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Capitolo quattro



Non dormì tutta la notte. Rifletté sulla gentile proposta che le era stata fatta da un uomo impiccione che l'unico intento malsano che sembrava avere era sfruttare quella storia per far prosperare il nome dell'azienda. Il che, tutto sommato, non era un gran prezzo da pagare. Sì, svendersi ai giornali, alle riviste per far apparire l'agenzia non era onorevole, ma paragonato alla prigione quale dei due era più appetibile? Non c'era nemmeno da chiederlo.

Si rigirò nel letto più di una decina di volte, poi disertò il materasso consumato e mise a scaldare una tisana, mentre fumava una sigaretta appollaiata sugli scalini della roulotte. Novembre era sempre stato un mese freddo, ma le piaceva l'armonia siderale che aleggiava per le strade, sollevando una bruma cinerea che offuscava la vista e rendeva possibile scorgere solo le luci dei lampioni a distanza, schierati in file ordinate. Lauren si chiese chi girovagasse nella foschia che impediva di visualizzare all'occhio di vedere più lontano di dieci metri.

A deteriorare maggiormente la situazione vi era la cortina di fumo che soffiava direttamente Lauren, confondendola alla nebbia già persistente. La nicotina le calmava i nervi, ma soprattutto le dava l'impressione di riordinare inspiegabilmente le idee. Forse era solo un fenomeno psicologico, un pensiero che si era edificata lei stessa, ma ogni volta che aspirava una boccata di fumo si sentiva stranamente rinsavire.

Il suo flusso di pensieri venne interrotto quando il fischio della teiera le trapanò le orecchie. Odiava quell'aggeggio: piccolo, ma potente quanto lo sbuffo di un treno. Afferrò le presine scucite, fece attenzione a non bruciarsi sia con la ceramica ustionante che con la sigaretta penzolante fra le labbra. Riempì la tazza -la solita che utilizzava per il caffè veniva adoperata anche per contenere il tè- e fece un ultimo tiro di sigaretta, prima di lanciarla fuori e richiudere la porta. Una ventata fredda sfiatò all'interno della roulotte, e la fece raggelare, essendosi ora riscaldata al tepore tenue della sua "abitazione".

Si sedette al tavolino attaccato sotto la finestra, dove aveva momentaneamente dimenticato il fascicolo di Alejandro. Lo aprì, ma stavolta con uno scopo specifico e non per leggerlo alla rinfusa solo per abbozzare un pensiero sensato. Ricordava dei ritagli di giornale che la idolatravano con aggettivi ampollosi, una verbosità esagerata e degli encomi invidiabili. Giorni di gloria, giorni di felicità. E poi le capitò fra le mani l'unico che non avrebbe dovuto vedere, ma il solo che andava cecando davvero. Quello della sua disdetta, della caduta dell'impero. Quelle poche parole sprezzanti, scritte da un reporter evidentemente deluso e arrabbiato, annullavano tutte gli elogi incassati in precedenza. Poche righe definivano perfettamente la caduta di un sogno che appena sfiorato e subito volato via.

Richiuse con uno schianto la cartella, sbattendo con forza il palmo contro la carta smerigliata. Finì di bere il tè, giusto per il gusto di restare sveglia perché in realtà non aveva più voglia di berlo. Depositò la tazza nel lavello, accatastandola assieme agli altri piatti sporchi che avrebbe lavato poi... prossimamente... Si distese a letto ed impiegò un'altra ora per addormentarsi, ma poi piombò nel regno di Morfeo.

La mattina dopo, inavvertitamente, si destò con le idee chiare. I pensieri torbidi della sera precedente si erano ripuliti, ed ora era perfettamente consapevole di quello che voleva fare. Rinunciare.

Alejandro era stato cortese, stranamente gentile, ma lei non era abituata a ricevere ausili, non si conformava all'idea di fare affidamento sulle capacità altrui per svincolarsi da una situazione avversa. Avrebbe trovato un altro modo, un metodo che non implicasse di attingere all'aiuto di nessun altro.

Adesso, comunque, non aveva tempo, perché doveva presentarsi a lavoro in orario se non voleva ricevere l'ennesima predica di Vincent che le aveva ribadito che la puntualità era la madre di una buona condotta. Avrebbe informato Alejandro dopo aver staccato il turno lavorativo.

Infilò i guanti -che poi non potevano essere definiti tali perché erano tagliati sulle punta delle dita e ricoprivano interamente solo il palmo e metà falange-, il cappello beige, assieme al giubbotto di pelle ed uscì. Venne subito avvolta nel respiro gelido mattutino, che le sferzò le guance con prepotenza e le arrossì il naso.

Non ebbe nemmeno il coraggio di armarsi di una sigaretta perché le mani erano striminzite. Le serrò a pugno per tentare di disgelarle, ma finché non arrivò al negozio rimasero violacee e rallentate.

Normani stava già servendo i primi clienti, che modestamente la domenica mattina aumentavano a dismisura perché molti erano impiegati in uffici pubblici che durante quel giornale settimanale venivano chiusi. Era impressionante la quantità di persone che condividevano la passione per il giardinaggio.

Lauren si sveltì a indossare la tuta da lavoro, ancora sporca di terriccio e consunta -per non dire usurata- da un consumo costante. Legò i capelli in una coda di cavallo per evitare quantomeno che si sporcassero quando lavorava nell'orto di Vincent. La domenica mattina, oltre a rimpinguare gli scaffali, doveva anche zappare la piccola serra che il suo datore custodiva gelosamente dietro il negozio.

Stavolta prima di uscire si premurò di ammantare il collo con una sciarpa di lana che si augurava fosse abbastanza per fronteggiare l'insidioso vento che tormentava la cittadina.

Uscì, e subito venne frustata dalla mano pesante del refolo che le schiaffeggiò la guancia. Si coprì con la sciarpa fino al naso, lasciando scoperto solo gli occhi. Estrasse la paletta conficcata nel terreno dissodato e iniziò a scavare delle piccole buche dove seminare poi i diversi ortaggi che prediligeva Vincent. Solitamente erano zucchine, carote e pomodori, ma poteva variare a seconda dei gusti influenzati dall'ascendente che aveva il New York Times sulle scelte di Vincent.

Comunque lei attualmente doveva solo preoccuparsi di scavare, bagnare, scavare. Facile. Se non fosse stato per il freddo che le ghermiva le braccia, le intirizziva le spalle e le congelava il respiro anche se cautamente protetto.

«Lauren!» La voce di Normani interruppe il faticoso lavoro, al che la corvina alzò la schiena, restando con le ginocchia per terra, e fece un cenno con il capo nella sua direzione per esortarla a parlare.

«C'è qualcuno che chiede di te!» Urlò nuovamente l'amica, dibattendosi contro il sibilo del vento che inghiottiva la sua voce.

«Chi?» Chiese la corvina, ma la voce venne ovattata dalla sciarpa e Normani, non sentendo la domanda, aveva già richiuso la porta.

Lauren sbuffò, alzò gli occhi al cielo e incuneò la paletta nella terra, dirigendosi rapidamente verso l'ingresso dove erano soliti attendere i clienti che richiedevano la presenza specifica di un addetto alle vendite. Mentre si incamminava, si tolse i guanti, via anche la sciarpa, ma tenne il cappello che le coccolava le orecchie.

Lauren superò la sezione di articoli che lei stessa aveva rifornito quella mattina, poi si trovò davanti ad una scena irripetibile.

Quella ragazza impertinente, viziata della compagnia aziendale dell'avvocato che le aveva avanzato la proposta... La stessa che le aveva dato della "testa di cazzo". Sì, l'aveva sentita e non ne era affatto felice.

«Ti sei persa mentre cercavi il centro commerciale?» Esordì sarcastica Lauren, appoggiandosi contro il bancone dove Camila stava intrattenendo una conversazione vivace con Normani «Non è da queste parti.»

Camila fece una smorfia sfacciata, intenta a sminuire Lauren tanto quanto aveva fatto lei, ma senza verbalizzare il suo disappunto perché era una donna di classe, lei.

«Sono venuta per portarti questi.» Disse Camila, afferrando dei documenti dalla borsa e porgendoli a Lauren.

La corvina gli diede un'occhiata senza nemmeno preoccuparsi di toglierli dalla plastica gialla che li racchiudeva.

«Mio padre ha detto che era urgente, e sai com'è... il lavoro è lavoro.. purtroppo.» Terminò sprezzante, lanciando uno sguardo eloquente a Lauren che le tramandò tutta la sua rudezza.

«Ah, bella questa, principessa.» La schernì Lauren, arrestando l'uscita di Camila che si girò lentamente, squadrandola con aria turpe.

«Tu non sai nemmeno cosa voglia dire lavorare. Questo. Questo è lavorare!» Puntualizzò Lauren, indignata per essere stata comparata ad una spocchiosa con le unghie smaltate, le ciglia finte e i vestiti firmati.

«Solo perché il tuo lavoro è più umile, non vuol dire che il mio non sia lavoro.» Precisò stizzita la cubana, che dell'altezzosità di una ex campionessa di pugilato con manie di protagonismo ne aveva già fin sopra i capelli.

Lauren scosse la testa e ci rinunciò, ma prima che Camila se ne andasse aprì la cartella che le aveva recapitato. Erano delle scartoffie da firmare per conto di Alejandro, una specie di contratto che vincolava il loro rapporto legale, le proibiva certe cose e la obbligava ad altre. Un ulteriore motivo per rifiutare.

«Puoi riportare indietro questi.» Sentenziò Lauren, sbatacchiando il fascicolo contro la cassa incurante «Non accetterò la proposta.»

Normani, seduta ad un passo da loro, fin ora taciturna ma adesso non più capace di zittire i suoi impulsi, prese parola «Certo che accetterai!» Si intromise, rivolgendo un sorriso nella direzione di Camila per smorzare la tensione: antipatica, divergente o sessuale... Non era sicuro che tipo fosse.

«No, non mi piace che tuo padre mi abbia seguita, tanto meno che abbia stilato una lista di cose su come "rieducarmi"... E poi, preferisco andare in carcere che essere costretta a vederti tutti i giorni.» Suonò decisiva Lauren, con un sorrisetto compiaciuto che faceva capolino sotto i baffi.

La verità era le piaceva domare le persone, vederle in difficoltà, balbuzienti e arrossate. Era il suo secondo ring, quello che aveva creato da sola quando aveva perso il primo. Se non era più autorizzata a servirsi delle mani, allora sarebbero state le parole i suoi pugni.

«Bene, perfetto.» Camila si rimpossessò della cartella, e accostandosi di qualche centimetro al viso di Lauren pronunciò «Meglio così.»

Salutò cordialmente Normani, la quale trovava molto simpatica e piacevole. Non si spiegava come una ragazza come lei potesse sopportare una come Lauren. Imbracciò il fascicolo sotto braccio e camminò tronfia fino all'uscita, facendo suonare la campanella posta sopra l'ingresso e abbandonando una volta per tutte il negozio.

Lauren fece schioccare la lingua contro il palato, poi si fece sdrucciolare addosso le affermazioni scontrose di Camila e tornò ad ottemperare i suoi doveri.

«Sei impazzita?!» Sbottò Normani, afferrandola per il braccio.

La guardava con rabbia negli occhi, con un'ira che mieteva anche l'orgoglio attecchito di Lauren.

«Hai appena sprecato la tua unica possibilità di salvezza, brava! E per cosa poi? Per delle stupide ripicche!» Inveì Normani, alzando anche il tono della voce seppur qualche cliente si fosse già voltato ad osservare la scena, incuriosito.

«Mani, troverò un altro modo, okay?» La rassicurò Lauren, divincolandosi dalla presa che la infastidiva «Quella gente non mi piace.» Puntualizzò, fissando la porta da cui era uscita Camila.

«Lauren, nella vita tutti facciamo cose che non ci piacciono, tutti dobbiamo tener testa a persone che detestiamo, ma è così! Guarda me.» Si esibì come esempio, indicando se stessa e poi la corvina di fronte a lei.

Lauren inclinò la testa e corrugò la fronte «Che vorresti dire?» Intanto stava armeggiando con i guanti, perché non riusciva a trovare il verso giusto, ma non voleva abbassare lo sguardo perché sarebbe stato sintomo di debolezza. E lei non era debole.

«Vorrei dire che la mia migliore amica è una burbera con principi sbagliati che non ascolterà nessuno se non il suo orgoglio. Non è mica facile, sai! Eppure ti voglio bene lo stesso, e tutti i giorni cerco di aiutarti come posso.» Specificò senza riserve Normani, la quale aveva imparato dopo la breve depressione di suo zio che alcune volte le persone vanno scosse con parole taglienti, perché la commiserazione serve solo ad avvalorare il loro punto di vista.

Lauren sospirò, ma non replicò. Si avviò con passo celere verso la serra e non si girò quando Normani le urlò dietro che facendo così dimostrava solo di essere una bambina. Per tutto il resto della giornata non fece altro che scavare, non volle nemmeno il cambio quando Joshue la congedò. Rimase da sola, a impiantare semi e rimuginare sulle parole di Normani.

Alla sera, l'amica non l'aspettò come sempre. Chiese a Erik di chiudere il negozio, così lei fu libera di andarsene venti minuti prima e non dovette preoccuparsi di incrociare Lauren. Escogitò quel piano appositamente per irritarla, sperando di mandare un messaggio chiaro con la sua assenza. La corvina, quando si avvide dello scambio dei turni improvviso, sbuffò inalberata. Non era concorde con i metodi ingiusti che stava sfruttando Normani, ma decise di non darle soddisfazione, altrimenti avrebbe fatto leva sul fatto che doveva riconsiderare la proposta, pensare alla loro amicizia e bla bla bla. Lauren si fidava della sua tenacia ed era sicura che avrebbe pianificato una strategia per uscire indenne dal processo.

Si accese una sigaretta e percorse la strada deserta, come ogni sera. La cosa che più le piaceva della desolazione notturna, era che poteva camminare liberamente in mezzo alla strada -proprio al centro, sulla riga bianca- senza il pericolo perenne che qualcuno l'arrotasse. Se una macchina imboccava inaspettatamente quella via, poteva facilmente spostarsi sull'altra corsia e poi riprendere a camminare al centro. Non c'era una motivazione, ma le piaceva vedere il fondo della strada che si unificava davanti ai suoi occhi, il senso incomprensibile di libertà che provava nel tenere quella linea fino a casa.

«Ehi!» Sbucò Lucy da dietro l'angolo, come se si fosse appostata e la stesse aspettando, cercando di mostrarsi il più disinvolta possibile e far cadere l'incontro nel sacco delle coincidenze.

Sbagliato, Lauren sapeva che non era stato un caso e questo la irritava ancora di più. Era arrivato il momento di accendersi una sigaretta, ulteriore motivo per disprezzare Lucy che se non si fosse imbattuta in lei sarebbe arrivata a casa senza fumarne nemmeno una.

«Dove vai?» Domandò, dondolando le braccia avanti e indietro.

«Secondo te?» Esalò una boccata di fumo, ed alzò un sopracciglio nella direzione di Lucy per sottolineare l'idiozia che aveva appena detto.

«Giusto. Turno finito, si torna a casa.» Emise un risolino che provocò un'insofferenza tale a Lauren che non riuscì a trattenersi e sbuffò sonoramente.

«Oh, scusa.. Ti, ti infastidisco?» Chiese Lucy, deglutendo, abbassando un po' la testa come per scusarsi.

«Si.» Rispose recisa Lauren ed accelerò il passo, illudendosi di averla dissuasa, ma dopo qualche attimo...

«Io sono l'unica persona che ti è rimasta vicina.» Ringhiò a denti stretti la mora, afferrando Lauren per una spalla per voltarla verso di se «Non merito che tu mi tratti come tutte le altre insignificanti che ti porti a letto!» Sputò velenosa, con gli occhi leggermente sgranati e le vene del collo ingrossate e pulsanti. Succedeva sempre così quando si imbestialiva.

«Lucy.» La corvina le afferrò il polso e lo scostò dalla sua giacca, avvertendo un senso opprimente al petto che non tollerava «Sono stanca. Non ho tempo per queste cazzate sentimentali.» Le rivolse un'occhiata sinistra che sperò perforasse il suo accanimento, che levigasse la sua petulanza, ma si sbagliava.

«Io, io sono tutto quello che hai!» Le urlò dietro la mora, e quando Lauren si girò per guardarla aveva un sorriso gratificato stampato sul volto e lo sguardo accattivante di chi è sicuro troppo presto di aver vinto.

«Se tu ti ritiene tutto ciò che ho, allora io non ho niente.» Socchiuse le labbra per espirare il fumo, poi lanciò il mozzicone alle sue spalle, rimase a guardare l'espressione avvilita di Lucy ancora per qualche secondo e riprese a camminare, spegnendo la spirale di fumo rimasta incastrata nella cartina.

Stavolta Lucy desistette del tutto, sentendosi nominare come "niente", la sua perseveranza scemò come il respiro flebile della sigaretta che Lauren aveva appena calpestato.

Quella sera la corvina invece di rintanarsi nella sua roulotte come era avvezza fare, accettò l'invito di William ad unirsi alla combriccola sgangherata in cui si consumavano Marlboro come fossero caramelle e si beveva rum di pessima qualità fino all'alba.

Non aveva intenzione di trattenersi a lungo, specialmente perché non aveva confidenza con i suoi vicini d'alloggio. Sembravano tutti sociali e contagiati da un lassismo comune che faceva apparire tutti come alberi secolari, con le fronde pendenti e in movimento solo quando soffiava un fil di vento. Lauren si sedette sulla sdraio traforata che era rimasta libera, e mentre scolava un bicchierino offertole da William si chiese se anche lei non avesse il loro stesso aspetto.

Rimase sveglia fino alle tre del mattino, a parlare di gare motociclistiche che William aveva gareggiato da giovane. Anche lui era stato un "campione", niente di serio, niente ai suoi livelli, ma comunque aveva vinto più di un torneo e poi era finito tutto con un brutto incidente che gli impedito di proseguire la sua carriera e gli aveva lasciato uno strascico, rendendolo zoppo. Gli altri erano scappati di casa per diverbi con i familiari, alcuni erano stati cacciati direttamente dai genitori perché considerati la iattura familiare.

«Mia mamma mi diceva sempre "altro che pecore nere, tu sei come le termiti."» Rise grossolanamente Rita. Lauren non ci trovava niente di divertente, ma forse quel sarcasmo pungente era la difesa che si era fabbricata per difendersi dal vorace passato.

«Mia sorella era considerata una regina, cazzo, avreste dovuto vedere come si dannava mia madre per soddisfare tutti i suoi fottuti vizi, ma avendo scelto l'università di medicina a lei tutto era concesso. Non ce la facevo più e sono andata via. Nessuno mi ha mai cercato. Li ho fatto un favore.» Contribuì con la sua storia Alena, la ragazza con le treccine sfatte e il viso un po' tondo, ma due occhi grandi capaci di annebbiarti il pensiero. Poi scolò il quarto, forse quinto bicchiere di rum.

Lauren, ascoltando quella storia, imprevedibilmente e inesplicabilmente pensò a Camila. Quella donna dai modi aggraziati, ma l'insolenza proterva di chi ha sempre avuto il terreno spianato e non si è mai dovuto anfanare per raggiungere i propri scopi. Le baluginò davanti agli occhi lo sguardo imprudente che le aveva rivolto, il sorriso compiaciuto e la camminata pettoruta che l'aveva esacerbata.

Stronza impertinente. Te lo faccio vedere io. Ponderò mentalmente, trangugiando un ultimo bicchiere prima di dileguarsi nella sua tana.

Sarebbe tornata allo studio di Alejandro, avrebbe accettato la sua proposta solo per indispettire Camila e depennare quell'espressione tracotante che l'aveva innervosita oltremisura.

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