capitolo 7
Erano ormai passati tre mesi dall'incidente. Le persone erano convinte cheio fossi cambiata con il tempo, ma era solo apparenza. Dentro non erocambiata di una virgola. Per me tutto era come prima, e tutto questoera solo una finta. "Quella" era solo una delle tante facce.
Mentre camminavo ricordavo ancora cos'era successo al mio risveglio. Medicie infermieri da tutte le parti, e io stavo lì, ferma perchéincapace di muovermi, a guardare come dall'esterno, ciò che inrealtà accadeva a me. Persone che mi urlavano contro, mi chiedevanocose e io che semplicemente lì, a piangere e a osservare un punto imprecisato della stanza. Sentivo le braccia tremolanti di Sharon chevenivano allontanate da me con la forza.
Miportarono in un'altra camera dove due dottori,o almeno pensai che lofossero, tagliarono la camicia di forza e la gettarono via. Quando idue signori uscirono entrò una donna, una sola e pensai vagamenteche potesse essere la stessa donna del mio primo risveglio. Midisprezzai da sola al ricordo e nuove lacrime mi assalirono.Seguirono le visite mediche, controlli, analisi, trattamenti e sedutepsichiatriche, il tutto non durò più di tre ore. Dopodiché ci fula cena e poi il coprifuoco.
Ormaimio padre e Sharon se n'erano andati da un pezzo e io ero rimastasola coi miei pensieri. Persino la mia camera era vuota, impersonale,solo un letto, un piccolo comodino e un bagno dalle scarse normeigieniche erano presenti. Erano solo le nove, ma l'ospedale aveva giàspento le luci e per tutto l'edificio non si sentiva volare unamosca. Solo qualche passo ogni tanto.
Nonostantesapessi che il mio orgoglio ormai era ben finito, non mi andava diandare a dormire così presto come i vecchietti. Insomma ero giovane,pazza ma pur sempre giovane!
Sapevoche in qualche modo dovevo risolvere da sola tutti i problemi e tuttele ossessioni che mi aleggiavano continuamente in un angolino dellatesta, ma per qualche strano motivo non volevo. Sapevo che non cel'avrei fatta. Sapevo che probabilmente se avessi permesso di nuovo aquell'oscurità di invadermi non sarei stata più al sicuro, nemmenoda me stessa. Per questo preferii così, tenere almeno per il momentoi miei segreti sigillati, nascosti da qualche parte nel miosubconscio.
Presiun libro che trovai in giro per caso e incominciai a leggere. Entrarein un mondo finto è l'unico modo per scappare dalla realtà. Comedisse un famoso scrittore "Molti dicono che la lettura è un mezzoche ci permette di scappare dalla realtà, una mera illusione, iodico che questa illusione è più reale e viva di qualsiasi realtà."
Ilgiorno dopo fu una giornata abbastanza straziante. Una colazione dafar pena e poi due ore di interrogatorio. Continuavano a pormidomande a cui neanche io sapevo dare risposta, ma non lo capivano.
Eranole due di pomeriggio quando sentii squillare il telefono, cheovviamente si trovava dall'altra parte della casa. Mi misi a correrelungo il corridoio rispondendo infine al cellulare rischiando nelfrattempo di ruzzolare per terra. Era una mia compagna di lezioni.Disse di volermi vedere e parlare un po'. Ero felicissima disentirla, non ci eravamo sentite per tanto tempo dopo quell'"incidente". Fissammo l'appuntamento dopo una mezzora nel parcosotto il mio nuovo appartamento.
Iniziaia prepararmi e mi guardai allo specchio, ciò che vidi fu un'immaginetriste di me stessa. Anche se quella figura stava sorridendo i suoiocchi erano tristi. Un dolore nascosto scorreva nelle sue pupille. Ilpassato non poteva essere cancellato dalla vita di una persona, masolo far parte di essa. Il mio passato quindi era una parte di me,dovevo solo accettarlo e conviverci insieme.
Spessole persone erano propense a scoprire i misteri che si che si celavanodietro a degli avvenimenti. La curiosità li spingeva a fare ricerchesul perché delle cose. Erano sono degli idioti. Perché dietroquella risposta si sarebbe sempre stata un'altra domanda e così viaper sempre, senza mai trovare la risposta vera, la verità assoluta.Io ero più semplice. Indifferente a tutto quello che mi stavaintorno. O almeno cercavo di esserlo. Farsi trasportare da un fiumedi sentimenti e di emozioni per arrivare in un mare di disperazioneera una perdita di tempo. Se ti lasciavi trasportare eri finito.Perso nell'incoscienza, non riconosceresti più il il volere dal nonvolere, lo sbagliato dal giusto. Fino ad arrivare a non saper piùriconoscere nemmeno te stesso, cadendo così inesorabilmente nellapazzia. Alla fine affondi.
Misedetti su una panchina del parco aspettando il momento in cuisarebbe arrivata Eveline. Di sicuro voleva sapere tutto quello cheera successo, soprattutto il perché della mia misteriosa sparizionea scuola. La versione ufficiale dei fatti era stata per graviproblemi di salute, che poi si avvicinava abbastanza alla realtà.Gliela avrei raccontata anche se solo in parte. Faceva abbastanzafreddo a stare lì immobile, in fondo eravamo in pieno inverno. Ifiocchi ancora cadevano inarrestabili dai giorni precedenti e la nevecominciava ad attecchire al suolo e agli alberi ormai spogli.Nonostante la neve non fosse abbondante c'erano già bambini intentia giocare con essa. Alcuni giocavano a palle di neve, altri tentavanodi fare una forma d'angelo per terra. Era piacevole stare lì adosservarli. Si divertivano beati, a pochi metri da me eppure cosìlontani, come se non fossero di questo mondo, o forse l'estranea inquella scena ero io. Era come se ci fosse una barriera attorno a me,la quale mi proteggeva ma al contempo mi isolava dagli altri. Unqualcosa di irraggiungibile, intoccabile.
Sentiidei passi soffici alla mia sinistra e trattenni il respiro. Gli occhimi si riempirono quasi di lacrime quando mi abbracciai con Eveline.Guardandoci ci mettemmo a ridere come delle sceme e senza un motivoben preciso. Ero felice, in quel momento non ero sola all'internodella barriera. C'era qualcuno che mi stringeva la mano.
Conmia grande sorpresa non fece domande su quel che mi era accaduto.Parlava e parlava, mi raccontò tutto quello che era successo incittà dalla mia assenza, perfino dettagli insignificanti, ma io neero affascinata. Non sembrava minimamente intenzionata a chiedermiqualcosa e di questo gliene fui grata. Ero sinceramente stupita dallaquantità di informazioni che stavo assorbendo in così pochi minuti,dai più strambi pettegolezzi ai più curiosi avvenimenti, dalfornaio matto vicino alla scuola agli ultimi gossip in circolazionein classe. Eveline mi guardava con occhi luccicanti come se volesseda tempo fare una confidenza del genere. Forse lei era stata l'unicavera amica che mi ero fatta in quella scuola.
Aun certo punto del racconto si fermò e la sua espressione si fecelievemente cupa. Iniziai a preoccuparmi.
<<Ehi, ehi che succede? >>
<<Sai.. da quando te ne sei andata mi sono sentita un po' sola. >>ammise imbarazzata. Io sorrisi gentilmente.
<<Non hai idea di quanto TU mi sia mancata. >> posaidelicatamente una mano su suo braccio.
<<Sono contentissima che tu sia venuta qui. >>
<<Anch'io lo sono. Sono cambiate molte cose dalla tua partenza. Aproposito, mi sono dimenticata di dirti una cosa. Sai il nuovoprofessore? Quello giovane che era arrivato da poco, come si
chiama...>>
Conla mano si grattò la testa in cerca di una risposta, a volteappariva davvero buffa. Ma a parte quello lei stava certamenteparlando di... un tremito mi passò veloce lungo la spina dorsale.
<<Ah si, il professor Iuga, sai no quello carino... comunque si èlicenziato purtroppo. >>
<<Licenziato?? >>
Erosinceramente stupita da quello che aveva appena detto, a parte ilfatto che negli ultimi tre mesi avevo cercato in tutti i modi di nonpensare a Micael e adesso arriva lei e mi ributta tutto in faccia, mail fatto era che non capivo le sue azioni. Ero curiosa di scoprirlecome se ne fossi ancora in qualche modo attratta. Tuttavia non volevodarlo a vedere e infatti me ne stetti buona ad aspettare che Eveandasse avanti, cercando di mantenere la calma, nonostante il miocuore battesse decisamente troppo forte.
<<Si cioè suppongo si sia licenziato. A noi hanno detto soltanto che acausa di alcuni problemi personali aveva dovuto abbandonare illavoro. Ma non si sa il vero motivo. Il fatto strano è che se ne siaandato pochi giorni dopo la tua scomparsa, ma alla fine tu non nepotevi sapere nulla no? >>
<<Si, infatti non lo sapevo. >>
Evelinesembrava normale, come se il fatto che Micael si fosse licenziato nonl'avesse toccata. Senza rendermene conto iniziai a tremare, aintermittenza, brividi che andavano e venivano, ed ero sicurissimache non fossero per la neve. Lui si era licenziato poco dopo la miacaduta mentale. Se n'era andato, ma lo aveva fatto perché io avevocambiato scuola? Mi sembrò assurdo, in fondo fu lui stesso amandarmi via quel giorno. Mi ricordai la scena come se fosse successoieri e non mesi fa. Lui che con sguardo altezzoso ma in tono quasigentile mi disse "vattene". Io lì per terra, seduta ma quasiagonizzante, pietrificata dalla paura e da ciò che era appenaaccaduto.
Qualera realmente il suo piano? E cosa centravo io in tutto questo? Ilmio flashback improvviso mi fece ricordare di Liz. Che fine avevafatto dopo che me n'ero andata? Cercai di interrogare Eve prendendolaalla larga.
<<Gli altri compagni di corso come stanno? Liz è sempre la solitaochetta? >> Eveline alzò un sopracciglio.
<<Stai bene Kal? >>
<<Eh? Si, certo che sto bene, ma perché me lo chiedi? >>
<<Stai tremando, da capo a piedi. >>
Miguardai e vidi che il mio corpo era quasi in delirio, tremavotantissimo. Mi sentivo agitata. Perché reagivo così? Mi strinsi lebraccia cercando di allontanare quel senso di dolore e paura che mistava attanagliando. Eve posò una mano sulla mia, mi sforzai disorridere e dopo un po' smisi di tremare.
<<Sto bene tranquilla. >> Cercai di rassicurarla, ma lei sembròcomunque triste, probabilmente sapeva qualcosa su ciò che mi erasuccesso. Le voci girano in fretta.
<<Liz? Non saprei, i primi giorni in cui non c'eri sembrava sempre inansia, agitata per qualsiasi cosa. Era molto strana. Tuttavia orasembra essersi calmata. >>
Dopoaver chiacchierato un altro po' tornai a casa, ma non prima dipassare da Starbuck's a prendermi qualcosa di caldo da bere, miavrebbe aiutato a reggere il freddo e a conciliare il sonno.
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