Capitolo cinque
Camila camminò fino al bar, ordinò due di tazze di caffè e si addentrò con maggior baldanza nella ressa che si accalcava sul marciapiede, strepitante di giungere a lavoro. Il perché di tanto entusiasmo era inesplicabile agli occhi della cubana, che se prima scalpitava per arrivare in orario a lavoro, quella mattina non aveva alcuna voglia di alzarsi dal letto. Sarebbe rimasta volentieri a crogiolarsi sotto le coperte, a poltrire con la faccia nascosta sotto il cuscino.
Entrò in ufficio, tentò di sorridere, ma la folata di cattivo umore fu inevitabile e investì tutti con vigore inaudito. Chiunque la incontrasse non diede a notare la perplessità che suscitavano le labbra aspramente ricurve della cubana, che erano un'infrazione insolita, vista la solarità che usualmente cospargeva in ufficio.
Camila si asserragliò fra le quattro mura che delimitavano il suo studio, cadde penosamente sulla sedia, scivolando appena all'indietro a causa della rotelle, posizionate al di sotto, che accusarono il colpo.
Porca puttana.
Non faceva altro che formulare quel pensiero, quell'unico insulso pensiero, ma che riassumeva bene i sentimenti contrastanti che cozzavano agguerriti dentro di lei. Rabbia, delusione, tristezza, senso di colpa, gioia, gelosia, rabbia, tristezza, mancanza, rabbia, felicità, stupore. Non riusciva a combinare un modo che le permettesse di chiudere il canale, di spegnersi.
Mai, non avrebbe mai pensato di rivedere Lauren.
Forse inizialmente Camila si era trasferita a New York per obliare il ricordo della corvina, per sfuggire a quel sentimento che non poteva compiersi per l'instabilità, l'impulsività di Lauren. L'avrebbe aspettata, anzi.. L'aveva aspettata! La condanna che le era stata imputata era di cinque anni, cinque lunghissimi anni in cui Camila aveva continuato ad andare a trovarla senza slittare di un solo giorno... Ma poi, alla fine del terzo anno, Lauren aveva colpito quella detenuta, e aveva scontato due settimane in isolamento. Niente era stato più come prima. La pena si era allungata di due anni, gli atteggiamenti di Lauren si erano smerigliati di una ruvidezza quasi insostenibile. E Camila non si era comunque stancata di lei, ma anzi aveva tentato di aiutarla anche se le si stava sbriciolando tutto davanti agli occhi, tutti i progressi che avevano faticosamente raggiunto si erano ridotti a cenere. Cenere. E poi Lauren aveva partecipato ad una rissa, e quando le avevano domandato perché avesse agito violentemente la sua risposta era stata "Mi andava." Cenere, appunto. Cenere e solo cenere.
Camila non vedeva più un futuro con una donna che non rappresentava più quella di cui si era realmente innamorata, non conservava nemmeno un'indole di quelle che avevano orgogliosamente conquistato. Quell'involucro di freddezza, ira, spregiudicatezza non vantava niente delle qualità che aveva Lauren, la sua Lauren. E questo la lacerava incommensurabilmente, perché tutto ciò che amava non era altro che un involucro di cenere. Ecco si, un involucro di cenere.
«Caffè!» Annunciò Dinah, irrompendo nell'ufficio della cubana, con un sorriso a trentadue denti e la consegna a domicilio fra le mani.
«Già provveduto.» Commentò Camila, indicando le tazze di carta appollaiate in bella vista sulla scrivania.
«Ah.» Arricciò il naso la polinesiana, evidentemente stupefatta dalla provvidenziale premura della cubana che la mattina si mobilitava sempre con letargico ritardo «Allora, lo porto agli altri...» Propose Dinah, ma un grido dell'amica la fermò.
«Lascialo qui, santo cielo.» Impetrò la cubana, protendendo le braccia con impeto disperato verso di lei, e con sguardo minaccioso la indusse a depositare le due tazze accanto alle altre ormai vuote.
«Pensavo che una fosse per me.» Contestò Dinah, sciabordando il bicchiere vuoto dove su scritto vi era il suo appellativo.
«Era per te. Era.» Sottolineò la cubana, ripetendo sommessamente e ripetutamente "era", con quell'aria vagamente stonata e allusiva che faceva trasparire un senso di misterio che Dinah colse, ma non comprese.
«Ma..» Si sedette lentamente, aguzzando la vista e rimirando le rughe ramificate sulle tempie della cubana che erano segno inequivocabile di una notte insonne «Va tutto bene?» Chiese la polinesiana, scettica, alzando appena il mento mentre attendeva una risposta esaustiva.
«Si, perché?» Scrollò le spalle la cubana, dedicandole uno sguardo furtivo, per poi schivarlo con arguzia.
«Sei... sei pallida.» Sentenziò insinuante l'amica, stampandosi sul volto un'espressione concentrata ad analizzare i rilevanti segni che solitamente incastonavano le angustie sottaciute di Camila.
«Sarà il cambio di stagione.» Ipotizzò la cubana, travisando.
«Non sei mica una mozzarella.» Annotò la polinesiana, scuotendo la testa per far decadere le illazioni infondate della cubana.
«Ah, senti, Dj... Non lo so, sono stanca. Lavoro troppo.» Si giustificò Camila, gesticolando esuberante.
Ovviamente Dinah sapeva che stava mentendo, la conosceva da troppo tempo, e troppo approfonditamente, per non sapere che lo smanacciare frenetico dell'amica era associato ad una menzogna arrabattata.
«Lavora meno.» L'assecondò la polinesiana, intenta a smascherare le bugie della cubana servendosi della schietta astuzia di cui disponeva.
«Le pratiche non si smaltiscono da sole.» Ingollò un sorso di caffè Camila, sanando le ore perdute di sonno con l'inebriante bevanda, acclamata e osannata per il risveglio dei sensi che arrecava.
«Sei il capo, puoi fare come ti pare qua dentro.» Portò le braccia conserte Dinah, facendo sporgere il labbro inferiore e incassando le spalle, volendole mostrare quanto facile fosse semplificare la questione.
«Ahhh.» Sbottò Camila, mimando un gesto eloquente che sottintese quanto la predica implicita della polinesiana la stesse assillando.
Si alzò in piedi e si avvicinò, senza uno scopo precisato, alla libreria, usandola come passabile espediente.
Non voleva raccontare a nessuno dell'incontro con Lauren, non voleva permetterle di rientrare nella sua vita. Non era pronta, non era capace. Non era abbastanza forte per sentirla nei discorsi degli altri, nelle domande frequenti che gli amici si scambiavano, nelle affermazioni ironiche e irriflessive. No, aveva chiuso quel capitolo quasi dieci anni prima, ma ora era come se improvvisamente fosse diventata daltonica, e tutti i colori assumessero sfumature vaste che però non erano fedeli alla realtà.
Non poteva. Punto. Cenere. Punto.
«Vuoi dirmi che ti succede?» Alterò il tono la polinesiana, ma tale insistenza non era sintomo di ingerenza, quanto di apprensione.
Camila era la sua migliore amica, lo era da anni ormai; insieme avevano attraversato sfide e percorso tortuose biforcazioni, sempre l'una al fianco dell'altra. Era come una sorella per lei, entrambe avevano accudito l'altra, non era possibile non nutrire preoccupazione quando la cubana agiva immotivatamente irosa.
La rabbia custodisce sempre un silenzio doloroso.
«Camila, sai che puoi dirmi tutto.» La spronò Dinah, porgendole l'altra guancia per garantirsi la fiducia vacillante della cubana.
Era sfuggevole, il che era insolito. Camila non le nascondeva mai niente, anche perché non ne aveva scopo... no? Quindi perché tanto mistero, perché tanta insofferenza?
«Lo so...» Vissero alcuni minuti di silenzio, poi perirono per spada di un sospiro «Ma non c'è davvero niente da dire.» Concluse sbrigativa la cubana, che pareva essersi impadronita della sua autorità.
Riprese posto a sedere, aprì un fascicolo causale e scartabellò fra le carte «Davvero niente.» Spirò infine, ficcando il naso quanto più abissalmente possibile per sfuggire alle occhiate intrusive di Dinah.
«Va bene.» Si rassegnò la polinesiana, annuendo tiepidamente «Va bene.»
Chiusero definitivamente l'argomento. Dinah agognava di sapere la causa dell'espressione adombrata della cubana, delle occhiaie coniate da una notte impunita, ma non avrebbe ottenuto niente forzando la mano. Camila gliene avrebbe parlato a tempo debito, forse era solo stanchezza dovuta ai litigi turbolenti con Angie, niente di cui preoccuparsi, normale amministrazione.
«Okay, vado a lavoro. Ci vediamo dopo.» Si accomiatò Dinah, provvedendo a sgombrare la scrivania della cubana dai caduti nella guerra della caffeina.
Camila attese pazientemente, e con un sorriso tirato sul volto, che l'amica uscisse. Quando l'uscio si richiuse alle sue spalle, la cubana si afflosciò contro lo schienale malleabile, alzò lo sguardo verso il soffitto intonso..
Porca puttana.
*****
«Angie! Sono a casa!» Avvisò Camila, affacciandosi all'interno dell'appartamento.
La ragazza stava apparecchiando, con un gesto eccentrico del braccio attirò l'attenzione della cubana che si avvicinò a lei baciandola come saluto.
Il suo tocco fu effimero e fugace, ma la mano rapace di Angie le cinse la schiena, imprimendo una durata più longeva del suo sapore sulla bocca appena schiusa di Camila. La cubana si sforzò di sorridere quando Angie la rimirò negli occhi, poi abbassò lo sguardo prendendo come espediente i tacchi.
«Tutto bene a lavoro?» Domandò la bionda, approssimandosi ai fornelli.
Alzò la fiamma e l'acqua contenuta nella pentola si mise a borbottare, insufflando facinorosa. Camila nel frattempo si sfilò le scarpe, riponendole poi nel ripostiglio attiguo.
«Tutto come sempre.» Replicò laconica Camila, prendendo il timone per quanto riguardava l'adornamento della tavola.
Bicchieri e piatti erano già stati predisposti, mancavano posate, tovaglioli e la brocca d'acqua. Si adoperò subito per completare il servizio.
«E tu? Hai parlato con il direttore?» Si informò Camila, impostando la conversazione sulle medesime banalità di cui discorrevano ogni sera.
Mentre era china sulla cassetta strabuzzante di posate, il suo pensiero si accecò. La loro vita, in quei sei.. sette anni, era sempre stata così? Statica, involutiva, monotona, banale...
«Si, abbiamo trovato un accordo. Adesso finalmente mi pagherà il dovuto per le ore extra.» La voce trionfale di Angie la riportò alla realtà. Chiuse di botto la cassetta, scrollò la testa e si complimentò, disturbando ordinatamente le forchette.
«Sono fiera di te.» Sorrise approssimativamente la cubana, elargendo una carezza sulla spalla dell'altra.
Angie scolò le paste, riempì le scodelle e sintonizzò la televisione sul telegiornale. Parlarono poco e nulla, un po' perché la sua attenzione era incentrata sulle notizie che transitavano sullo schermo piatto e sulla voce squittente della conduttrice dai capelli cotonati, e un po' perché il pensiero di Camila prosperava, ma dava frutti marcescenti.
Erano congetture malsane, ipotesi basate sui "se" e "ma", stratificate su architravi portanti di "forse". Non c'era via di scampo da pensieri inondanti come quelli, ma quando l'onda si rilassava, ecco che la casa costruita con tali materiali crollava.
«Mila, ti spiace se faccio una doccia? Ho davvero bisogno di rinfrescarmi.» Domandò la ragazza quando ebbero finto di cenare e pulire i piatti.
La cubana colse la palla al balzo, riflettendo sul fatto che un po' di solitudine era la medicina giusta per anestetizzare le virulenti espansioni coloniche della sua asintomatica malattia.
Udì lo scrocio dell'acqua azionarsi, la porta socchiusa esalava vapore, appannando le stanze. Camila serrò l'uscio del corridoio, impedendo alle molecole condensate di contaminare l'ambiente circostante.
Accese la tv e fece zapping fra i canali, si fermò su un programma dove era in atto una sfida di pasticceria, e sprofondò nell'imbottitura comoda del divano. Si armò di cuscino e assunse una posa mezza prona, focalizzando lo sguardo disattento sulle immagini.
Qualcuno suonò al campanello, interrompendo la requie che si era appena creata. Camila grugnì esacerbata, si alzò controvoglia e si trascinò fino alla porta, dimenticando di controllare anche lo spioncino. Pessima idea.
«Dinah? Che ci fai qui? Cos'è que... Ehi, aspetta! Cos'hai lì?» La cubana richiuse l'uscio, tanto ormai la polinesiana aveva espugnato la proprietà privata, arrogandosi il diritto di valicare l'ingresso.
«L'ho preso anche per Angie, quindi ringrazia la mia momentanea generosità.» Appuntò Dinah, estraendo tre coppette di gelato dalla busta.
«Sta facendo la doccia.» Notificò Camila, e la cosa non disturbò affatto la polinesiana che semplicemente preservò la coppetta nel freezer e porse l'altra alla cubana.
«E come mai questa inaspettata consegna a domicilio?» Si accigliò Camila sfoderando un sorriso, però.
«Perché...» Divagò con lo sguardo Dinah, scavando la palla di gelato con l'apposita paletta «Perché, com'è che hai detto? Sei stanca per il lavoro, no?» Arricciò le labbra, ovviamente lasciando desumere che non credeva nemmeno un po' a quello che le aveva propinato l'amica, ma che di qualunque problema si trattasse si stava occupando di lei.
Bivaccarono sul divano, scambiando una parola e l'altra, senza mai infittire l'argomento. Poi, come per miracolo, Camila si schiarì la voce con la solennità di chi desiderava attirare l'attenzione senza però richiederla.
«Hai ragione, è successo qualcosa.» Mormorò Camila, avvertendo il cuore mancare un battito. Se chiudeva le palpebre riviveva tutto come se avvenisse in quell'istante, ecco perché non batteva ciglio.
«Vuoi parlarne?» Dinah poggiò la coppetta sul tavolino, annuì flebilmente per manifestare il suo ascolto.
Camila interrò la paletta nel gelato e lo allineò accanto a quello di Dinah, poi prese un bel respiro e dopo qualche attimo, sibilò incomprensibilmente.
«Eh?!» Chiese la polinesiana, corrugando la fronte confusa.
«Ho rivisto Lauren!» Sentenziò risoluta Camila, trafelata per lo sforzo che dovette impiegare per proferire ad alta voce quel nome. Il suo nome.
«Merda ladra.» Imprecò sottovoce Dinah, attonita.
Camila scosse la testa, nascose il volto fra le mani e la scosse febbrilmente. Buio, buio davanti ai suoi occhi e due fari verdi che squarciavano quell'oscurità, perseguitandola instancabili.
«Ma come? Ma.. ma quando? E cosa...? Ma come è successo?» Farfugliò perplessa Dinah, scrutando l'espressione impallidita della cubana.
«È stato tutto così veloce, non lo so.. È stato un caso.» Testimoniò smarrita Camila, che ancora non si capacita di quanto infido fosse il destino.
«E che vi siete dette?» Squittì incuriosita la polinesiana, sistemandosi sul divano.
Camila lanciò uno sguardo verso la porta del corridoio dietro alla quale udiva ancora il gorgogliare dell'acqua e il canticchiare attutito di Angie.
«È andata così...»
Continua...
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