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Prologo

Ricordo ancora quello che accadde quella sera.

Ricordo con nitidezza di come, seduta sul piccolo sgabello foderato, muovevo la spazzola lungo i miei capelli dorati, sospirando per la noia, di fronte al lucido specchio. Ricordo di come li accarezzavo e loro, morbidi, ricambiavano quel tocco lieve sul mio palmo celeste. Indossavo un lungo abito turchese, tanto lungo che le punte delle dita spuntavano appena dalle maniche ricamate. Tuttavia, non si poteva di certo dire che fossi bassa, anzi. Erano semplicemente i miei sarti che erano degli incapaci. Lanciai uno sguardo all'armadio dietro di me, controllando che le ante fossero chiuse. Tutto era a posto. Tutto era, almeno apparentemente, in regola. Mi alzai e mossi pochi piccoli passi verso il balcone, giusto per arrivare a potermi sporgere dalla ringhiera. Sopra la città di Màcronos, illuminata dalle imposte aperte degli abitanti più notturni, la volta stellata riluceva come suo solito. E, forse, quella sera più che mai. Tra le luci della sera, all'orizzonte intravidi le altre stelle blu, più grandi perché più vicine alla nostra Galassia. M110 sarebbe stata ancora immersa nel buio se al suo centro mio padre, il Re Astolan De Sissa, non avesse fatto costruire un centro di produzione stellare. Aveva rovinato praticamente l'intera Galassia di Andromeda, al cui interno M110 era situata, soltanto per avere un po' di luce. Mia madre, la Regina Narcissa De Sissa, lo avrebbe appoggiato fin dal principio in tutto ciò che avesse fatto. Io non avevo mai capito come lei facesse a sopportarlo, ma evidentemente la bellezza della corona superava tutti i confini. Oh, ma non per me.

Lanciai un ultimo sguardo al cielo, salutando la sua silenziosa essenza con un sorriso. Dal basso della dimora reale, due file di guardie stavano entrando di corsa all'interno. Ghignai, voltandomi verso la porta. Li sentii salire freneticamente le scalinate, finché non giunsero qui e sfondarono la porta in legno, riducendola in mille pezzi. Una schiera di dodici uomini si dispose intorno a me, accerchiandomi. Mi puntarono le lance elettrificate al petto e un omino, basso e paffutello, con un gran paio di baffi neri e senza l'ombra di un capello in testa, si schiarì la gola e si avvicinò a me passando tra le gambe dei soldati.

-La Principessa Sassissira Serafissa Lissa De Sissa, figlia del Re Astolan De Sissa e della Regina Narcissa De Sissa, è chiamata, su ordine del Tribunale Intergalattico, a rispondere dei crimini da lei commessi. Dovrà pertanto seguirci per essere scortata nel carcere di massima sicurezza dove vivrà per il resto dei suoi giorni -

La piccola figura prese fiato e arretrò, nascondendosi, come intimorito, dietro le gambe di una delle guardie, che alzò gli occhi al cielo. Mi feci scappare una risatina e tutti iniziarono a guardarmi male.

-Molto bene, portatemi. Ma, per favore, non aprite il mio armadio. Ve ne supplico - dissi, aspettandomi esattamente quello che successe. L'ometto diede ordine che l'armadio fosse aperto. Una delle guardie, senza troppa cautela, si avvicinò ad una delle due ante. Dapprima sembrò studiarla dall'esterno, poi, dopo aver appurato che da lì tutto sembrava in regola, si decise a girare la chiave. Non appena l'armadio fu spalancato, un'ascia affissa alla sua parete posteriore si abbassò sulla guardia, tranciandola di netto a metà. L'armatura in argento celeste emanava fili di fumo, mentre il cuore scandiva il suo ultimo battito, quasi come un riflesso. Quasi come un tentativo, vano, di ritornare indietro. Le altre guardie, attonite, fissavano la macchia rosso sangue che quel corpo mozzato stava lasciando sul pavimento bianco, con occhi appannati dal pianto. Approfittai della distrazione di tutti per sgusciare tra quelle alte figure in armatura e scappare, ma non ci volle molto perché tutto ciò si trasformasse in un vero e proprio inseguimento. Scesi velocemente le scale, ma verso il fondo mi inciampai, facendo un volo di qualche metro e finendo distesa sul pavimento. Mi rialzai, le braccia doloranti per la caduta, e ricominciai a correre. Corsi lungo tutti i corridoi, lanciando in aria vassoi ricolmi di cibo su cui qualche guardia scivolava e gettando per terra la servitù che costrinse gli inseguitori a rallentare per evitare di schiacciare qualcuno. Dietro di me quell'omino correva, sventolando in aria un rotolo di pergamena e gridando: "36! 36!". Sorrisi, un senso di libertà di nuovo in volto e...

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