Capitolo dieci
Alle nove in punto, Camila uscì di casa più in ansia che mai. Le mani le fremevano talmente tanto che anche inserire la mandata alla porta fu difficile, tanto il suo fremito la invalidava.
Ripassò mentalmente l'occorrente di cui abbisognava. Frugò nella borsa per sincerarsi di non aver dimenticato niente, valutando la sua pronunciata smemorataggine non era quello il momento adatto per lasciare spazio ai dubbi. C'era tutto.
Richard, l'autista privato di suo padre, passò a prenderla come prestabilito. Camila rilesse le carte durante il tragitto, gesticolò e tentò di figurarsi l'avvocato di Marianne davanti a se. Intavolò le sue argomentazioni e, sempre nella sua ottimistica immaginazione, non distolse nemmeno una volta lo sguardo da quello del suo avversario. Suo padre le aveva sempre detto che abbassare la testa in presenza di un avvocato, era come ammettere di aver già perso.
Richard era nell'azienda da dieci lunghi anni ormai, così, quando il suo sguardo cadde nello specchietto retrovisore e scorse l'inequivocabile agitazione di Camila fremere nei gesti convulsi e nello sguardo spaurito, si permise di dirle «Andrà tutto bene, signorina Cabello.»
La cubana interruppe la sua arringa, incrociò il suo sguardo attraverso il piccolo vetro e sorrise riconoscente, annuendo un po' rincuorata. A volte basta avere anche il sostegno di una sola persona per sentirci meno insicuri e più decisi.
Parcheggiarono davanti all'edificio di Alejandro, dove Camila aveva fissato un appuntamento con Lauren per raggiungere insieme il colloquio. Controllò l'orologio e si avvide che la corvina era dieci minuti in ritardo. E menomale che si era raccomandata...
Aspettarono pochi istanti, poi qualcuno aprì la portiera posteriore dove era seduta Camila. La cubana sobbalzò presa alla sprovvista, ma la massa inanellata dei capelli corvini, la cortina di evanescente fumo e il tintinnio della cinghia del giubbotto di pelle furono avvisaglie inconfondibili.
«Avevamo detto le nove e mezzo.» L'apostrofò Camila, mostrandole il polso dove era allacciato l'orologio, testimone infallibile del canonico ritardo.
Lauren per tutta risposta spirò una boccata di fumo nella direzione di Camila, subissandola con un velario cinereo. La cubana tossì gravemente, con una mano diramò la cappa e con l'altra si premurò di abbassare il finestrino per far dissipare la nebbia accumulatasi nell'abitacolo.
«Potresti evitare di fumare nella mia macchina?» Chiese, portando le braccia conserte e accentuando la sua stizza con tono risentito.
«Non è tua. È la macchina di tuo padre.» Puntualizzò Lauren, che l'unico favore che fece a Camila fu di soffiare il fumo fuori dal finestrino, senza però depennare quella faccia insolente che insaporiva ogni sua conversazione.
Camila roteò gli occhi al cielo, ma non ribatté. Aveva cose ben più importanti a cui pensare per potersi preoccupare di un odore sgradevole e un lieve pizzicore alla gola.
Disquisì per tutto il tragitto con il fantasma di un avvocato che avrebbe fronteggiato di li a poco. Lauren seguì assiduamente i suoi ragionamenti, ma non colse tutte le parole perché Camila ragionava a bassa voce, forse intimidita dalla presenza di Lauren o forse semplicemente era il suo modo di agire e memorizzare.
«Queste cose le sai solo dire al sedile, oppure credi di farcela anche davanti ad una persona vera e propria?» Domandò mordace Lauren, sbuffando un po' di fumo residuo.
«Lo scopriremo presto.» Restò sul vago Camila, non volendo straripare di autostima, ma nemmeno polarizzare il suo atteggiamento al pessimismo.
«Non sono mai stata molto cattolica, ma ho come il presentimento di dovermi appellare a Dio.» Bofonchiò scettica Lauren, invocando il nome del Signore solo per impermalosire Camila.
«Un po' di fiducia non sarebbe male.» Rimbeccò inalberata Camila, che disprezzava il temperamento sardonico di Lauren.
«L'ultima volta che sono entrata nel tuo studio, una ragazza ti stava massaggiando la schiena. Non so quanto fiduciosa possa essere.» Blaterò Lauren, lanciando il mozzicone della sigaretta fuori dal finestrino.
Ebbe la tentazione di accenderne un'altra solo per infastidire Camila, ma le sue riserve erano centellinate e perciò rinunciò a malincuore a quello sfizio.
«Mi stava massaggiando la schiena perché mi sono addormentata per sette notti sul divano, dopo aver passato tutto il giorno a studiare sul tuo caso!» La voce di Camila si impennò man mano che sputava le parole avvelenate di livore.
«Credo solo a ciò che vedo.» Sentenziò la corvina, scrollando le spalle con disinteresse e colma di ingratitudine seccante.
Camila farfugliò qualcosa, ma Lauren non se ne curò e così il resto del viaggio trascorse in silenzio, stemperato raramente dai discorsi sconnessi e bisbigliati di Camila che aveva ripreso ad esercitarsi sulla sua preparazione.
L'edificio non era imponente come quello dove solitamente la cubana risiedeva tutti i giorni. Era un piccolo dettaglio, ma riuscì a rasserenarla un minimo. Respirò profondamente e addirittura, prima di entrare, le sfuggì anche un sorriso mentre osservava la vetta dell'azienda gettarsi in cielo, ma non svettare troneggiante come quella di suo padre.
Lauren sbuffò sarcastica «Sorridi solo quando avremo buone notizie.» L'ammonì, poi entrò, lasciando che il vetro si richiudesse e obbligando Richard ad aprirlo al posto di Camila perché impossibilitata ad afferrare la maniglia con i documenti ancora sparpagliati fra le mani.
«Grazie, Richard.» Disse la cubana, con tono esasperato.
«In bocca al lupo.» Ammiccò lui, accennando ad una riverenza con il capo.
Lauren quantomeno aveva avuto il garbo di aspettarla per prendere l'ascensore e salire al piano. Camila la superò impettita, si immise nell'elevatore e la rimirò con il mento leggermente alzato in segno di superiorità rispetto alla sua infantilità.
Lauren scosse impercettibilmente la testa, poi avanzò un passo e Camila pigiò il numero tre, permettendo alle porte di richiudersi ermeticamente. La corvina si appoggiò contro la parete, mentre la cubana si prodigò per riordinare le carte in modo dignitoso. Mentre tentava di spostare delle pagine, alcuni documenti le scivolarono di mano e si sparpagliarono sul pavimento.
Camila imprecò, lanciò un'occhiata a Lauren nella stolta speranza di essere aiutata, ma la corvina rimase inerte e con lo sguardo fisso sulla giuntura delle porte.
La cubana guardò insistentemente Lauren, con un rimprovero fervido intagliato nello sguardo assottigliato. Lauren si voltò distrattamente verso Camila, abbassò lo sguardo sulla distesa disorganica dei documenti e poi riportò gli occhi sulla ragazza «Che c'è? Mica sono stata io.» Scrollò le spalle e tornò ad immergersi nel suo lassismo, spiazzando Camila con la sua ormai notoria incuria, ma pur sempre sconcertante.
La cubana si genuflesse per raccoglierli, quando le porte si aprirono e Lauren allungò la gamba per scavalcare le carte giacenti, poi si incamminò in solitudine verso lo studio dell'avvocato e lasciò Camila a inveire contro gli angoli sottili dei documenti che non ne volevano sapere di collaborare.
Quando finalmente riuscì a incettare tutto, si accorse che le porte si stavano richiudendo. Balzò in avanti per impedire che avvenisse, ma anche se avesse voluto tendere la mano non avrebbe potuto a causa dei fogli che reggeva. Sgranò gli occhi e previde che l'incontro sarebbe andato male a causa del ritardo che avrebbe sicuramente apportato un vantaggio nei confronti dell'accusa. Si, era un po' paranoica, ma come biasimarla?
Prima che la sigillatura coincidesse ermeticamente, Lauren dall'altra parte frappose un braccio e con un acustico suono le porte si riaprirono.
Camila restò a guardarla in affanno, già con il cuore galoppante per il nugolo di pensieri che le ottenebravano la ragione. La corvina le fece un cenno della testa, e non abbozzò nessun motteggio sarcastico, il che, per la seconda volta, allibì Camila.
Credo abbia smesso da poco il ciclo delle pillole contro il bipolarismo. Pensò, non trovando altra soluzione all'atteggiamento lunatico e precario di Lauren.
Attraversarono un oblungo corridoio, tempestato di quadri disegnati da artisti di grande stima e valore. A Camila tutta quella vistosa opulenza sembrò uno sfoggiare eccessivo di dovizia, prerogative insite in personalità prosopopee, ma agli occhi di Lauren non apparvero tanto diversi dai quadri sontuosi che ornavano lo studio dei Cabello. Non ci fece nemmeno più di tanto caso.
La porta dell'ufficio era semiaperta, ma prima di bussare Camila rivolse un'ultima occhiata a Lauren, implorandola tacitamente di comportarsi idoneamente. La corvina, cogliendo il silenzioso monito, alzò gli occhi al cielo e annuì flebilmente. A momenti le sembrava di essere tornata a scuola.
La cubana bussò, e dopo il fruscio inconfondibile della carta, una voce stentorea la invitò ad entrare. Evidentemente l'uomo attempato e precocemente incartapecorito non doveva essere stato messo al corrente del cambio di programma, perché quando vide Camila inoltrarsi nel suo studio un sorriso presuntuoso, quasi irridente, sbocciò sul suo volto.
L'età efebica di Camila doveva averlo ringalluzzito indicibilmente, probabilmente era già sicuro di aver vinto. La cubana ostentò indolenza di fronte all'atteggiamento spavaldo dell'uomo, e molto educatamente gli tese la mano, presentandosi come "avvocato difensore della signorina Jauregui. In vece di Alejandro Cabello."
Si sedettero ad un tavolo ovale, dove la luce del giorno irradiava la superficie di vetro con fronde auree che disturbavano gli occhi suscettibili di Camila. Dispiegarono le carte; tutto venne eseguito in maniera metodica e professionale, in un religioso silenzio che venne spezzato solo quando entrambi furono pronti.
«La mia cliente non assisterà a questo colloquio, viste le circostanze.» Lanciò un'occhiata rimarchevole a Lauren, e Camila la sentì agitarsi sulla sedia, ma riuscì a cavarsela con uno sguardo reciproco carico di astio. L'uomo sorrise.
«D'accordo.» Assentì Camila, giungendo le mani davanti a se.
Le pratiche burocratiche furono una noia e Lauren non ascoltò metà della conversazione. Il dialogo progredì a rilento, trascorse circa un'ora prima che si animassero i primi attriti, poi incalzò il ritmo della discussione e non fu più solo uno scambio di occhiate furenti o riprovevoli, ma si alterarono anche i toni e ognuno dei due attaccò l'altro con tangibile sarcasmo.
Lauren rimase in silenzio per tutto il tempo, proprio come le era stato imposto. A dire il vero, più di una volta avrebbe desiderato intervenire, ma Camila placò e braccò sagacemente la sicumera dell'avvocato, facendogli storcere innumerevoli volte il naso come se solo in quel momento comprendesse di averla sottovalutata. E in quegli attimi era Lauren a sorridere compiaciuta.
Poi, però, come tutti gli idilli anche il loro terminò.
Camila, dopo un'asserzione dell'uomo, incespicò e mentre lui guadagnava terreno lei arrancava fra le pagine disordinate sul tavolo, sperando di imbattersi in un suggerimento che la salvasse, ma non accadde.
L'uomo continuò a infierire, ad elencarle le ragioni per cui la sua cliente non era disposta ad essere risarcita economicamente, ma l'unico suo spasimo era quello che fosse fatta giustizia. Camila tentennò, cercò di ribattere e di stilare una lista che sovvertisse il pensiero dell'avvocato, ma la sua voce era impastata, i gesti tremolanti e la fronte madida di sudore.
L'unica frase che Lauren ricordava perfettamente dopo la dissoluzione di quella che sembrava essere un'impresa compiuta, furono testuali parole «Ci accordiamo affinché i giornalisti lascino in pace la sua cliente, per il resto... Ci vediamo in tribunale.» Tese la mano, e quello fu il loro umiliante commiato.
In ascensore calò il silenzio. Camila teneva lo sguardo basso, sapendo di non aver svolto un ottimo lavoro e di essere riuscita ad ottenere il minimo indispensabile. Avrebbe voluto consolarsi con aneddoti banali come "hai perso una battaglia, non la guerra", ma quando si è al cospetto della sconfitta, non si pensa mai alla rivalsa, il pensiero si focalizza solo su ciò che si è perso.
Uscire dallo stabile, Lauren non riuscì più a trattenere la sua ira e calciò un cestino della nettezza, attirando più di qualche sguardo.
«Cazzo!» Imprecò fremebonda, serrando i pugni lungo i fianchi.
Camila era intimorita da come avrebbe reagito Lauren, ma si sentiva in dovere di scusarsi. Un po' perché sapeva di aver deluso le aspettative di suo padre e un po' perché i sensi di colpa la mordevano tenacemente.
«Mi dispiace.» Balbettò sommessamente, chiudendo gli occhi quando Lauren si voltò di scatto e la trafisse con il suo sguardo linceo.
«Io lo sapevo che eri una buona a nulla.» Ruggì a denti stretti, sfiatando ansimante dalle narici.
«Lo so, sono stata pessima... Ma non è finita! Mio padre tornerà presto, riprenderà lui in mano la causa e.. e andrà bene!» Tentò vanamente di rassicurarla, ma spegnere le fiamme mastodontiche con un semplice secchio d'acqua non era efficace.
«Avremmo potuto evitare il processo, se solo ci fosse stato qualcuno di competente!» Rincarò la dose Lauren, marciando avanti e indietro per far defluire la rabbia che le si annidava sul petto, zavorrando il suo respiro.
«Ho detto che mi dispiace.» Una lieve stonatura vibrò bel timbro di Camila, che oltre ad aver visto i suoi sforzi vanificarsi, adesso era anche sottoposta alle critiche serrate e lesive di Lauren.
«Ti dispiace un cazzo!» Sbottò, parandosi davanti a lei, ad un soffio dal suo volto.
Camila sussultò, ma non abbassò lo sguardo stavolta, anzi sostenne quello di Lauren con manifesto coraggio.
«Le scuse servono a poco adesso.» Concluse la corvina, ma in tono più pacato, come intaccata dallo sguardo impavido di Camila.
Scosse un'ultima volta la testa e si voltò. Portò una sigaretta fra le labbra e con le mani in tasca si avviò verso la fermata dell'autobus; chiaramente non avrebbe accettato alcun passaggio dalla cubana.
Camila sospirò mortificata, occhieggiando le striature del cielo che quel giorno era maculato di nuvole gonfie e minacciose, pronte ad esplodere da un momento all'altro. Per la prima volta non poteva biasimare la rabbia di Lauren, ed era frustante non potersela prendere con lei perché ultimamente era diventato il suo passatempo preferito.
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