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- 76 giorni alla fine del mondo -

Error non era contento di aver perso un'intera notte di studio, e lo fu ancora meno quando il giorno seguente vide sulla porta della classe il seguente cartello: "A tutti gli alunni: recarsi nell'arena olografica per la simulazione generale". Resistette alla tentazione di sbattere ripetutamente la testa sul cartello come un pazzo, nella convinzione sadica che il mal di testa avrebbe smesso di pungergli le tempie se il cranio si fosse aperto in due.

L'unico pensiero che riusciva a prendere forma nella sua mente era: "quindi, anche oggi si studia domani".

Nonostante non avesse studiato, la notte prima non era comunque riuscito a dormire: aveva sprecato sei ore per nulla.

Non afferrò appieno il significato dell'avviso. Era talmente stanco che le sillabe si invertivano di posizione e le parole non producevano senso. Ma ne ricavò un'informazione utile: recarsi nell'arena. Ovviamente, non aveva idea di dove fosse, così fu costretto ad attendere l'arrivo degli altri studenti e a seguirli poi fino alla meta.

Nonostante l'annebbiamento generale che popolava il suo cervello, gli parve però di comprendere che i suoi compagni erano esaltati dall'evento, quasi si trattasse di una festa. Non riusciva a condividere neppure un grammo del loro entusiasmo. Il suo corpo aveva deciso di renderlo pienamente consapevole della forza di gravità che, sul pianeta Yhesomai, non era affatto trascurabile. Ogni passo gli costava sforzo e gli pareva che le suole fossero appiccicate al pavimento con una colla super-potente. Già arrivare fino all'arena gli sembrava un'impresa al di là delle proprie forze, figurarsi svolgere l'attività – qualunque fosse – per la quale quel luogo era stato adibito. Dal nome, si prospettava qualcosa di molto faticoso.

Arrivò alle porte dell'arena e rimase a bocca aperta: era l'unica sala in tutta l'accademia le cui pareti non erano trasparenti, ed era anche la più grande che vi avesse mai visto. Era al centro di una torre di travi di metallo esposte a vista ed era sospesa nel vuoto, tenuta su da enormi cavi a molla. Aveva una forma sferica perfetta, nessuna apertura eccetto una porta rotonda alla quale si accedeva tramite un piccolo corridoio sospeso, largo a sufficienza solo per due persone. All'ingresso, un istruttore si occupava di lasciare passare gli studenti a due a due.

Quando fu il turno di Error, l'uomo gli fece cadere il braccio davanti a mo' di sbarra e dichiarò: «Non si passa, senza il partner».

Il ragazzo annuì e si guardò attorno, aguzzando la vista nonostante gli occhi gli bruciassero come davanti a una fiamma ossidrica, ma non riuscì a individuare Yara tra la folla che si accalcava dietro di lui. La coda per entrare era durata un'oretta buona e gli aveva acutizzato ogni millimetro dolorante del corpo, così chiese: «Posso aspettarla qui?».

«No» fu la risposta secca dell'istruttore: «Fai la fila come tutti gli altri. Non credere di poter fare il privilegiato solo perché sei un incolore».

Error si trattenne dal rispondere che la fila l'aveva fatta eccome e che i suoi piedi ne erano testimoni. Annuì e tornò indietro. E poi, quando mai essere un incolore significava aver dei privilegi?

Andare nel verso opposto a quello di marcia sarebbe stato letteralmente impossibile in una folla di non-telepati ammassati gli uni sugli altri, ma le folle dei telepati erano ben altra cosa: ogni coppia stava a distanza di un metro e mezzo dall'altra. A Error bastò far lo slalom, ignorando le occhiatacce: non potendo legger loro nel pensiero, non si sentiva di certo in colpa a entrare nella loro zona sensibile. In più, il dolore ai piedi riempiva tutta la sua testa e non lasciava spazio per altre preoccupazioni.

Aveva appena finito di fare la coda al contrario, quando individuò Yara nelle ultime file. La raggiunse e le si mise al fianco, mentre lei fingeva di non vederlo. Un impercettibile indurimento dei tratti somatici sotto i ciuffi di capelli gli fece capire che lo aveva visto e aveva ogni intenzione di ignorarlo. E a lui andava bene così, per il momento: concedere parte della propria attenzione alla sua coinquilina maldisposta lo fiaccava ancora di più.

Rifece la coda per la terza volta accanto alla mummia che aveva come partner, e si fece forza per non contare i minuti trascorsi in quell'inutile perdita di tempo: erano di certo più di cento.

Si guardò attorno per ingannare la noia e desiderò non averlo fatto: c'era qualcosa di fortemente sbagliato, nel silenzio sacro che lo circondava. Tutti guardavano dritto davanti a sé, come se stessero in coda per un'iniziazione religiosa.

Quasi non gli sembrò vero, quando raggiunse per la seconda volta lo spocchioso istruttore all'ingresso del corridoio. Lo sfidò con gli occhi a fargli lo stesso scherzetto di prima, ma quest'ultimo vide Yara e li fece passare senza una parola.

A vederla da fuori, la sala era enorme, ma a starci dentro sembrava non aver fine. Tuttavia, non aveva proprio niente dell'arena. Sembrava piuttosto un alveare: era ricolma di cellette, disposte su vari piani. Ognuna di esse distava dalle circostanti almeno un metro e mezzo, e ormai anche l'incolore non aveva difficoltà a comprenderne il motivo.

Yara rimase immobile sull'entrata, mentre tutti la schivavano, aggirandola come un ostacolo largo tre metri.

Error la guardò, indeciso se parlarle o meno. Voleva sapere se lei, che conosceva le regole del gioco, aveva già una strategia. Ma la sua taciturna coinquilina parve notare quel tentativo e ruotò appena il capo dall'altra parte, per fargli passare la voglia di rivolgerle la parola. Error ci rinunciò: era stanco e demotivato.

Quando anche gli ultimi ragazzi furono entrati, le porte si richiusero dietro di loro e una voce fuori campo annunciò l'inizio del combattimento. Nessuno disse niente sulle regole del gioco, l'obiettivo da raggiungere o le armi da usare. Davano tutto per scontato. Sembrava che tutti sapessero già cosa fare. Tutti tranne lui, naturalmente.

Le coppie si misero a correre freneticamente, entrando nella prima celletta che trovavano per non perdere minuti preziosi.

Finalmente Yara si mosse ed entrò nella cella libera alla sua destra, in prossimità dell'entrata. La calma e la lentezza dei suoi movimenti lasciavano pensare che stesse svolgendo una qualunque commissione quotidiana, non diversa dal solito. Era entrata nella cella come si entrerebbe in un supermercato per fare la spesa. Error la seguì all'interno e si richiuse la porta alle spalle. Rimasero soli, loro due, dentro una cabina microscopica.

Si guardò attorno e notò che quella non sembrava neppure lontanamente una cabina di pilotaggio. Non era affatto come se l'era immaginata guardando i film di fantascienza. D'altronde, quei film risalivano a trecento anni prima, e la tecnologia che aveva di fronte non aveva compiuto cinquant'anni.

Non era ancora arrivato a studiare quella parte del programma, ovvero la più importante. Non sapeva nulla sulle astronavi: né come funzionassero, né quale fosse l'incredibile innovazione che aveva reso possibili i viaggi interplanetari tanto agognati dai creatori di Star Trek e Star Wars. Si sentiva un completo ignorante e sapeva che chiunque in quella scuola poteva fargli mangiare la polvere su quell'argomento.

Nella cabina, tre cose colpirono la sua attenzione: innanzitutto, non c'erano né caloche, né pannelli di controllo, né leve, né pulsanti, ma solo un grosso schermo, che al momento era in stop. Inoltre, c'erano due poltrone come non ne aveva mai viste. Agli occhi di Error assomigliavano a due bare super-tecnologiche. L'occupante era tenuto a sdraiarsi sopra a un fluido che mutava forma per adattarglisi ergonomicamente, per poi farsi pungere da una miriade di microscopici aghi e richiudersi sotto a un coperchio, di cui solo una piccola parte era trasparente, in prossimità degli occhi. Non era il massimo, per un ragazzo claustrofobico come lui. Infine, la terza cosa che lo sorprese fu una torretta luminosa di base triangolare in centro alla stanza, collegata a entrambe le capsule. Error non comprendeva la funzione di quell'arnese, che gli pareva più decorativo che utile. Sulla base c'era una targhetta con scritto: "Indicatore del livello di simbiosi".

Non sapeva da che parte incominciare per affrontare quella prova: attorno a lui non vedeva elementi conosciuti.

Fissò di nuovo Yara con uno sguardo smarrito e un grosso punto interrogativo sulla fronte e non poté credere ai propri occhi, quando vide che la sua partner si era limitata a sdraiarsi nella capsula di destra, con le braccia incrociate sotto alla testa e gli occhi chiusi, quasi volesse schiacciare un pisolino. Il messaggio era chiaro: "fai tutto da solo e non contare sul mio aiuto".

Un prepotente senso dell'assurdo iniziò a prendersi gioco di lui. Valutò ogni alternativa che gli restava: avrebbe voluto andar da Yara, prenderla saldamente per le spalle e scuoterla con forza come si fa per svegliare chi dorme della grossa. Oppure, avrebbe potuto richiedere l'intervento di un istruttore o addirittura dichiarare la resa. Se c'era un cosa che aveva intuito delle tacite regole del gioco era che non c'erano regole, eccetto questa: il combattimento era omnia contra omnia, ma le coppie dovevano rimanere unite.

Si chiese se non fosse meglio dichiarare la sconfitta subito, rinunciare al combattimento e dare forfait. Ma non era nella sua natura. Per quanto non capisse lo scopo del gioco, sapeva che si trattava di una battaglia e la sopravvivenza era quantomeno da contemplare. E poi, non voleva mettere a rischio la propria vendetta ottenendo un punteggio inclassificabile, che avrebbe potuto valergli l'esclusione dalla battaglia vera.

Alla fine, decise che era ora di fare un'eccezione alla regola sovrana del silenzio, data quella circostanza tanto particolare. Così, chiese: «Hai intenzione di fare la tua parte?».

Non ottenne alcun segno di vita. Aggiunse: «Ti rendi conto, vero, che il tuo comportamento è controproducente nei tuoi stessi confronti? Ogni nostro progresso o fallimento viene registrato. Alla fine del percorso, ci verrà assegnato un punteggio di coppia, dal quale dipenderà il nostro ruolo attivo o passivo nella battaglia. Vuoi esserne tagliata fuori? Io non credo».

Yara lo osservò per qualche istante, prese un gran respiro come se stesse facendo un enorme sforzo di sopportazione, poi sbuffò, richiuse gli occhi e, rimettendosi comoda nella capsula, con calma piatta, annunciò: «Non c'è nessuna coppia, qui».

«Non è così che la penserà la commissione» rispose Error.

«Abbiamo già perso, dal momento che ci sei tu».

Come darle torto? Neppure lui aveva alcuna idea di quale potesse essere il proprio apporto in quella prova, che dopotutto era pensata per telepati in grado di costruire una salda simbiosi mentale con il partner.

Ma Xenofon doveva averci pensato. E, forse, la commissione avrebbe fornito loro gli strumenti per combattere alla pari con gli altri contendenti, compensando il loro svantaggio, determinato dal suo insormontabile deficit biologico.

Evitò quindi di risponderle, senza aver prima trovato una soluzione per l'ostacolo che lui stesso rappresentava per lei.

Si diresse verso lo schermo e, non appena lo ebbe sfiorato con un dito, quest'ultimo si attivò. Una dicitura comparve sull'interfaccia: «Inserite i vostri nomi, prego».

Error seguì le istruzioni, inserendo sia il proprio che quello di Yara, e ben presto i caratteri sullo schermo mutarono, formulando una richiesta che spiazzò totalmente l'incolore: «Inserite il nome della vostra squadra».

Si rese conto che la loro squadra non aveva alcun nome, né mai ne avrebbe avuto uno, se quello schermo invadente non li avesse forzati a una scelta. Scegliere un nome significava riconoscersi come squadra, dichiarare ufficialmente il proprio senso di appartenenza per essa. Ma, come aveva detto Yara, la loro non era una squadra. Non era altro che una convivenza forzata e apparentemente senza scopo.

Error cercò di aggirare la procedura, ma invano: era stata preimpostata e non prevedeva modifiche. Non c'era modo di procedere, senza uno stupido nome per la squadra.

Si girò quindi verso la sua partner, la quale richiuse all'istante l'occhio che aveva aperto per sbirciare le sue mosse.

«Vuoi che inserisco il nome della tua vecchia squadra, nel caso ti restituissero il partner precedente?» le chiese Error, cortesemente.

Lei non rispose, strinse le mascelle con tale forza che si sarebbero potute spezzare.

«Ok» annuì l'incolore a sé stesso. «Afferrato il messaggio».

Lei gracchiò: «Io non ne voglio sapere nulla. Mettici quel che ti pare».

Error alzò le spalle, scocciato. Riuscì a mettere a tacere l'impulso di inserire un nome che facesse arrabbiare ancor di più Yara e optò per: «Squadra Delta».

Ma il calcolatore elettronico non glielo accettò: «Il nome della squadra deve contenere un elemento di riferimento a ciascuno dei due membri».

Error ci rifletté su e, pur consapevole che sia Yara, che Xenofon, che l'intera Accademia si sarebbero sentiti insultati da quel titolo, decise di inserire quello che più di ogni altro lo rappresentava, sia nell'umore, che nell'identità, che nel bagaglio delle sue esperienze.

Dopo pochi istanti, una voce elettronica esclamò a gran voce: «Benvenuta, squadra Nero-Delta».

Error si girò istintivamente verso la sua coinquilina, per vederne la reazione e non si perse il sussulto che la scosse per tutta la lunghezza del corpo, né la smorfia spontanea che comparve sul suo viso.

«Ottima scelta» disse lei, in tono pungente: «Il nome perfetto per una squadra perdente».

«Non saremmo costretti a perdere, se tu ti decidessi a fare qualcosa di utile».

Yara rise aspramente: «Si potrebbe dire lo stesso di te. Ah no, scusa: tu non puoi».

Error non riuscì a trattenersi dal risponderle a tono. Una punta di disperazione tinse il tono rabbioso delle sue parole: «Non è colpa mia, se sono un incolore! Almeno io ci sto mettendo tutta la mia buona volontà. Mentre tu, che hai il potenziale per essere a capo della nave ammiraglia... tu non ci provi neppure, e non fai altro che lamentarti! Quello dei due che non sta dando il massimo non sono di certo io».

Yara sgranò gli occhi: sembrava sorpresa dal suo tono di sfida, offesa dalle sue parole e agitata dalla intima consapevolezza che erano vere. Si tirò un po' su e, scossa dalla sua apatia, esclamò: «Tu non ti rendi conto. Noi non piloteremo un'astronave come nei tuoi stupidi film, noi piloteremo un alcan!».

Error la guardò sorpreso, senza capire.

Lei si agitò ancora di più e, gesticolando agitata, aggiunse: «E tu non sai neppure di cosa parlo, vero?».

L'incolore fu costretto ad ammettere la propria ignoranza.

«Gli alcan, stupido corvo, sono enormi creature spaziali. Creature, mi sono spiegata? Non pezzi di metallo. Non c'è altro modo di pilotarle, se non con la simbiosi. Occorrono almeno due cervelli umani per pilotare un singolo alcan. Un solo cervello sarebbe troppo debole: verrebbe spappolato».

Error impiegò parecchio, per capire quelle parole. E ancora di più per metabolizzarle.

«Piloteremo un essere vivente?» mormorò, sconvolto.

«Tu?!» gridò lei, fuori di sé: «Tu non piloterai proprio un accidenti di niente! E neppure io, finché sarò nella tua stupida squadra Nero-Delta».

Error non trovò una risposta, era rimasto troppo spiazzato dalla scoperta appena fatta. L'idea di pilotare una creatura lo aveva gettato in uno stato di coscienza tormentato. Non sapeva neppure cosa gli desse più fastidio, se il fatto che lo trovava molto poco etico, o la mistificazione generale attorno a quella verità che i telepati sembravano voler mantenere segreta.

Ma infine si rese conto della cosa peggiore: ovvero, che ciò lo estrometteva definitivamente dai giochi.

Se era così che stavano le cose, Yara aveva ragione: lui era solo una palla al piede.

E, mentre faceva tali considerazioni, quest'ultima mormorò: «Quindi, lasciami in pace».

Improvvisamente, Error si sentiva d'accordo con lei. Sì. Era ora di lasciarla in pace. Era ora di uscire da lì, e non tornare mai più. Era ora di abbandonare quella stupida farsa.

Come aveva potuto fidarsi di Xenofon e di Vissarion? Loro non potevano promettergli la vendetta. Lo avevano voluto in quella scuola, a costo di ingannare lui e tutti gli altri, solo per tenerlo sotto controllo. Avevano paura che commettesse qualche stupidaggine. Volevano comprare il suo silenzio e la sua sottomissione. E lui si era fatto manipolare come un idiota. Finalmente se ne rendeva conto. Ma non aveva intenzione di sottostare a quella farsa un solo minuto di più.

Si diresse verso la portiera che chiudeva la cabina.

«Non puoi uscire». La voce di Yara lo costrinse a bloccarsi a metà del gesto di girare la maniglia.

«Maledizione, quanto sei ignorante» aggiunse lei, sospirando.

«In che senso, non posso uscire?».

«Siamo chiusi qui dentro fino alla fine della competizione».

Error annuì: «Grandioso».

Si sentiva come un topo in trappola e la cosa che lo faceva arrabbiare di più era che era stato proprio lui ad abboccare all'esca. Scagliò un calcio contro la porta per la rabbia e la vergogna.

Si sentiva lo sguardo di Yara addosso e la cosa non era d'aiuto.

Appoggiò la testa e le mani sulla porta, privo di energie. «Che idiota, sono stato» mormorò tra sé.

«Cominci a capire, eh?» osservò lei. «Ti hanno fatto delle promesse che non possono mantenere. Solo un disperato poteva abboccare. Il che significa che tu sei...».

«Disperato?» esclamò Error, con una risata isterica: «Ma davvero? E cosa te lo fa pensare?»

Yara tacque per qualche istante: «Non parlarmi con quel tono, corvo».

«Tranquilla, appena usciamo di qui, ti libererai di me una volta per tutte».

Contro ogni previsione, lei non parve minimamente colpita da quella prospettiva, quasi la cosa la lasciasse indifferente. Dopo parecchi minuti, tuttavia, si alzò e andò verso lo schermo. Premette un punto specifico, abilitando una nuova interfaccia, che a Error parve incomprensibile. L'incolore non riuscì a seguire le sue mosse veloci lungo i pulsanti, ma ben presto comprese il loro scopo: un allarme iniziò a rimbombargli nei timpani, mentre una voce li informava a intermittenza che era stata rilevata una pericolosa avaria nel sistema e che era stata abilitata la procedura d'emergenza. Al termine del conto alla rovescia, la porta si sarebbe aperta per farli uscire.

Error non attese un istante di più del necessario, per scaraventarsi fuori e cercare Xenofon.

Lo trovò che veniva loro incontro per informarsi sull'avaria. Dall'espressione ansiosa, si poteva intuire che si era preoccupato sul serio per la loro incolumità. Nel vederli uscire sani e salvi dalla cabina e nel non vederla esplodere o andare in fumo davanti ai propri occhi, l'istruttore non ebbe difficoltà a tirare le proprie conclusioni. Il suo volto passò dall'ansia alla rabbia.

«Complimenti a entrambi. Vi siete fatti espellere dalla prova più importante dell'intero percorso di coppia».

«No» rispose Error: «Sto per farmi espellere dall'intera accademia».

Xenofon mutò espressione. Invece di rispondergli, si rivolse a Yara: «Signorina Delta, si ritiri nella sua stanza privata e rimanga in attesa di una mia convocazione».

Appena furono rimasti soli, Error aggredì Xenofon come non aveva mai fatto prima: «Signore, non ha fatto altro che darmi false speranze! Mi era rimasto solo lei di cui fidarmi, e mi ha ingannato. Perché?!».

«Ma di che diavolo stai parlando, Zakary?!».

O era molto bravo a recitare, o Xenofon non ne aveva davvero idea.

«Degli alcan!» gridò Error, fuori di sé.

«Ah» mormorò l'istruttore, in un lampo di comprensione: «Capisco».

«Perché non me lo ha detto, che io non posso pilotare alcuna astronave? Perché mi ha fatto credere che mi sarei vendicato, se sapeva che non è possibile?».

Solo i piloti potevano raggiungere e combattere Sakryvar: non solo non gli sarebbe stato concesso di salire come passeggero, tanto più che era un incolore e non avrebbero mai fatto alcuna eccezione per lui, ma, per di più, anche se avesse potuto salire su un'astronave, non avrebbe potuto far niente: i comandi erano tutti in mano ai due copiloti. Se non poteva pilotare, era inservibile. Fino a quel momento, si era convinto che una cabina di pilotaggio non potesse essere così diversa da quella di un qualsiasi altro mezzo di trasporto: in fondo, il principio era lo stesso. E, di conseguenza, non aveva mai compreso la vera ragione per cui fosse necessario essere in due, invece che in uno, né tantomeno perché fosse obbligatorio essere telepati. Ora che lo capiva, sapeva di non aver alcuna possibilità. Si sentiva raggirato come uno sciocco.

Tuttavia, l'istruttore non ebbe la reazione prevista. Con espressione seria oltre ogni modo, Xenofon tirò fuori un plico di fogli dalla propria valigetta e disse: «Avevo previsto la tua reazione. Ecco, perché ho atteso tanto prima di rivelarti questa verità. Ed ecco perché mi porto sempre dietro questo». Gli porse un lettore di documenti elettronici.

Il ragazzo scosse la testa, ostinato: «E cosa vuole che me ne faccia?». Non riusciva a comprendere come dei documenti qualsiasi potessero rendergli possibile l'impossibile.

«Voglio che tu li legga».

Li prese tra le mani, ma, con gli occhi annebbiati dalla rabbia, impiegò più tempo del necessario, per decifrarli. Quando finalmente ci riuscì, comprese che essi cambiavano ogni cosa.

Con una nuova consapevolezza nel cuore, l'incolore mormorò: «Sono l'unica persona sulla faccia di entrambi i pianeti ad essere immune al controllo mentale di Sakryvar? Ne siete assolutamente certi?».

«Abbiamo fatto tutti i test possibili. E sì, ormai possiamo stabilirlo con un margine di errore dello 0,01 per cento. Capisci, perché non puoi abbandonare? Tu sei un elemento troppo prezioso in questa battaglia. Senza di te, non abbiamo speranza di vittoria. Forse non sarai un pilota, ma di certo puoi fare la tua parte».

Error non sapeva se abbandonarsi alla gioia o alla paura, per quella scoperta. La prospettiva che Sakryvar potesse controllare le menti di tutti, tranne che la sua, era a dir poco spaventosa. Ma, per la prima volta dall'inizio di quella storia, si sentiva effettivamente utile. Non era più impotente, non era più una palla al piede: era un asso nella manica.

«Sapevo di essere immune al suo controllo, ma non credevo di essere l'unico... Perché non avete reso pubblico questo studio?» chiese, dopo qualche istante. Sperava di poter far cambiare idea a Yara sul proprio ruolo in quella guerra, così che lei potesse accettarlo.

«Semineremmo il panico generale» rispose Xenofon. «Anzi, Zakary, tu devi promettermi che non ne farai parola con nessuno, neppure con la signorina Delta: quest'informazione è strettamente confidenziale. Promettimelo».

Mentre rientrava nella propria stanza, dandosi dello stupido per aver promesso di tacere quell'unica informazione che avrebbe modificato la propria immagine sociale agli occhi dell'intero popolo telepate, Error non riuscì a evitarlo: si immaginò la reazione di Yara che gli gridava contro, come sapeva fare così bene. Già la vedeva, mentre gli lanciava addosso tutto il lanciabile, urlando a squarciagola: «Cosa ci fai ancora qui, stupido corvo?! Credevo di essermi finalmente liberata di te!».

Ma le sue previsioni si rivelarono rosee, al confronto di quel che accadde davvero. Yara non era solo furiosa, ma anche disperata. Alla sua sola vista, si fece venire una crisi di pianto che ferì Error più ancora delle urla e degli insulti. Non ebbe neppure modo di cercare una spiegazione o una giustificazione qualsiasi, perché lei non lo lasciò parlare e se ne andò a letto ancora piangendo.

Anche Error si mise a letto, ma non riuscì a farsi venire sonno: come se non avesse già toccato il fondo con quella pessima giornata, il suo stomaco si ricordò improvvisamente di non aver visto neanche l'ombra di una briciola, ed era troppo tardi per sperare che la mensa aprisse le porte. Così fu costretto a rimanere sveglio l'intera notte, tra l'agitazione del cuore e i brontolii dello stomaco.

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