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La tragedia del Vajont

I lavori su quel monte andavano avanti incessantemente nonostante, da tre anni, il versante montuoso sovrastante il bacino idroelettrico stava dando le prime avvisaglie di ciò che, solo qualche anno più tardi, sarebbe accaduto.

Fu nel 1960, esattamente nel mese di marzo, che i geologi e gli addetti ai lavori si accorsero di alcuni movimenti franosi che in seguito si accentuarono e nello stesso tempo, lungo il versante settentrionale, si aprì una fessura che delimitò l'ampia area instabile che di lì a poco sarebbe precipitata.

In ogni modo i "sapienti" tenevano sotto controllo quel monte che ancora oggi si chiama Monte Toc, un nome dato non per caso e sappiamo bene che i nomi attribuiti dall'uomo a ciò che lo circonda hanno sempre un significato, e la gente del posto, gli anziani, sapevano che quel monte era chiamato così a causa della sua instabilità, del suo continuo lento franare a tocchettini... Monte Toc.

Purtroppo sappiamo anche che l'uomo molte volte si crede più forte e più intelligente della natura che lo circonda e che lo ospita costruendo opere, dal punto di vista architettonico e ingegneristico, veramente perfette ma in posti a volte non idonei. Fu così che il Monte Toc il 9 ottobre del 1963 alle ore 22.39, nella piccola valle della torre del Vajont, tra il Friuli e il Veneto, decise di staccare un'enorme massa che franò.

La massa rocciosa scivolò dal versante settentrionale del monte lungo un fronte di 1800 metri e precipitò nel sottostante lago artificiale dove provocò un'enorme ondata di circa 25-30 milioni di metri cubi d'acqua. Questa enorme onda, carica di frammenti rocciosi, scavalcò la diga posta nella forra del Vajont e si schiantò nella sottostante valle del Piave radendo al suolo Longarone.

Nelle caserme dei Vigili del Fuoco di tutta Italia i centralini cominciarono ad impazzire e nel giro di poche ore si prese coscienza di ciò che era accaduto.

Dai vari comandi provinciali si partì prontamente a preparare ed organizzare le varie colonne mobili che partirono in aiuto di un paese cancellato dalla furia della frana, anche noi del comando di Milano eravamo stati coinvolti nei soccorsi.

A quel tempo, però, l'informazione non era quella di oggi dove si possono recuperare notizie in tempo reale da ogni mezzo di comunicazione come TV, radio ed internet, e quindi non immaginavamo neanche lontanamente di quanto fu grande l'entità del disastro.

Molti di noi, i più giovani, affrontavano per la prima volta una missione fuori del comando d'appartenenza e l'eccitazione era alle stelle. Eravamo in preda ad un eccesso d'entusiasmo e inconsapevoli di ciò che avremmo trovato, sembravamo degli scolaretti al loro primo giorno di scuola.

Arrivammo in loco al mattina e il sole beffardo scaldava tiepidamente quella ventosa giornata d'ottobre.

Le giornate eccezionalmente piovose, che caratterizzarono i giorni precedenti la frana, sembravano un lontano ricordo. Un mucchio di macerie, fango e detriti fumanti erano lì fermi in uno scenario apocalittico.

Di fronte a questo sfacelo i nostri cuori si fermarono e la mente di ognuno di noi ripensava all'entusiasmo e all'eccitazione che ci aveva accompagnato durante il viaggio e provammo orrore di fronte ai nostri pensieri. C'era un silenzio irreale, ma nelle orecchie sentivo le urla strazianti di paura e dolore, mi sembrava di percepire le anime sgomente che ancora vagavano in quel posto infernale alla ricerca dei propri corpi straziati dalla frana.

Non ci fu molto tempo per mettere a fuoco tutto ciò che c'era da fare... non eravamo preparati ad affrontare un disastro del genere. Mi ricordo che cominciai a scavare fra le macerie alla ricerca di un lamento, e più scavavo e più mi disperavo, più scavavo più impazzivo di dolore perché non recuperavo che resti di corpi trucidati.

I giorni passavano e la speranza di trovare qualche superstite si affievoliva ogni minuto, ogni secondo.

Eravamo sudici, stremati dalla fatica, ma continuavamo nelle ricerche. Nella testa continuavo a sentire la mia voce che gridava: "Dio mio fammi trovare almeno una persona ancora viva!".

All'improvviso, mentre scavavo fra le macerie di quella che sembrava essere stata una piccola villetta di montagna, mi sembrò di toccare qualcosa che assomigliava ad un piede, sì, ero sicuro, era un piccolo piedino, pareva di un bimbo, lo strinsi così forte perché volevo che gridasse dal dolore, ma non sentii gemiti. Allora cominciai ad urlare verso i miei colleghi che forse c'era un bimbo, forse era vivo.

Scavai con la disperazione nel cuore, usai le mani, avevo paura di fargli male con la pala, talmente fu la foga nel cercare di aprire una breccia che non badavo alle mie dita che sanguinavano, ma finalmente quel corpicino uscì allo scoperto. Fui preso dalla rabbia e gridai al vento un no di dolore, quando mi dovetti render conto che ciò che avevo salvato era un bambolotto, un fottuttissimo bambolotto intriso di sangue. Poco più in là in mezzo ad un paio di corpi straziati vi era il proprietario di quel bambolotto, un bimbo di circa sei sette mesi. Era bianco come la neve e pareva dormire. Rimanemmo per qualche minuto in silenzio di fronte quell'innocente cadavere, poi lo presi in braccio con la delicatezza di un padre con il proprio figlio appena nato e mi voltai verso il carro dove erano ammassati gli altri corpi. Diedi un lungo sguardo a quelle salme accatastate una sull'altra senza alcuna dignità, uno sguardo al corpicino che tenevo fra le braccia e non me la sentii di buttarlo lì come un giocattolo rotto, come un indumento dismesso.

Sempre con quel frugoletto tra le braccia salii sul posto davanti e lo tenni con me fino al campo base dove lo deposi delicatamente dentro una piccola bara bianca e lo lasciai a continuare tranquillo il suo eterno riposo.

Quella fu la giornata peggiore della mia vita. Arrivò sera e la stanchezza e la desolazione ormai mi avevano completamente pervaso. Guardandomi intorno mi resi conto che non c'erano posti dove riposare se non per terra, in quanto, tra uomini volontari, esercito, croce rossa, vigili del Fuoco eravamo veramente in molti e voi lo troverete un po' macabro, ma fu tanta la stanchezza che io e il mio collega ci avvicinammo a due bare vuote, ci accomodammo dentro e ci addormentammo, per risvegliarci solo alcune ore dopo e lasciare il posto a chi in quella sera d'ottobre trovò davanti a casa sua un'orrenda morte ad accoglierlo.

Dopo poco più di una settimana d'estenuanti ricerche fummo costretti a rinunciare a causa del rischio d'epidemie per la putrefazione dei corpi sepolti ormai in decomposizione. A malincuore dovemmo lasciare il posto alle ruspe che cancellarono definitivamente le tracce dell'orrore che si era abbattuto su Longarone. In quella sciagura persero la vita 1899 persone.

Il 23 dicembre, prima di rientrare a Milano io e i miei colleghi costruimmo e innalzammo una croce di legno in onore delle vittime colpite da quell'immane catastrofe naturale.

Sono passati veramente molti anni da quel tragico giorno, ma ancora oggi ricordo perfettamente ogni minuto passato in quel luogo con lo strazio nel cuore.

Feci fatica a dimenticare i corpi trucidati e i pianti di dolore dei pochi sopravissuti, ma pian piano il ritorno alla quotidianità occupò il posto dei ricordi senza però cancellarli.

Da quel giorno d'interventi ne feci molti altri compresa l'alluvione della Valtellina, ma mai più li affrontai con l'eccitazione di uno scolaretto al suo primo giorno di scuola e per evitare che qualche giovane leva incorra nel mio stesso errore, racconto sempre questa triste storia.

Ospiti del mondo

Cari uomini, noi popoliamo questa terra

Da secoli essa ci ospita

Da millenni essa ci mostra i suoi segreti

La natura é viva intorno a noi

Ride gioisce con i suoi zampilli

Con i suoi giochi d'acqua

Si mostra imponente con i suoi monti

Con le sue valli con i suoi mari con i suoi oceani

Ci son mille colori e giochi di luce

Coi quali ella ci fa divertire

Tutto pare ad arte costruito

Un pittore uno scultore ed un architetto

Sembran aver unito il loro intelletto

Per costruire questo mondo così perfetto

E poi ci siamo noi

Nascon palazzi sempre più alti sempre più belli

Crescon paesi in lochi ove la natura

Sfoga i suoi venti, e brontola coi suoi terremoti

Costruiamo strade , ferrovie lunghe chilometri

E se ci fosse qualche intoppo sia esso monte fiume o bosco,

Poca importa a noi umani, distruggiamo tutto incuranti del domani

Ed è così che un bel giorno ci troviamo uniti nel dolore

A pianger chi muore cercando di sostituire il soffrire

Con la rabbia su chi vive che poteva evitare

Ed è così che un monte stufo di tener su a fatica

I suoi pezzi martoriati molla la presa e cade una frana

Ed è così che un fiume in piena

Dimentico della deviazione imposta

Torna ad occupare spazi una volta isolati

Ed è così che ogni tanto la natura

Di questo mondo ci ricorda....

siamo ospiti e non padroni

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