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Capitolo sedici


Lauren aspirò, trattenne il respiro per permettere alla sostanza di agire con più mole, poi espirò. Erano anni che non si faceva una canna.

Quella mattina William stava preparando la colazione dalla sua confortevole roulotte. Il piano cottura aveva una finestrella che offriva una visuale sul di fuori, che comprendeva la roulotte di Lauren. Aveva visto uscire una bella ragazza, capelli corvini, lineamenti spigolosi, silhouette desiderabile, per non parlare del di dietro... Non aveva badato alla creanza o alla morale, un vecchio come lui non aveva molto da fare se non sbirciare nelle vite altrui, sentirsi parte di esse con reminiscenze proprie che lo riportavano ad anni goliardici che non sarebbero tornati. Aveva aperto la finestra, giusto uno spiraglio, niente di più, e aveva ascoltato l'intera conversazione fra Camila e Lauren.

Due cose gli erano saltate all'occhio, ineludibili. La prima era quella più evidente, cioè che il sussiego di Lauren nei confronti della cubana era in qualche modo diverso dall'attitudine scontrosa che praticava con tutte le altre persone che William aveva intravisto lasciare la roulotte. Non sapeva tradurre la definizione "diverso" in una spiegazione efficiente ed esaustiva, poteva solo attribuirgli quell'aggettivo. La seconda era che la ragazza aveva alimentato l'insofferenza di Lauren e si erano scambiate qualche battuta fredda che inspiegabilmente aveva fatto sorridere William.

Così, sempre da vecchio oziante, aveva tentato di capirne di più. Per placare i nervi febbricitanti di una giovane donna, non c'era cosa migliore di un po' d'erba.

Lauren era distesa sul letto dell'uomo, mentre lui era seduto accanto a lei, a debita distanza, con la schiena appoggiata contro il muro che forniva da spalliera.

«Chi era quella ragazza?» Domandò estemporaneamente, rompendo il silenzio meditabondo in cui erano sprofondati dopo due tiri.

«Chi?» Chiese la corvina, appoggiando lo spinello fra le labbra e aspirandone una boccata talmente lunga che le strinò le dita.

«Quella che è uscita stamani con la camicia sbottonata.» Fornì una descrizione dettagliata solo per disegnare un quadro completo a Lauren, ma la corvina fraintese.

Si voltò lentamente verso di lui, un sorriso salace adornava le labbra screpolate dal freddo e nello sguardo malandrino riluceva uno zampillo cagionato dalla marijuana «Non sei un po' troppo vecchio per queste cose?»

William rise tossicchiando, si batté il torace con il pugno per sciogliere il senso di pesantezza che gli opprimeva il petto, poi tossì un'ultima volta e scosse la testa «Non ho guardato, giuro.»

Lauren scoppiò a ridere, deridendolo sfacciatamente. Non ci credeva che non avesse guardato, non solo perché il desiderio era la scintilla primitiva dell'uomo, ma anche perché la sua roulotte era posizionata proprio di fronte e anche a non volerlo ci sarebbe comunque caduto l'occhio.

«Ok, forse un po'.» Alzò le mani in aria, arrendendosi al giudizio sfavorevole di Lauren che sentenziava con una grossa risata, affiochita dal fumo.

«È il mio avvocato.» Soggiunse quando l'ilarità si affievolì a radi spasmi del petto. Passò lo spinello a William, le sembrava di aver ecceduto anche abbastanza.

«Uhm.» Reclinò la testa e si corrucciò, poi quell'espressione criptica venne appianata dal tiro successivo che risucchiò le guance dell'uomo «Non è un po' giovane?» Domandò dopo qualche attimo di silenzio, guardando Lauren con la coda dell'occhio perché non voleva distogliere lo sguardo dai ghirigori del fumo che si avvitavano nell'aria statica.

«Suo padre è il mio avvocato.» Puntualizzò Lauren, muovendo l'indice in aria in modo circolare per tentare di manovrare la nebbia evanescente in disegni concentrici.

«Allora non è lei il tuo avvocato.» Precisò pignolo William, con voce impastata dal fumo.

Lauren scosse la testa in segno di diniego, al che l'uomo emise un ulteriore "uhm" e la conversazione non si protrasse.

Dopo aver aspirato un'ultima boccata, Lauren percepì i muscoli distendersi, le ansie e i nervosismi dissolversi pian piano come gocce di pioggia che scivolano ai margini del vetro e sedimentano negli angoli.

Ringraziò William "a buon rendere" gli disse uscendo, e avendo ritrovato una calma temporanea decise di sfruttarla al meglio, andando ad informarsi per la città per un nuovo lavoro.

Il primo che scovò fu un posto a chiamata come cameriera in una pizzeria, ma i giorni erano troppo distanti e la sicurezza di avere uno stipendio quantomeno mediocre a fine mese, non era garantita. Il secondo fu in un bar, dove vi era un posto vacante come barista, ma la retribuzione le bastava per comprarsi una stecca di sigarette e due bottiglie di birra, con quali soldi avrebbe rifornito la dispensa? L'ultimo non era propriamente un lavoro, si trattava di scorrazzare criminali qua e là per la città ed aiutarli in azioni illegali. Ora, se non fosse stata implicata in un processo che verteva sulla sua libertà avrebbe accettato, ma viste le circostanze fu costretta a declinare, malgrado il compenso che offrivano fosse veramente alto per i suoi standard.

Si fermò su una panchina a fumare una sigaretta, perché ormai l'effetto della marijuana era scemato, dopo tanto stress suscitato dalle negatività della situazione.

Era talmente disperata che considerò l'idea di rimettersi a spacciare; così si sostentava un tempo, quando i suoi genitori erano da poco scomparsi, per motivi diversi, lasciandola a brancolare nel buio dei suoi giorni, a scongiurare un destino che incombeva famelico su una ragazzina di appena diciotto anni. Ma no, nemmeno quello era il modo giusto. Se qualcuno avesse fatto una soffiata, il processo sarebbe stato ancora più cavilloso e gli avvocati non si sarebbero fatti scrupoli ad usare gli scheletri nell'armadio contro di lei.

Espirò forzatamente, tamburellando le dita contro il legno secco, minato di temibili schegge. Le sovvenne un pensiero... Era un suicidio, ma viste le drammatiche condizioni nel quale ristagnavano le sue possibilità, aveva altra scelta?

È una situazione temporanea, niente di definitivo. Si ripeté per plagiare il suo orgoglio ardente, suo acerrimo nemico.

Si alzò nolente dalla panchina, sospirando, tentennò ancora un secondo in più prima di disinnescare la petulante voce contraddittoria che influenzava il suo pensiero, e mosse il primo passo.

                                       *****

«Certo che... questo caffè fa proprio schifo.» Storse la labbra Camila, bevendo un sorso d'acqua per addolcire il retrogusto amaro che le impregnava la bocca.

«Rifattela con quello spilorcio di tuo padre.» Replicò Dinah ironica, ma con una punta di stizza per l'effettiva grettezza di Alejandro che sperperava il suo patrimonio in quadri ammirabili, ma non per una nuova macchinetta che erogasse caffè decente.

Camila reclinò la testa, guardandola con un rimprovero negli occhi, ma dopo qualche secondo abbozzò un sorriso per smorzarne l'austerità.

«Non so mentire.» Si difese la polinesiana, incassando le spalle.

Rimirò l'ultimo goccio di caffè che oscillava nel suo bicchierino e con una smorfia addolorata lo ingoiò, sostenendo che per quanto pessima potesse essere la qualità, rinunciare alla dose quotidiana di caffeina era masochismo.

Camila aprì un fascicolo, accavallando le gambe sotto la scrivania, mentre Dinah si afflosciò scomposta sulla sedia di fronte a lei, perdendo la concentrazione per contare le scalfitture che costellavano il soffitto scheggiato. Una volta c'era stato un terremoto, di lieve entità; l'edificio ne aveva risentito maggiormente a piani alti, come il loro, e il deprecabile fenomeno aveva arrecato danni all'intonaco.

«È avaro anche in casi di sicurezza.» Borbottò sottovoce, appuntando la lamentala in modo che risultasse causale, ma in realtà voleva che Camila sentisse e così fu, però la cubana lasciò decadere là accuse, incurante.

«Di che ti stai occupando?» Domandò Dinah.

Ora che si era annoiata ad annoverare le anomalie del sistema, doveva trovare qualcos'altro che la tenesse impegnata. Si sporse in avanti per scorgere le informazioni stampate sui documenti di fronte a Camila e lesse il nome di un uomo, che a quanto pare era sotto inchiesta per frode.

«Sono diventati tutti di braccino corto.» Rincarò, roteando gli occhi al cielo.

«Quando hai finito, io avrei da lavorare.» L'apostrofò Camila bonariamente, poi giunse le mani di fronte a se per celare le righe rivelatrici e rimirò Dinah negli occhi «E anche tu dovresti lavorare.. Così, per dire eh.» Fece un cenno con la mano, sarcasticamente.

Dinah sbuffò irritata e si alzò dalla sedia, facendo la linguaccia a Camila e al senso di responsabilità che personalizzava la cubana.

«Ah, sabato c'è una cena con i colleghi. Ti va di venire?» Si fermò sulla soglia e virò rapidamente lo sguardo verso Camila, in attesa di un verdetto.

«Ah.. Veramente dovrei lavorare su alcune cause e poi...» Temporeggiò vanamente la cubana, venendo anticipata dal mero entusiasmo di Dinah.

«Perfetto, ti metto in lista.» Aprì l'uscio e sparì dietro di esso, lasciando aleggiare nell'aria il suono ritmico dei suoi passi che si concluse dopo qualche secondo quando richiuse la porta del suo ufficio.

Camila scosse la testa e sospirò, poi tornò ad occuparsi del caso che giaceva sulla scrivania. Benjamin Speril era un caro amico di suo padre, si conoscevano dall'infanzia. Camila era al corrente della verità, cioè che la presunta frode era del tutto vera, ma aveva accettato di difendere Benjamin per fini personali. Voleva sperimentare quale sensazione si provava ad essere l'avvocato del diavolo.

Un sorriso sghembo, un po' ammonitore della sua rischiosa infantilità e un po' compiaciuto dal brivido temerario che le provocava infrangere la legge, sbocciò sulle sue labbra mentre era intenta ad evidenziare con l'uniposca le parti essenziali e scinderle da quelle che invece doveva approfondire per tentare di costruire una difesa solida che smantellasse l'accusa.

Il trillo acuto del telefono la fece sobbalzare, tanto era immersa nel suo lavoro. Sollevò la cornetta, udendo subito la voce squillante di Therese, la segreteria, dall'altro capo della linea.

«C'è qualcuno per lei, signorina Cabello.» Avvisò la donna con ineccepibile cortesia e reverenza.

«Non ho nessun appuntamento per oggi.» Si accigliò la cubana, abbrancando velocemente l'agenda per controllare che la sua memoria non la ingannasse. La pagina era spoglia.

«Un attimo..» Si udì un fruscio, tipico suono originato dal tappare repentino della cornetta. Pochi secondi dopo Therese le comunicò «È la signorina Jauregui che chiede di lei.»

Camila inspirò profondamente, preoccupandosi che Lauren le avesse riportato un oggetto che aveva sbadatamente dimenticato la sera precedente. Non poteva immaginare l'imbarazzo che avrebbe provato nello spiegare a suo padre le dinamiche dell'avvenuto, omettendo chiaramente i particolari più colpevolizzanti. E poi le dipendenti civettuole non avrebbero risparmiato pettegolezzi "Camila se la fa con una cliente", "Lo sai che la figlia del capo va a letto con un'assistita. Giuro!"... Quando, in realtà, nel suo letto aveva solo lungamente dormito.

La porta si aprì, e Lauren si rivelò dietro di essa, con un sorriso più arrogante che mai.

«Sono venuta a riscuotere la scommessa.» Ammise senza preamboli, camminando in modo sciancato come era solita fare, contenta che il suo incedere trasudasse tracotanza.

«Non potevi chiamare?» Sospirò afflitta dalla presenza della corvina che interferiva con il suo laborioso intento.

«Purtroppo no.» Dissentì Lauren, incastrando il piede dietro la gamba della sedia per tirarla a se.

«Forse non lo sai, ma c'è gente che lavora.» Disse sbruffona Camila, stampandosi un sorrisetto puerile in faccia.

«Proprio per questo sono qui.» Afferrò una miniatura della stata della libertà, che ornava la scrivania quasi spoglia di Camila, e sferzò un pizzicotto alla testa di plastica.

«Mi hai scambiato per un'agenzia di lavoro?» Chiese indignata la cubana, trovando ridicolo che Lauren si presentasse nel suo ufficio per chiederle aiuto nella ricerca di un impiego. Che se lo trovasse da sola!

«Menomale che fai l'avvocato..» Disse Lauren con tono disperato, agitando gli occhi per sottintendere la recriminazione che aveva appena mosso nei confronti della perspicacia letargica di Camila.

La cubana si inalberò, serrò la mascella e per poco non spezzò di netto la matita che stava trastullando per eludere la stizza che le arrovellava i nervi. Circumnavigò la scrivania, strappò dalle mani di Lauren la statuetta e la rimise ordinatamente al suo posto, infine rimirò la corvina con durezza, senza dire niente, aspettando che fosse lei a delucidare.

«Ho bisogno di un lavoro provvisorio.» Sospirò infastidita la corvina, chiaramente nolente a quanto stava per domandare o, meglio, per esigere «Beh, dammene uno qui.» Sentenziò frettolosamente, non disposta a prostrasi ai piedi di Camila per ottenere ciò che stava abbisognava.

La cubana inizialmente rise, credendo, o meglio sperando, che fosse una battuta di pessimo gusto, ma notando il cipiglio che solcava la fronte della corvina la sua ilarità perì.

«Stai scherzando?» Chiese altera, sbarrando gli occhi come per mostrare a Lauren quando fosse impensabile ciò che le aveva appena chiesto.

«Credimi, nemmeno io ci tengo a vedere la tua faccia tutti i giorni, ma ho bisogno di soldi... E tu mi devi un favore.» Le rammentò con una punta baldanzosa, affidandosi all'integerrima coscienza di Camila.

«Abbiamo stabilito una penitenza, non una sentenza di morte.» Puntualizzò Camila, ponendo quella sottigliezza per enfatizzare l'avversità endemica che coltivava per Lauren.

«È provvisorio.» Ringhiò a denti stretti, esasperata da tante lamentale.

Camila respirò profondamente, alzò lo sguardo verso il soffitto e restò immota per qualche secondo, rosolando Lauren nell'angoscia della vergogna che provava a doversi appellare a lei.

In fondo poteva essere una buona idea. Camila ci avrebbe guadagnato un motivo per sbeffeggiare la corvina a lungo, e tenerla impegnata con il lavoro l'avrebbe allontanata dai guai, almeno per un po'.

Ancorò il suo sguardo a quello della corvina, che ora aveva preso a tamburellare il piede contro il pavimento, innervosita dall'attesa calcolata con cui Camila la stava deliberatamente canzonando.

«Come si dice?» Domandò con tono derisorio e patetico, come una mamma si rivolge alla bambina.

«Fottiti.» Ribatté supponente.

Camila ridacchiò e scosse la testa, aggirò la scrivania e si sedette «Penso che la risposta corretta sia per favore.»

Saprei io come farti chiedere per favore... Lauren ebbe quasi un sussulto, sorprendendosi a formulare tali pensieri impudici.

Si schiarì la voce e si agitò leggermente sulla sedia, destabilizzata dalla forza del pensiero che a volte giocava brutti scherzi, portandola a generare immagini che soggiogavano la sicumera irritante di Camila, ma era solo un modo per tentare di abbattere la sua presunzione, niente di più...

«Inizi lunedì alle otto in punto, sei in prova. Abbiamo bisogno di un'inserviente.» Dichiarò Camila dopo attimi prolungati di silenzio dove, sorprendentemente, Lauren abbassò lo sguardo sulla punta delle scarpe, assorta chissà in quali pensieri.

«Bene.» Alzò di scatto il capo, rinsavendo dal torpore. Scattò in piedi e si diresse verso l'uscita, marciando a grandi falcate, evidentemente pungolata ad uscire dalla stanza.

«Ah, Lauren.» La richiamò Camila, senza dirottare lo sguardo su di lei, ma continuando a scribacchiare il foglio «A breve anche io riscuoterò la mia ricompensa» Disse con aria di sfida, giusto per stuzzicare la tolleranza infinitesimale dell'altra.

La corvina inforcò gli occhiali, un ghigno deformò inevitabilmente le sue labbra, poi sparì dietro la porta.

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