Non che l'altra fosse messa tanto meglio, non solo per le condizioni pessime del volto sfatto e imporporato dallo sforzo, o dal respiro greve che ancora doveva regolarizzarsi, o per la tenuta sportiva che calzava o per l'asciugamano madido che stringeva al collo, era proprio il suo sguardo, perso e vitreo, che rendeva l'idea dell'incredulità.
Camila non vedeva Lauren da circa dieci anni, e Lauren non respirava da allora.
In quel silenzio rintronante, la corvina tirò un respiro prolungato, riempiendo i polmoni d'aria. E quello fu l'unico suono perfettibile a distanza di metri, chilometri, miglia... Le loro orecchie erano severamente ovattate, nessuna delle due sentiva più niente.
Silenzio.
Lauren respirò di nuovo.
Poi più niente.
————-
Spazio autrice:
Ciao a tutti!
Onestamente sono contenta di questo capitolo, sono contenta dell'idea eccetera, così come spero sia piaciuta anche a voi!
Nel prossimo ho deciso di scrivere un flashback per farvi capire meglio, quindi nel capitolo seguente parlerò soltanto delle cose fra loro anni addietro quando Lauren era ancora in prigione.
Grazie a tutti.
A presto.
Sara.
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