Capitolo sessantacinque
«Non potrebbe esser stato il vento?» Domandò Lauren, perlustrando l'area marchiata sulla verniciatura ormai sgraffiata dell'auto.
«Il vento? Da quando il vento incide una machina?» Impennò il volume la cubana, smanacciando in aria per accentuare l'assurdità dell'ipotesi illogica della corvina.
«Era solo un'idea!» Scattò sulla difensiva la corvina, alzando le mani in aria e inscrivendo il suo biasimo nel cipiglio arroccato.
«Dai, Lauren, smettila.» Sbuffò seccata Camila, alzando gli occhi al cielo con aria tediata «Non c'è niente da ridere.» Sottolineò con prepotente enfasi la cubana, rimirando i graffi che effigiavano disegni astratti insensati che sfregiavano la non più intonsa fiancata.
«Lo so.» Annuì costernata la corvina.
Lasciò che il rilievo della rabbia di Lucy le scivolasse sotto i polpastrelli, poi si avvicinò, cadenzata, alla cubana. Camila notò lo sguardo contrito per la battuta infelice che aveva proferito Lauren, e la rassicurò attirandola in un istintivo abbraccio.
Non doveva essere facile nemmeno per lei. Era una situazione delicata dove ogni tassello componeva o scomponeva una realtà, dove ogni mossa, giusta o sbagliata che fosse, poteva esser facilmente accolta con veemente irascibilità.
«Non capisco perché stia facendo tutto questo.» Scosse la testa Lauren, distaccandosi dalle braccia di Camila per squadrare l'opera minacciosa che scalfiva con irrimediabile impurità la vettura.
«Perché ti vuole, ti vuole ad ogni costo.» Sibilò Camila che forse per la prima volta subì la deflagrazione di un brivido.
«Si, ma dovrebbe arrabbiarsi con me, non con te. Perché riserva questo trattamento a te?» Si corrucciò la corvina, che non aveva idea del perché la collera di Lucy si fosse tramutata in vendetta diretta verso Camila e non verso lei.
«Perché a te non storcerebbe nemmeno un capello. Non sei tu il problema, sono io quella che vi sta intralciando. È questo che lei pensa, se l'esperienza non mi inganna.» Addusse infine Camila, sospirando rumorosamente.
Ne aveva visti di casi come quelli, aveva colmato fascicoli e fascicoli per intimidazioni e stalking, perché di quello si trattava. Purtroppo, in genere, le vittime non ne uscivano vincitrici per colpa della carenza di prove, o forse per paura ritiravano improvvisamente le accuse, insomma non aveva assistito molte volte al compimento della giustizia in tal senso. E adesso, immaginando lei, seduta in tribunale, ma sul fronte opposto, si sentiva soffocata da una tremenda ansia. Non solo le probabilità di vittoria erano scarse, ma nemmeno la sua abitudine a sedurre la giuria sarebbe stata utile. Come poteva non avere ansia? Come poteva, proprio per ingannare lo stato ansioso, non dire a se stessa "non far niente, passerà tutto"?
«E allora come facciamo a fermarla, senza che a te succeda niente?» Esternò la sua precipua preoccupazione Lauren. Si salvò dal tempestoso mare dei dubbi aggrappandosi agli occhi della cubana.
«Non lo so.» Spirò Camila, incredula della risposta ondivaga che aveva appena fornito. Non le era mai successo di liquidare un cliente con un triviale "non lo so", ma quando si tratta di noi stessi le carte in gioco cambiano.
«Come...?» Lauren risultò incorreggibilmente attonita. Di solito, Camila era bravissima a sanare il dilagare delle sue ansie, mentre adesso non vi era nessuno a preservare l'integrità del suo raziocino. Non fu affatto semplice deglutire quella massiccia angoscia agglomerata nel respiro. «Troveremo un modo.» Sentenziò infine, ma il modo energico e convulso con cui scuoteva la testa faceva intuire che stesse cercando, più che altro, di convincere se stessa.
«Va bene.» Conciliò Camila, abbozzando un sorriso che subito fu persecutore delle sue lugubre supposizioni, e incursore delle indecenti prefazioni che già aveva stilato autonomamente.
«Vieni qua.» La rassicurò Camila, attirandola di nuovo al suo petto.
Lauren immerse la testa nella sua spalla, cingendole con mole la schiena, e respirando più grevemente nel folto cuoio capelluto dell'altra. Le piaceva l'odore al cocco, riusciva in qualche modo a darle l'idea di casa. I muri erano le braccia di Camila, il profumo era la calma di Lauren.
Camila, mentre cullava la corvina a se, pensò a quanto fragile un essere umano potesse diventare se emarginato dalla sua sicurezza e spinto al baratro dalla paura di perdere l'altro.
Sotto la corazza, siamo tutta carne.
Camila carezzò affettuosamente i riccioli cangianti dell'altra, indorati dall'ultimo respiro del sole che dimetteva l'impagabile presenza, lasciando spazio ad un cielo senza stelle.
Non ricordò per quanto Lauren rimase inerme addosso a lei, si rammentava soltanto quello che disse quando si distaccò.
«Andiamo a casa.»
*****
Il profilo di Camila veniva raffigurato da un riflesso aureo del mattino, dove il sole non è ancora sorto eppure cosparge la città con il suo manto appannato.
La cubana era in piedi contro i vetri dell'ufficio, quelli che offrivano una visuale limpida sul panorama frastagliato al di sotto, disposti nel corridoio.
Camila guardava solo a diritto. Non poteva voltare lo sguardo verso destra, il luogo dell'aggressione, perché qualcosa immediatamente, un brivido che le percuoteva la spina dorsale e la faceva inspirare rumorosamente, la forzava a rintanarsi nel suo ufficio privato. E non poteva nemmeno virare verso sinistra, perché rivedeva la porta chiusa di Christine e i pensieri ridondanti le affluivano nuovamente in testa. Quindi, occhi sulla città, occhi avanti.
Quella mattina, Camila aspettava solo una persona.
Non vedeva l'ora che facesse il suo ingresso in ufficio, ma anche sperava che non avvenisse mai, perché quando avrebbe sfilata al suo fianco, il suo sguardo sarebbe stato costretto a defletterai verso di lei.
La sua attesa non macerò tanto. Dinah arrivò puntuale come semp... quasi sempre.
Il passo svelto e ritmico non lasciò spazio ai dubbi, ma fu la folata di profumo alla vaniglia che confermò il pensiero della cubana.
Camila si voltò di scatto, tentò di mettere a fuoco solo la polinesiana ed elidere il contorno dietro «Dinah!» La richiamò a gran voce, forse un po' stridulamente «Ti devo parlare.» Convenne la cubana, facendole cenno di seguirla.
La polinesiana storse il naso, chiedendosi se non fosse il preludio di una filippica, o se non avesse commesso qualche errore irreparabile che le sarebbe costato il posto di lavoro. Amiche si, ma Camila gestiva anche l'azienda assieme ad Alejandro, ed avevano il dovere, anche morale, di preservare il buon nome che duramente avevano diramato.
«Se ho fatto qualcosa di sbagliato, sappi che non posso permettermi di comprare un appartamento ora.» Premise dopo essersi chiusa la porta alle spalle, e proseguì mentre si approssimava alla scrivania «Non vorrai mica lasciare la tua migliore amica in mezzo di strada? Non si fa! Non è etico! E poi, poi...»
«Stai zitta!» Sbottò la cubana, rendendosi conto soltanto dopo di aver esagerato con il tono.
«Scusa.» Concesse, alzando lo sguardo sulla polinesiana che, tacitamente, si mise a sedere di fronte a lei.
«Non si tratta del tuo lavoro, ho solo bisogno di un consiglio.» Asserì Camila, prendendo a spostare documenti da una parte all'altra per ingannare le incertezze che martellavano le sue tempie.
«Okay, sentiamo.» Normalmente Dinah avrebbe protestato per l'attitudine ambigua che aveva assunto la cubana, facendola preoccupare inutilmente, ma quel giorno colse la sfumatura estranea nei modi nervosi dell'amica, e ammutolì.
Camila prese un bel respiro, giunse la mani davanti a se e «Se tu stessi lavorando ad un caso, un caso di una persona a te cara, e questa persona avesse casualmente a che fare con minacce di stalking che attentano la sua vita, ma non potessi agire perché peggioreresti soltanto la situazione, cosa faresti?» Espose tutto con disordinata sveltezza, espirando un sospiro pesante alla fine.
Dinah corrugò la fronte, reduce di un ragionamento spiccio e un po' ripetitivo che denotava maggiormente l'ansia inspiegabile della cubana.
In tanti anni d'amicizia, se c'era una cosa che Camila non aveva mai fatto, e sottolineo mai, era proprio quella: appellarsi alle competenza della polinesiana per espletare un caso.
Fu da questo che Dinah evinse che qualcosa non andava. C'era puzza di bruciato, come soleva dire lei, bruciato vero.
Deglutì, si schiarì la voce e si agitò sulla sedia, arrancando mentalmente per assemblare un discorso che avesse senso compiuto «E, giusto per curiosità, sempre ipoteticamente parlando... Chi sarebbe questa persona?»
Camila alzò appena il mento, schiuse le labbra e poi abbassò la testa. Mentire alla sua migliore amica? Era più facile farla franca in tribunale.
«Io.» Ammise con un sussurro fievole, incapace di guardare la verità macchiare lo sguardo di Dinah.
Era quello che odiava, strappare le persone della rassicurante bugia e fenderle con l'irriguardosa verità. Era ignobile, se ne rendeva conto, trovare appoggio su qualcuno per non sostenere tutta la paura sulle proprie spalle, ma era anche umano.
Dinah si fece raccontare tutto, per filo e per segno. Più di una volta le lacrime patinarono il suo sguardo, ma poi lei tirava su col naso e le reprimeva. Camila aveva bisogno di sfogarsi, di narrare a qualcuno le sensazioni che aveva provato quella notte, perché Lauren non era pronta a sentirle e forse non lo sarebbe stata mai. Dinah le tenne le mani per tutto il tempo, irrobustendole quando un tremito si impadroniva indebitamente di lei.
«Grazie per avermelo detto. Non ti lascerò più uscire da sola.» Un risolino affiorò sulle labbra della polinesiana che scosse la testa «Non reggeva la scusa che Alejandro aveva fatto un incidente con la tua auto. Dovevo capirlo subito che qualcosa non andava.» Commiserò la sua sagacia, con quel pizzico di rabbia che fece accorrere la misericordia di Camila.
«No, no! Dinah, non è affatto colpa tua, okay? Puntiamo il dito contro i veri colpevoli, ti prego.» Supplicò quasi la cubana, che non poteva pensare di aver avvilito anche la sua migliore amica.
Aveva bisogno di qualcuno forte accanto a lei, e non poteva chiedere a Lauren di esserlo, non adesso.
«Hai ragione, scusa.» Si asciugò il naso con la manica della camicia, poi annuì fiera «Mi metto a studiare fin da stasera e vedrai che escogitiamo una soluzione.» Galvanizzò la cubana, scuotendole con esuberanza le mani.
«Chissà che cazzo le sarà preso a quella.» Riflesse la polinesiana, continuando imperterrita a scuotere il capo.
«Strade intasate, o assenza di manovalanza.» Asserì stoltamente la cubana, suscitando la perplessità di Dinah che non comprese la sua risposta.
«Niente, scusa, una cosa mia.» Sorrise bonariamente, e la polinesiana comprese che non era il caso di insistere.
Dinah le propose di andare via assieme, ma Camila disse che aveva bisogno di un attimo in solitudine. Si salutarono con un abbraccio, cosa che facevano solo di rado nelle occasioni speciali, o nelle situazioni critiche. Infondevano forza l'un all'altra, e la trasmissione di tale coraggio non è da smerciare in continuazione, sennò svilirebbe. Dinah le disse che avrebbe avvertito la guardia di entrare dentro l'edificio, e che avrebbe perlustrato personalmente il corridoio.
Camila si lasciò cadere sulla poltrona, fece una cosa che mai avrebbe pensato di fare. Svitò la bottiglia di whisky, quella nuova che aveva comprato suo padre appositamente per lei, e versò un bicchiere. Osservò il liquido ondeggiare all'interno, lambire i bordi e poi lo buttò giù tutto d'un sorso.
Si appoggiò contro lo schienale dalla poltrona e ripensò a quella che aveva detto. Strade intasate, o assenza di manovalanza.
Si perché, almeno lei pensava...
La nostra mente è come una città, intersecata di palazzi e scorci di cielo, piena di passanti che scambiano rari saluti o accenni di civile cortesia, ma poi ognuno prende la sua strada. Luci di finestre accese che a volte vanno ad intermittenza, altre volte si spengono del tutto, ma poi tornerà la notte. Imposte mai aperte, perché l'arrivo del giorno non è di loro gradimento. Altre, invece, mai chiuse perché il buio le spaventa. Terrazze decorate da vasi di fiori, altre disadorne, altre facciate invece non ne hanno proprio una. Paesaggi che si affacciano solo sulla città, sui quartieri. Altri che spaziano su colline verdeggianti. Una città.**
E poi, un giorno ti svegli, e.. Strade intasate, o assenza di manovalanza. È così che funziona.
Si versò un altro bicchiere, e lo trangugiò.
—————
Spazio autrice:
Ciao a tutti!
Vi chiedo cinque minuti del vostro tempo, per favore.
Anzitutto grazie per aver letto il capitolo e spero vi sia piaciuto. Era un po' di passaggio, forse, ma c'era bisogno di definire la situazione.
Ci tengo tantissimo a spiegarvi il discorso finale, quindi vi rubo un attimo soltanto.
* I palazzi sono le imposizioni della società che seguiamo, il cielo è la fantasia. I passanti sono i pensieri, che magari si salutano perché una paura di oggi può essere combaciante con un ricordo di ieri. Le luci sono i sentimenti, le imposte è la fiducia che abbiamo nel prossimo. Le terrazze è come ci esponiamo nella realtà: c'è chi espone tutto con loquacità e serenità, chi lo esprime ma con qualche difficoltà e chi lo tiene perennemente nascosto. I paesaggi sono le mentalità ristrette o aperte dell'uomo.
Questo intendevo dire, spero che ora sia chiaro.
In più, in questi giorni siamo graziati dal ponte scolastico 🎉 Quindi riuscirò ad aggiornare maggiormente, spero!
Alla prossima.
Sara.
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