81. A ME PIACE SCRIVERE
L'errore di un uomo non diventa la sua legge, né lo obbliga a persistere in esso.
Thomas Hobbes, Leviathan
Edmund prese il microfono e si preparò al suo discorso. Un discorso che, lo sapeva, avrebbe scioccato tutti i presenti, o almeno quelli che lo conoscevano di persona.
«'Giorno a tutti».
«Salta i saluti, ragazzo» gli disse la preside: «Vai dritto al punto, per amor del cielo!».
Edmund annuì e riprese: «Ecco, quello che ho da dire è questo. Molti di voi, non ho difficoltà a leggerlo nei vostri occhi, non riescono a credere a quello che vedono in questo momento. Vi state chiedendo come ha potuto Edmund Lloyd, quello che nei temi prende 4 e mezzo se gli va bene, ottenere il primo premio di un concorso come questo. É così? Mi sto sbagliando? Dalle vostre espressioni, direi che non sto sbagliando affatto. Ebbene, ragazzi, ve l'assicuro, non ho rubato la gloria a nessuno. Non mi sono neppure fatto scrivere il tema da qualcun altro, anche perché non sarebbe stato facile neppure per uno come me ingannare la sorveglianza di questo concorso... Purtroppo mi sa che su questo dovrete credermi sulla parola. Beh, insomma, l'ho scritto io. Ora che ho messo in chiaro questo punto, passiamo al secondo e più importante».
Fece una pausa, guardandosi attorno.
«All'inizio, non volevo partecipare. Diciamo, che sono stato persuaso... Come molti di voi sanno, rischiavo la bocciatura per la mia condotta non proprio irreprensibile e per la mia media insufficiente nella maggior parte delle materie umanistiche. La preside voleva darmi la possibilità di recuperare: partecipando a questo concorso, io avrei dimostrato il mio impegno, la mia buona volontà ed i miei progressi, e lei avrebbe messo una buona parola per me durante il consiglio finale. Ora voi penserete che, per la paura di essere bocciato, io mi sia messo a studiare e alla fine sia arrivato a progressi che non potevo neppure immaginarmi. Purtroppo, non è così. In realtà, in tutti questi anni, per tutto il liceo, io ho solamente finto di non essere in grado di scrivere un tema».
Edmund fece una pausa.
Ma sì. Che importava a loro, chi o cosa fosse Edmund Lloyd?
Presto se ne sarebbero dimenticati. Non sarebbe stato che un ricordo confuso nelle loro menti. Un giorno, qualcuno gli aveva detto: «le figuracce se le ricorda solo chi le ha fatte...».
Edmund riprese: «A me piace scrivere. Non c'è niente di umiliante in questo, no? Tutti vogliono essere bravi in qualcosa, giusto? Probabilmente, tutti voi sareste felici adesso di aver vinto questo concorso al posto mio, se non altro per i soldi in palio. E anch'io, lo ammetto, ne sono felice. Allora voi vi chiederete perché ho fatto finta, per tutti questi anni, di essere un cane in Italiano? L'ho fatto, perché faceva parte del ruolo che ho recitato con tutti voi per tutti questi anni. L'ho fatto, perché la mia reputazione esigeva che io fossi uno sbruffone ed un esibizionista, uno che preferisce prendere in giro la scuola ed i professori, invece che attribuirgli il valore che si meritano. Passo il mio tempo libero a leggere libri. Non mi piace buttare il mio tempo nel vostro genere di divertimenti: ad esempio, detesto le discoteche. Le disprezzo, e le detesto. Non mi piace fumare, e fortunatamente sono riuscito a trovare una scusa per evitarlo. Ma adesso non voglio parlare di questo. Quello che voglio dirvi è solamente: mi dispiace. Mi dispiace, per come vi ho trattati. E, ancor di più, mi dispiace per come vi ho considerati fino a questo momento. Se qualcuno di voi si è sentito usato, tradito, umiliato o offeso... Io voglio chiedergli scusa. Non farò i nomi: coloro a cui sono rivolte queste parole, sanno a cosa alludo. Ho finto di essere qualcuno che in realtà non sono, per essere accettato da voi, per confondermi con la massa conformista dei miei coetanei. Solo ora mi rendo conto che in questo modo mi sono comportato da egoista, perché ho ferito persone che non se l'aspettavano. E mi rendo conto anche di un'altra cosa. E cioè che io non voglio più fingere. Non voglio più fingere di essere come voi. Mi va bene essere etichettato come un nerd, uno sfigato, un secchione. Mi va bene. Anzi, lo desidero. Perché è questo, che sono. E poi questi sono solo nomi, etichette inventate dalla massa per discriminare, insultare, deridere la gente che essa non può comprendere. Non sono affatto contento che esistano delle categorie fisse, perché mi impediscono di avere amici in entrambe. E questa è una grande perdita, di cui spero che vi accorgerete anche voi prima che sia tardi. Vorrei che voi capiste che non ne esiste la necessità: io credo di essere la prova vivente che tutti possono essere amici di tutti, anche se i gusti e gli interessi non coincidono. Anche se uno ama leggere, e l'altro preferisce spendere il suo tempo a fumare con gli amici... E ora voglio dire un'ultima cosa. Poi vi prometto che scendo da questo palco e non mi faccio più rivedere. Membri del Dragonfly, se voi non ci foste stati, sicuramente avrei finito per diventare pazzo! Con voi, io sono sempre stato me stesso, perché voi me ne avete dato la possibilità. Quindi, grazie. E grazie a te, Tommy. Tu per me non hai mai smesso di essere un fratello, neppure quando non ci scambiavamo una sola parola, e ancora di meno quando non facevamo che insultarci a vicenda. Ma c'è un'altra persona, che vorrei ringraziare. Ho chiesto ad un'amica di non farla fuggire, e spero che sia ancora in questa sala. Per te, Spec, ho un solo messaggio. Se solo tu potessi farti vedere ...così posso dirtelo guardandoti negli occhi».
Edmund attese per qualche secondo.
Non comparve nessuno, così disse: «Non importa. Se non sei troppo arrabbiata con me e se non te ne sei già andata, il mio messaggio ti arriverà lo stesso in un modo o nell'altro. Spero che tu sia ancora qui, anche se io non ti vedo».
Aspettò ancora qualche secondo, poi disse: «Poco fa mi è sembrato...», prese un respiro e si fece forza: «Prima che fossimo interrotti dall'appello della prof, prima che io salissi su questo palco, mi è parso che tu mi abbia detto una cosa. Una cosa che io desidero con tutto me stesso, ma che temo di aver solamente sognato. E, quindi, ti chiedo: ora che sai chi sono in realtà, credi che potrai mai cambiare idea? Se vuoi rispondere alla mia domanda... io, ecco, ti aspetto fuori, appena potrò scendere di qui...».
La preside attese qualche secondo, prima di interrompere Edmund, per chiedergli di leggere il tema, come voleva la prassi.
Edmund la guardò tranquillo, annuì, come se gli avesse chiesto se gli andava un bicchier d'acqua, e poi lesse il tema ad alta voce, senza alcun imbarazzo. Ormai, cosa aveva da perdere?
E poi, provava uno strano senso di liberazione, e si sentiva più leggero: la maschera era pesante, e gli impediva di respirare a pieni polmoni. Dichiarare di fronte all'intera scuola - e non solo - la sua vera identità lo fece sentire finalmente padrone di sé come non si era mai sentito. Ora era libero, e, soprattutto, finalmente sapeva chi era. Aveva riacquistato quella parte di sé che aveva allontanato e nascosto. Si sentiva come si sarebbe sentito un innocente di fronte ad un tribunale: qualsiasi sarebbe stato il verdetto, lui sapeva chi era e qual era la verità.
Lesse il tema con tono fermo e calmo: non era un tema come un altro, ma una dichiarazione. Significava: «Io sono così e così voglio restare, qualsiasi cosa voi possiate dire sull'argomento».
«Conformismo. Questa parola ha segnato cinque anni della mia vita in un modo che non avrei mai sospettato. Per molte persone, non è che una parola fra tante, che si nasconde fra le pagine ingiallite di un vocabolario. Per me, è la sintesi in undici lettere di tutto quello che sono e sono stato in questi anni. Il conformismo è un leviatano, che ingloba ogni individuo che gli si avvicini troppo. Il leviatano è un gigantesco mostro marino che, nell'immaginario collettivo, ha assunto un aspetto terrificante, spesso assimilabile ad un drago. Viscido forse, e disgustoso senza dubbio. Può darsi persino che sia circondato da un olezzo di pesce che tiene la gente a distanza. A me, non mi ha tenuto a distanza. Per me, non aveva affatto l'aspetto di un mostro: non era né angosciante, né spaventoso. Era affascinante, pieno di carisma, luminoso come un futuro roseo. Ho creduto che, abbracciandolo - abbracciando il leviatano - avrei smesso di vergognarmi di me stesso e della derisione di cui ero oggetto fra i miei coetanei. Ho creduto che, una volta che fossi stato perfettamente inglobato nel gregge di pecore bianche che compone il mio leviatano, avrei potuto essere finalmente fiero di me. Non lo sono. Non sono fiero di me. Ma, per capirlo, ho dovuto perdere tutto ciò che mi era più caro. Ho perso la mia individualità, prima di tutto. Poi, ho perso un amico a cui tenevo come ad un fratello. Ho perso la stima di mio padre. E, infine, ho perso Lei. Alcune di queste cose, le ho riconquistate. Ma molte non le riconquisterò mai. E tutto per il carisma del leviatano. Un carisma fantomatico, che non consiste in nulla se non nell'ostentare pomposamente una falsa appartenenza ad un gruppo, che, invece di ciò che ci aveva promesso, si nutre della nostra personalità, ingoiandola, divorandola e digerendola, fino a renderci ancora più deboli e fragili di quando vi siamo entrati. Quella che sto per raccontarvi è la storia di come una piccola e fragile libellula si sia ribellata ad un mostro immenso e assai più potente di lei e di come, nonostante tutti i suoi tentativi per sopravvivere alla morsa del drago, alla fine della storia, sia finita, come tutte le creature che l'hanno preceduta, strangolata nelle sue fauci. Ma anche la libellula nel suo piccolo è un drago: "dragonfly", nella mia madrelingua. Due draghi, quindi, che, assai differenti fra loro per forza e dimensioni, incrociano le spade in un duello impari, dove la vittoria, sin dal principio, è ben chiusa nelle grinfie del più forte fra i due contendenti. E, se non si può sperare che la libellula sfugga all'orribile fine di essere divorata dal leviatano, si può almeno sperare che costituisca per il mostro un pasto indigesto, che gli faccia perdere l'appetito e lo costringa, a lungo andare, a morire di fame».
Edmund fece un pausa, prendendo un respiro e non osò guardarsi attorno. Quindi, riprese la lettura e non si fermò più finché non fu arrivato all'ultimo punto a capo. Quando ebbe finito di leggere, consegnò il microfono ad uno sconcertato commissario, annuì ad una compiaciuta prof Roncalli, e si volse infine verso un disorientatissimo Andrew Lloyd.
«Mi dispiace, pa'» disse, guardandolo direttamente negli occhi, sperando che quel "mi dispiace" avesse per suo padre lo stesso significato che aveva per lui. Non aspettò che rispondesse e scese dal palco, facendosi largo tra la folla, sotto gli sguardi confusi dei suoi compagni di scuola.
Ma, appena fu sceso, Windy lo fermò per un braccio: «Ed!».
Edmund la guardò sorpreso. Windy non fece in tempo ad aprire bocca, che Edmund aveva già capito cosa voleva dire: Diana non era rimasta fino alla fine del discorso.
«Dov'è?!» esclamò.
«Non lo so... Mi sono girata, e non l'ho più vista... L'ho cercata ovunque, Ed, mi dispiace!».
Edmund lanciò a Windy uno sguardo di sconforto misto a rimprovero. «Ti avevo chiesto...!».
«Lo so. Mi dispiace!».
«E quando se ne è andata?».
Windy non rispose.
«Ha sentito almeno una parola di quello che ho detto, o no?!» esclamò Edmund, risentito contro un immaginario ologramma di Diana che gli ballava di fronte agli occhi.
Windy scosse la testa. «Non ne sono sicura, Ed, ma credo se ne sia andata troppo presto».
Edmund scosse la testa. «Bene. Non m'importa. Sono stanco di inseguirla ovunque. Devo essermi sbagliato: d'altronde, è una mia specialità. Se avesse provato qualcosa per me (anche solamente un po' di gratitudine!), non se ne sarebbe andata prima di sentire ciò che avevo da dire!».
Si liberò della stretta di Windy con una debole scrollata di spalle, e, svuotato di ogni energia, si diresse verso l'uscita, pieno di rabbia e di offesa.
Questa volta, era davvero finita. Non le avrebbe concesso una terza possibilità di rifiutarlo. Non l'avrebbe sopportato.
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