Capitolo tre
«Tre ore e mezzo di autobus per arrivare davanti ad un edificio senza porte per farci beffeggiare.» Portò le braccia conserte, rivolgendo uno sguardo truculento a Normani che non solo l'aveva obbligata ad alzarsi ad un'ora improponibile, ma aveva anche insistito per prendere la prima corsa. "Giusto per scrupolo" era stata la sua giustificazione.
«Le porte ci sono, Lauren. Solo che sono di vetro e sembrano inesistenti.» Specificò Normani, catturando il labbro inferiore fra i denti per arginare una risata scaturita dalla dabbenaggine di Lauren.
La corvina aspirò un ultimo tiro di sigaretta, prima di calpestarlo con la suola dei soliti stivaletti di pelle scamosciati. Portò le mani e in tasca e borbottò qualcosa che rassomigliò ad un "facciamo questa cazzata", ma Normani non poteva dirlo con certezza perché la voce della corvina venne soppressa dai clacson assordanti che imperversavano alle loro spalle, cercando di smaltire il traffico con i loro strombetti fastidiosi.
«Aspetta, Lauren.» La trattenne per il polso Normani.
Le rassettò il colletto della camicia bianca che sbucava da sotto il giubbotto di pelle, quello era stato l'unico appunto che Lauren aveva preso in considerazione, rifiutandosi categoricamente di indossare un abbigliamento più elegante per confarsi alle segretarie civettuole che infestavano edifici come quello con la loro parlata acuta, il sorriso esponenziale come le trovate pubblicitarie per i dentifrici, e la camminata impettita che faceva risaltare i sederi stretti nelle gonne a tubino.
Quando Normani ebbe terminato di aggiustarle gli indumenti, la lasciò libera di andare, raccomandandosi un'ultima volta riguardo le maniere che avevano concordato di usare in casi estremi e ricordandole che sarebbe stata seduta proprio lì fuori, ad aspettarla.
Lauren annuì e procedette all'interno del palazzo, tastando la porta di vetro come per accertarsi che esistesse davvero. Fece una smorfia sghemba con le labbra una volta sincerata l'effettiva presenza, ed entrò. Alla reception chiese dello studio del signore Alejandro Cabello. Pensò che la segreteria le avrebbe riso in faccia, avvisandola che non esisteva nessun ufficio al nome di quel fantomatico avvocato, ma invece le disse che poteva trovarlo al quinto piano, subito sulla sinistra.
«Ha bisogno che l'accompagni qualcuno?» Domandò cordialmente la donna con un sorriso malizioso che le fece intuire che si stava candidando lei stessa per scortarla.
Lauren sorrise salace, allettata dall'offerta, ma poi si ricordò il monito severo di Normani che le aveva vietato di accettare proposte indecenti, almeno per quella mattina. Ringraziò -si ricordò che doveva sempre ringraziare- e ricusò l'offerta, avviandosi poi velocemente verso l'ascensore ermetico che sostava alla sua destra.
Schiacciò il numero cinque, ma dovette aspettare minimo dieci minuti per arrivare a destinazione perché ad ogni piano c'era un andirivieni di persone che salivano o scendevano ai piani inferiori al suo. Quando le porte si aprirono, le diedero una visione su una hall tinteggiata rigorosamente di bianco con una scrivania tondeggiante che occupava gran parte dello spazio dove vi erano due donne munite di auricolari, che riempivano l'apparente silenzio con il battito ritmico sulla tastiera del computer.
Lauren si avvicinò lentamente, osservando i grandi quadri astratti che pendevano dal muro. Uno di questi era una semplice tela con dei tagli sopra, incorniciata con orgoglio e il nome dell'artista scritto sotto su una targhetta d'oro.
Questo fottuto quadro costerà un occhio della testa e ha solo due tagli sopra. Meditò scostante Lauren, scuotendo la testa con disappunto di fronte a tanto scialacquare inutile.
Arrivata davanti alla scrivania, nessuna delle due donne rivolse l'attenzione a Lauren, tanto erano assorte dallo schermo digitale dove facevano calcoli o scrivevano appunti, non sapeva dirlo. Già irritata dal non essere nemmeno vista, si schiarì le voce e attirò gli occhi della più giovane su di lei.
«Desidera?» Chiese questa con un sorriso smagliante e talmente tirato che provocò una smorfia incoercibile da parte di Lauren.
Secondo te, idiota? Vorrei un paio di calzini, no meglio, delle mutande. Cristo. Ponderò mentalmente Lauren, che se c'era una cosa che odiava maggiormente delle moine indefesse delle sue adulatrici, era la stupidità. E quella era decisamente una domanda stolida.
«Sono qui per vedere l'avvocato Cabello.» Articolò Lauren, non sicura di come doveva appellarsi al nome del suo benefattore. Signore, avvocato, dottore? Bah.
«Quale dei due?» Domandò la signorina, confondendo ancora di più Lauren che aveva provvisoriamente dimenticato il nome dell'uomo che le aveva recapitato la lettera.
Frugò nella tasca interna del giubbotto, ed estrasse la lettera. La porse alla donna che contrariamente a quanto aveva pensato Lauren, cioè che avrebbe volentieri ficcanasato nei suoi affari, lesse solamente il mittente senza dispiegare la carta contenuta all'interno.
«In fondo al corridoio gira a sinistra, l'ultima porta è la sua.» Mentre lo diceva compose un numero sulla tastiera del telefono e inoltrò una chiamata allo studio del suddetto avvocato, muovendo un cenno con la mano per indirizzare Lauren.
La corvina, con incidere che vantava una sicumera peculiare alla ragazza, si approssimò alla stanza. Abbassò la maniglia, ma poco prima di varcare la soglia si ricordò che Normani le aveva ingiunto di chiedere il permesso prima di entrare. Bussò ed attese una risposta. Quando udì una voce profonda provenire dall'altra parte dell'uscio ebbe il consenso ad addentrarsi nei meandri della vita noiosa di un avvocato -a suo dire- rinomato.
Era un uomo con i capelli brizzolati, gli occhi marroni e rotondi, qualche ruga che gli incavava lo sguardo e altre imperfezioni che scavavano la pelle agli angoli della bocca. Sorrise nel vedere entrare Lauren. Quello era il primo sorriso che un estraneo le rivolgeva da giorni.
Le porse la mano, al che la corvina ebbe un istinto primitivo di non stringerla. Non seppe perché, forse quel perbenismo insolito al quale non era avvezza l'aveva fatta scattare sulla difensiva e ora qualificava i gesti dell'uomo come forzati e tendenziosi. Alejandro le indicò la sedia e giunse le mani davanti a se, comprensivo.
Aveva la fissazione di valutare bene i casi sui quali lavorava, quindi sapeva gran parte della vita della corvina. Conosceva il suo vissuto, le sue vicissitudini pubbliche e familiari, e soprattutto sapeva il posto da cui veniva, le amicizie che aveva e in base a ciò si era già figurato il carattere guardingo e rude della ragazza. Niente a cui non fosse preparato.
«È un piacere fare la sua conoscenza. Io sono Alejandro, e se vorrà anche il suo avvocato.» Esordì brioso, con aria guascona che invece di stemperare l'aria assottigliò maggiormente gli occhi di Lauren come se la ostentata simpatia l'avesse insospettita ancora di più.
L'uomo si allentò la cravatta, versò un bicchiere di whiskey con due cubetti di ghiaccio e l'offrì a Lauren. La corvina lo rifiutò. Non che non volesse accettarlo, ma per quella conversazione era meglio lasciar da parte l'alcol. Allora lo bevve lui stesso, come per dimostrarle che non c'era niente da temere.
«Sei di Detroit, giusto?» Domandò retorico, ovviamente già pienamente conscio della sua provenienza.
«Forse.» Rispose in maniera neutra Lauren, non volendo sbilanciarsi più del dovuto, ma cercando anche di sottomettere i suoi compulsivi istinti che le sussurravano di adottare un comportamento più ostico.
«Lo so che sei di Detroit.» Puntualizzò, sciabordando il liquido giallognolo all'interno del bicchiere, ma rimirando Lauren dritta negli occhi con un che di sfida che per poco non fece perdere le staffe alla corvina.
«E come fa a saperlo?» Domandò la ragazza, e la risposta le venne fornita sotto forma di fascicolo.
La cartella conteneva tutti i suoi spostamenti, alcune foto che la ritraevano fuori dal locale di Sean, alcune dentro al negozio di Vincent, altre addirittura in compagnia di Lucy. Delle fotocopie del suo diploma scolastico, appunti ritagliati di giornale che testimoniavano le sue ambite vittorie e la sua memorabile sconfitta.
Chiuse di colpo il fascicolo, e lasciò perdere le buone maniere. Puntò il dito contro l'uomo, riducendo gli occhi in due fessure «Chi cazzo sei?»
«Ma te l'ho detto. Sono Alejandro, ma potrei anche...»
«Basta con le cazzate!» Ordinò perentoria Lauren, sbattendo stavolta il pugno contro la superficie di vetro, fortunatamente rigida e compatta per piegarsi sotto l'ira della corvina.
«Mi spii, mi segui, mi fotografi... Questo non è il lavoro di un avvocato.» Eccepì la corvina, senza distogliere lo sguardo fremebondo da quello pacato di Alejandro che continuava a sorseggiare whiskey come se niente fosse.
«Vedi, Lauren, quando prendo in affido dei casi disperati, devo accertarmi di non commettere errori.» Iniziò, poi prima di proseguire ingoiò l'ultima goccia nel bicchiere «Non posso permettermi di difendere persone che il Paese ritiene criminali, sapendo che lo sono davvero.» Cercò di riappropriarsi del fascicolo, ma gli venne sottratto dalle mani prima che potesse rivendicarne la proprietà.
«Faccio seguire tutti i miei clienti, o almeno quelli che non si rivolgono direttamente a me. Cerco di studiarli, di capire se sono davvero come la televisione li descrive oppure no. Una volta tirate le somme intuisco se sia il caso di prenderli in tutela o no.» Stavolta non commise l'errore di avvicinarsi per recuperare la cartella, ma l'additò soltanto «Quello dimostra che tu, per me, non sei colpevole.» Terminò convinto, mai che avesse esitato una sola volta, mai l'ombra del ripensamento sfiorò le rughe incisive del suo volto affabile.
«E perché? Perché lo fa? Cosa ci guadagna?» Chiese la corvina, consapevole che tutti agivano per torna conto personale. E lui, quell'avvocato dai modi persuasivi e il sorriso presuntuoso, non era sicuramente da meno.
«Non ci crederai, ma vincere cause disperate aumenta molto il valore del mio nome e della mia azienda. In più...» Venne bruscamente interrotto dal tonfo sordo della porta che si spalancò, precedendo l'ingresso di una donna visibilmente infervorata.
«Io così non ce la faccio più!» Gridò, marciando nella direzione di Alejandro con fare minatorio.
«Non me ne frega niente se mi gioco la carriera, non me ne frega niente se è tuo amico!» Continuò su tutte le furie, fermandosi al lato della scrivania dell'uomo, ad un passo da Lauren «Quel pezzo di merda di Christian, mi ha palpato il culo!»
Lauren si sporse sulla sedia, ispezionò il sedere della ragazza, fasciato in una gonna attillata tempestata di rose astratte.
Beh, non lo biasimo. Trasse infine, notando la prominenza notevole delle natiche della ragazza.
«Camila... È anziano.» Cercò di rabbonirla suo padre, ma la sua affermazione non ebbe l'effetto sperato.
«Appunto perciò! È anziano e per giunta sposato. E mi ha fatto delle avance... A tua figlia!» Sottolineò con enfasi, tirando in ballo la carta familiare come se la paternità dovesse in qualche modo smuovere l'animo incentrato di Alejandro su obblighi e doveri a cedere un minimo.
«È il nostro miglior cliente, e io l'ho affidato a te perché mi fido delle tue doti. Non...» Cercò di farla ragionare, ma la corvina era irremovibile.
«Lo prendi tu in custodia, io me ne sciacquo le mani.» Concluse autoritaria, assumendo una posizione eretta.
Lauren sbriciò nuovamente il prosperoso sedere della ragazza e ancora una volta assentì con la sua voce interna.
«Come vedi, sono già impegnato.» Le fece notare Alejandro, indicando Lauren che alzò rapidamente lo sguardo per non essere colta in flagrante dalla iraconda ragazza, ma non abbastanza velocemente da non essere vista dall'uomo che sorrise sotto i baffi. Si, aveva immaginato che Lauren fosse omosessuale.
«Ah.. Io, io mi.. mi dispiace.» Farfugliò Camila, avvedendosi solo adesso della presenza di un'altra persona a colloquio con suo padre.
«Non sapevo che.. che fossi impegnato.» Balbettò, e le sue guance si colorarono di vermiglio, una qualità inconsueta che fece quasi ridere Lauren, sprezzante, ma si contenne.
«Magari ne riparliamo dopo, a cena. Che dici?» Consigliò Alejandro, sistemando i gemelli d'argenti sui polsi della giacca blu.
«Va bene, intanto mi prendo un caffè. Da Christian non ci torno nemmeno se mi raddoppi lo stipendio.» Concluse, uscendo dallo studiolo a grande falcate che fecero riecheggiare il suono ritmico dei tacchi.
«Allora, dove eravamo?» Domandò l'uomo, riprendendo il filo del discorso con il solito sorriso sornione.
*****
Al termine del discorso, Lauren disse che ci avrebbe pensato. Era abbastanza sicura che Alejandro non la stava aggirando con inganni deprecabili, ma il fascicolo che aveva su di lei era una prova concreta che la destabilizzava molto. L'idea che qualcuno l'avesse seguita per.. per quanto? Non lo sopportava.
Alejandro la sollecitò a sbrigarsi, perché il tempo scorreva e loro ne avevano poco a disposizione per disporre del suo caso, prendere le misure giuste per contrattaccare.
Lauren se ne andò con la promessa di tornare con entro quarantotto ore con una risposta affermativa o negativa.
Mentre camminava nel corridoio, accanto a due grandi vetrate che affacciavano sulla città offrendone una visuale parziale sugli edifici disseminati sulla spaziosa area, notò la ragazza di prima appoggiata contro la macchinetta del caffè assieme ad un'altra, più alta, con i lineamenti più morbidi e i capelli voluminosi screziati da uno shatush.
«Christian, un eroe nazionale. Io mi sono sempre chiesta di che consistenza fosse fatto il tuo culo.» Asserì l'altra ragazza, suscitando un'espressione provata da parte dell'altra che sembrava aver perso ogni speranza contro la sua ironica sincerità.
«Ma di che cosa vuoi che sia fatto, Dinah? Di carne, no?» Rispose Camila, scolpendosi un'espressione eloquente sul volto che fece scoppiare a ridere la polinesiana, la quale però rimase scettica, convinta che sotto sotto Camila usasse delle imbottiture per evidenziare il sedere.
Lauren non ci fece caso, tirò a diritto, surclassando le due ragazze con indifferenza completa.
Quanto si lamenta questa per una toccatina. Sbuffò, roteando gli occhi al cielo, ma commise un errore. Pensava di averlo detto dentro di se, ma le parole le caddero irriflessivamente dalle labbra e anche se non produssero più di un brusio, arrivarono nitide alle orecchie di Camila che si girò di scatto.
«Come, prego?» Tuonò indignata, arrestando l'andatura svelta di Lauren che si voltò controvoglia.
«Scusa, ma chi ti crede di essere?» Domandò la cubana, avanzando un passo per accorciare la distanza con la ragazza impertinente che aveva mosso una critica nei confronti della sua intoccabile dignità.
«Fai finta di non aver sentito.» La congedò frettolosamente Lauren, la quale di beghe con le donne ne aveva già abbastanza. Ci mancava solo la figlia viziata di un avvocato a infastidirla.
«Invece ho sentito eccome!» Protestò Camila, portando le braccia conserte e figgendo la corvina con sguardo incandescente.
«Ti ho detto "fai finta". Sei un avvocato, capisci la grammatica, si?» La punzecchiò caustica Lauren, che seppur preferiva evitare discussioni inutili, cadeva sempre nella tentazione di aizzare gli animi... Così, per divertimento.
«E tu conosci la buona educazione, si?» Replicò adirata Camila, che stavolta non aveva le guance arrossate per l'imbarazzo, ma per la collera che le colorava anche la punta delle orecchie.
«Temo di averla lasciata per strada, come il tuo buon gusto del resto.» Infierì Lauren, osservando la gonna a fiori non potendo fare a meno di detestare quell'accozzamento di colori che nuocevano alla vista.
«Tu.. tu sei.. sei..» Farfugliò Camila, rovistando nella memoria per trovare un epiteto abbastanza icastico che troncasse la boria della corvina di fronte a lei.
«Una stronza. Si, me l'hanno già detto.» Inforcò gli occhiali da sole, quelli con la stanghetta pencolante perché la vite si era leggermente allentata, ma d'altronde non ne aveva un altro paio «Ci vediamo.» La lasciò a balbettare parole smozzicate, mentre le porte dell'ascensore si richiudevano e Lauren aveva già distolto l'attenzione dalla "donna" infantile che l'aveva trattenuta.
«Una testa di cazzo!» Urlò Camila, prima che le porte si serrassero del tutto, ma non fece a tempo a registrare l'espressione della sua interlocutrice.
Attraversò l'androne, evitando deliberatamente gli uomini in giacca e cravatta che flirtavano con segretarie poco serie e apprendiste spaesate. Uscì dall'edificio e subito Normani le andò incontro, intirizzita dal freddo che si insediava agilmente sotto la giacca di jeans poco consona per far fronte all'inverno, ma l'unico capo più foderato che disponesse.
«Quarantotto ore.» Sentenziò Lauren, brandendo il fascicolo come se fosse un'arma a doppio taglio.
A quanto pare quella diligente indagine nella sua vita le aveva inopinatamente fornito una via d'uscita, uno sbocco per scagionarsi, o almeno per tentare di farlo, ma era stato comunque un azzardo irriverente ciò che aveva commesso il signor Alejandro.
Certo che, tale padre tale figlia. Pensò mentalmente, sbuffando sarcastica una nuvoletta di condensa che le si originava sulle labbra a causa dell'aria tagliante.
«Quindi non era uno scherzo?» Comprovò Normani, ricevendo subito una tacita risposta da parte dell'altra che scosse la testa.
«Allora perché pensarci? Accettiamo!» Sorrise entusiasta, afferrando Lauren per le spalle come per svegliarla dal torpore che pareva averle arrugginito le sinapsi.
«Non lo so, non mi fido. E poi ho sempre fatto tutto da sola, forse c'è un altro modo... Forse...» Brancolò alla cieca Lauren, che non si acquietava all'idea di doversi affidare nelle mani di qualcun altro.
«Loro sono la tua unica possibilità. Io lo so che sei forte, Lauren, ma non devi dimostrarlo a nessuno. Hai bisogno di qualcuno con delle capacità giuridiche e mezzi legali che possano aiutarti.» Il suo sguardo si intenerì molto mentre rimirava la corvina negli occhi, sperando che la sua disperazione facesse breccia «Per favore.»
Lauren trasse un sospiro greve, lo sguardo le cadde sul fascicolo che stringeva nelle mani, assiderate dal freddo «Ci penserò.»
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro