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61. COME TUTTI I FOGLI BIANCHI

L'entusiastica Fantasia ha sempre marinato la scuola.

William Hazlitt

«Ragazzi, il tempo sta per scadere. Avete avuto tutta la mattina, ormai dovreste aver finito. Chi non avrà consegnato il suo lavoro entro mezz'ora verrà squalificato dal concorso».

Cosa?! Che cosa ha detto?!
Alzo di scatto gli occhi sulla donna del megafono, lanciandole un'espressione eloquente per implorarla di ripetere l'annuncio. Spero con tutto il cuore di aver sentito male, ma la donna del megafono non risponde alle mie tacite domande: anzi, mi ignora con severa alterigia, girando lo sguardo dalla parte opposta.

Allora mi volto sconcertata verso il ragazzo alla mia sinistra: si sta mordendo un labbro e sta lottando contro un pennarello che non colora più. Ha fretta, molta fretta.
Anche la ragazza alla mia destra sembra aver ingranato la quarta; per non parlare della bionda di fronte a me, che per poco non si è rovesciata addosso l'acqua degli acquarelli con una manata: hanno tutti una gran fretta di terminare.

Allora è vero? Ho sentito bene? Sta per scadere il tempo? Maledizione, non mi ero accorta che fosse già così tardi...
La voce gracchiante del megafono mi ha svegliato da un sogno ad occhi aperti di cui non ho alcun ricordo. Dovevo essere in una fase REM piuttosto avanzata perché, per quanti sforzi io faccia, non riesco proprio a ricordare cosa stessi pensando. Ero totalmente immersa nelle mie riflessioni: mi succede spesso quando disegno. Però questa volta è anche peggio del solito.

Non ho il coraggio di abbassare gli occhi sul mio lavoro.
Sicuramente non l'ho finito. Sicuramente fa schifo. Sicuramente non può competere con quello del ragazzo col pennarello che non colora. Chiudo gli occhi. In questo momento potrei passare per l'icona dello Sconforto.
È strano, lo so, ma il fatto è che non mi ricordo cos'ho disegnato. Vuoto totale. Buio assoluto. Con le palpebre abbassate, mi sembra di avere calato una saracinesca sulla vetrina dei miei pensieri. Il nulla mi compare davanti. Il display fa partire il salvaschermo: la mia mente è andata in stop. Neppure una stella in questo tenebroso cielo. Più mi sforzo di chiamare a raccolta la mia memoria visiva e più mi convinco che debba essere andata in vacanza nel mar dei Caraibi. È possibile? Ehi, forse... Ora vedo qualcosa!

Un volto? Sì: un volto si affaccia alla mia mente: è in bianco e nero, soltanto abbozzato ed ha un'espressione intensa, malinconica e penetrante. Bei lineamenti, affascinanti, misteriosi. E familiari.
Oh. Mio. Dio.
Conosco quel volto!
Abbasso di scatto gli occhi sul disegno per scoprire che avevo ragione, e che ho davvero disegnato... Edmund Lloyd.

È davvero lui: non c'è alcun dubbio. Gli stessi occhi, lo stesso sguardo. All'improvviso sento un moto di nausea. Se è vero che ho disegnato Edmund Lloyd e che ero così concentrata da non percepire lo scorrere del tempo, allora vuol dire che non solo ho disegnato Edmund Lloyd, ma anche che stavo pensando a Edmund Lloyd. Come ho potuto?
Sì, capisco che lui rappresenti perfettamente il tema del concorso: il conformismo nelle scuole liceali d'Italia. Lui ne è l'esempio vivente più perfetto e completo che io conosca.
Anzi, è l'icona del conformismo: con quelle maglie rosa alla moda, con quei jeans strappati. Che schifo.
Sì...
Ma io non glieli ho disegnati, i jeans: ho disegnato soltanto il volto. Anzi, neppure il volto: soltanto l'espressione.
Mancano completamente il contorno del viso, i ricci neri, la fronte... Ci sono solo i tratti fondamentali e sono solamente schizzati, per cogliere meglio l'espressione.

Vergognandomi a morte con me stessa per la mia stupidità, metto "inavvertitamente" un braccio sopra al disegno a coprire il naso di Edmund e, se possibile, anche qualcos'altro.
Poi, mi guardo attorno per timore che qualcuno dei miei compagni di scuola che concorrono con me l'abbia riconosciuto nel ritratto che io ho disegnato per tutta la mattina.
Ma nessuno sta guardando il mio disegno. Sono tutti troppo concentrati sul proprio: non hanno tempo per investigare su quello che stanno facendo i loro vicini.
Tuttavia, non appena qualcuno dei nostri compagni di scuola vedrà il mio disegno, senza dubbio riconoscerà Lloyd. Non c'è proprio margine d'errore: è riconoscibilissimo. Mi è venuto bene, per una volta che doveva venire male.

Non oso pensare a cosa succederà quando verranno esposti i nostri lavori: si diffonderà la voce che io gli vado dietro.
Non posso permetterlo.
Che vergogna, maledizione.
E la cosa peggiore è che la prima con cui mi devo vergognare sono io. Ho le guance in fiamme, ovvero dell'esatto colore dei miei capelli. Beh, meglio. Forse, tutta rossa come sono, mi mimetizzo meglio con il murales dietro di me: una fenice infuocata che risorge dalle ceneri. Non posso consegnare il mio disegno.
Ecco qual è l'unica soluzione possibile a cui riesco a pensare: anche se non si riconoscesse il soggetto del ritratto, io me ne vergogno troppo per lasciare che qualcun altro lo veda. E meno che mai posso permettere a Edmund di vederlo!
Se solo ci penso...

Devo nasconderlo, distruggerlo, bruciarlo.
No, beh, forse posso evitare di bruciarlo, basta che nessun altro lo veda. Ma come lo nascondo?
Il formato è troppo grosso per infilarlo in una cartelletta o nello zaino. E se lo arrotolo e me lo porto a mano, la prof lo vedrà per forza... Forse penserà che sia una brutta copia, uno scarto. Ma, quando saprà che non ho consegnato il lavoro e che mi sono ritirata, mi farà fuori.

Devo per forza piegarlo, anche se, così facendo, lo rovinerò... Un po' mi dispiace, devo ammetterlo. In fondo, mi piace come è venuto. Cioè... non il soggetto - quello non mi piace! - però esteticamente è un bel disegno. Uno dei migliori che ho mai fatto.

Ma, in fondo, posso anche distruggerlo: non vale la pena di rischiare tanto per un vago ed egoistico senso di soddisfazione personale. Non sono mai stata gelosa dei prodotti della mia matita: li ho sempre regalati tutti. Quindi, non incomincerò proprio adesso. Anche perché è meglio cancellare ogni prova che mi ricordi questo episodio in futuro, altrimenti rimarrà uno di quei ricordi di fuoco che ti fanno bruciare le guance anche a novant'anni.

Lo piegherò e lo metterò in cartella. Questa è la giusta via di mezzo: non lo distruggo, ma non lo consegno neppure. Perfetto.
Del concorso non m'importa: lo facevo solo per la vaga possibilità di vincere qualche piccola borsa di studio, e per dar soddisfazione alla prof di Arte.

Ora devo solo escogitare un modo per non dare nell'occhio mentre piego il disegno e lo nascondo. E devo anche trovare il modo per ritirarmi dal concorso senza che la prof possa fare niente per impedirmelo.

«Cavalieri! Cosa diavolo stai facendo!?».

Grandioso. Non farò mai carriera nello spionaggio.
La voce della prof mi lascia a bocca aperta. Mi fermo all'improvviso, diventando immobile come una statua. La statua della Paura. Probabilmente, assomiglio molto ad un ladro colto con le mani nel sacco, con l'unica piccola differenza che io pagherei per avere uno di quei "calzini" che mi nascondono la faccia.
La mano destra mi è rimasta bloccata a mezz'aria nell'atto di piegare l'angolo superiore del foglio a nascondere l'occhio destro di Edmund.

«Scusi, prof?» dico, con l'aria più innocente che sia mai stata vista sulla faccia di una studentessa del liceo - che è tutto dire -.

«Diana, che diavolo stai facendo, si può sapere?» ringhia la prof fra i denti.

«Come prof? Non capisco... cosa dice? Sto per consegnare: ho quasi finito! Mi manca un minuto... Forse di più, ma nulla di cui preoccuparsi, glielo assicuro...» balbetto, fissando la prof con un sorriso sghembo, e nascondendo con un gomito il disegno. Poi, metto accidentalmente la mano sopra l'angolo di carta e lo schiaccio sempre più giù. Difficile che la prof sia riuscita a riconoscere Edmund, ora che l'ho fatto diventare un ciclope...

«Perché diamine stai piegando il foglio?! Gli hai fatto un'orecchia, santo cielo!».

«Come prof? Ah, questa?! Ma no, niente: è parte del mio progetto... Ecco... Vede, ora piego anche gli altri quattro angoli, così, verso il centro, a nascondere interamente il disegno. Così. Perfetto. Come se lo avessi messo in una scatola, capisce? Cioè, voglio dire, come se lo avessi nascosto... Coperto, insomma».

«Sì, questo lo vedo! Ma perché?! Perché stai piegando gli angoli?!».

«Beh, per... Per il conformismo, no? Perché, vede, il conformismo uccide l'individualità, non è così? Ecco, il volto che ho disegnato rappresenta l'individualità... Per questo non gli ho fatto i capelli, e il corpo e le orecchie, ecc... Per questo, l'ho solo abbozzato: per cogliere l'espressione! Perché l'espressione degli occhi è l'espressione della personalità di ciascuno di noi, ciò che ci rende diversi, giusto? Invece, se lo copro... Cioè, voglio dire, se copro il volto, l'espressione... Allora, uccido la personalità: la nascondo... Diventa bianco, inespressivo, vuoto, uguale ad ogni altro foglio bianco, senza espressione... Capisce? Ora è solo un foglio bianco. Come tutti i fogli bianchi. Ma, invece, dentro c'è un volto, un'espressione, un ragazzo che si nasconde dietro al volto bianco del conformismo per paura di non essere accettato, ma che in realtà... In realtà, è molto più di un volto bianco: è un'espressione. Capisce, prof? Il ragazzo è un'espressione!».

«Diamine, certo che no! Non ho capito un accidente! Ma sbrigati, santo cielo! Sta per scadere il tempo!».

Se ne vada! vorrei gridarle: non aspetto altro che scada il tempo!
Sono in panico. L'aggettivo "disperata" non rende affatto l'idea. Sono molto più che disperata: sono in piena crisi di panico.

La prof non si muove da qui: come un soldatino sull'attenti che fa da guardia secondo consegna. Mi tiene d'occhio, preoccupata che io non finisca in tempo il mio lavoro.

E ormai, io ho piegato ogni possibile angolo del foglio: ne ha solo quattro, accidenti alla geometria!
Non so cos'altro fare per guadagnare tempo. Se solo riuscissi a far passare quei pochi minuti che mancano prima della consegna, sarei finalmente squalificata.

Ma la prof mi continua a fissare, sconcertata per la mia lentezza ingiustificata.
Il cuore mi rimbalza nel petto, mentre mi alzo con la calma di una tartaruga. Poi smette del tutto di battere appena mi metto in moto con la velocità di un gambero.

«Avanti, avanti!» dice la prof.

Io avanzo lentamente, seguita dal mastino con gli occhiali a mezza luna.
Poi mi viene un'illuminazione. Giro sui tacchi e fingo di aver dimenticato una cosa importantissima.

«Mi serve un pennarello!» esclamo alla prof, senza preoccuparmi minimamente del mio tono di voce. Vista la fretta, la mia crisi di panico può essere giustificabile, no? Quello che agli altri sembrerà il terrore di essere squalificata, in realtà è il terrore di non esserlo. Quindi posso comportarmi da pazza isterica: nessuno penserà che lo stia facendo apposta per farmi squalificare, anche se il risultato sarà per forza quello, giusto?

«No, prof! Non posso consegnarlo! Manca una cosa fondamentale! Senza di quello, il mio lavoro non ha senso! Devo trovare un pennarello! Nero! No, non rosso! Nero!».

«Eccolo, te lo presto io».

E tu chi diavolo sei?! Com'è che quando serve non c'è mai nessuno che ti presti niente, e quando invece non serve tutto il mondo riscopre il significato della parola "generosità"?

«Grazie» abbaio al povero ragazzo che mi ha offerto il pennarello.
La prof e mezza dozzina di ragazzi che se ne stavano per andare prima della mia scenata isterica mi fissano con gli occhi sbarrati, curiosi di sapere a cosa mi serviva un maledettissimo pennarello nero. E anch'io sono curiosa di saperlo.

Conformismo... volto vuoto... bianco... individuo... personalità... massa... gregge... icona del gregge...

Un'emoticon!

Ecco a cosa mi serviva un pennarello nero! Per disegnare un'emoticon sui quattro angoli piegati del foglio che nascondono il vero volto di Edmund. L'emoticon è l'icona perfetta: semplice, pulita, facile, immediata. Rappresenta la faccia di tutti gli esseri umani di questo pianeta, e, quindi, di nessuno. Chiunque può essere un'emoticon. É l'icona della nuova era, l'era del cellulare, del computer, della televisione.

In fretta, sotto lo sguardo di tutti gli astanti sconcertati, disegno un'emoticon sorridente sul mio foglio spiegazzato. Due pallini per gli occhi e una mezzaluna per la bocca.

Sì, e poi?
Perché non potevo scegliere qualcosa di più complicato? Perché proprio la cosa più semplice e veloce che si possa mai disegnare? Perché non mi faccio furba, una volta tanto?

La prof mi sorride a trentadue denti: «Avanti, Diana, vai a consegnare il tuo capolavoro».

«Ma... non... non è già scaduto il tempo?».

«Oh, no, tranquilla. Mancano ancora dieci minuti!».

Dieci minuti!
Non ho più speranze. Devo consegnarlo per forza. Certo, non posso mettermi in ginocchio e implorare la prof che mi lasci gettare il mio lavoro nel cestino della spazzatura, no?
Cos'altro posso inventarmi? Cosa può succedere in dieci minuti? Inciampare e rompersi il naso, ricoprendo di sangue il disegno? Fare accidentalmente volare fuori dalla finestra aperta il mio lavoro? Dargli fuoco con un accendino rubato al ragazzo in crisi d'astinenza accanto alla porta?

Pensa, Diana, pensa!
Incitazione inutile. Ormai sono arrivata. La velocità dei miei piedi è tripla rispetto a quella degli ingranaggi del mio cervello.

Con un tuffo al cuore, consegno il mio lavoro, lasciandolo precipitare sulla cattedra, sperando con tutta me stessa che una folata di vento improvvisa lo porti via con sé verso tribù africane, terre oltremare, isole misteriose.
Ma il Vento non risponde certo alle preghiere di una misera diciannovenne dai capelli rossi.

La fenice sul muro accenna ad un sorriso: risorgerai come me, anche tu. Post fata resurgo.
Sì, ma prima devo ancora essere ridotta in cenere.

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