Capitolo XXII
La notte sembrava infinita. Reck si rigirava in quella dormiveglia che era il suo sonno. Non era mai calmo. Non riusciva a esserlo. L'erba sotto di lui era fresca, molto più di quanto lo era quella dell'ultima radura in cui aveva dormito: allora lui e i suoi due compagni di viaggio avevano superato da poco Meuncjuj ed era ancora l'inizio dell'autunno. Ora, invece, stava arrivando l'inverno. Il freddo sarebbe sopraggiunto prima che Reck se ne fosse accorto. E cosa si aspettava? Si stavano dirigendo verso l'estremo nord, era ovvio che il gelo sopraffacesse il caldo.
A un certo punto decise di alzarsi. Si guardò in giro: le stelle brillavano in cielo e di Everen si vedeva solo uno spicchio, come se qualcuno l'avesse tagliata. Gli altri stavano ancora dormendo; tutti sull'erba tranne Lynn, che si trovava sul carro e aveva una coperta in più. Era giusto così. Si girò, spinse lo sguardo oltre la zona alberata che aveva davanti e notò qualcosa di strano. C'era qualcosa che non andava nel terreno. Fece un passo in avanti, ma si fermò subito.
Un rumore.
Si voltò lesto; la mano alla spada, che non trovò. Non ebbe bisogno, però. A distrarlo era stato il ragazzo che avevano chiamato Nathair. Si stava stiracchiando nel sonno, e sussurrava, e protendeva le braccia quasi a voler abbracciare qualcuno. Le sue mani incontrarono un sasso: lo prese e lo strinse forte contro il petto. Fortunatamente pareva che non avesse spuntoni che potessero nuocergli. E se ce ne aveva, be', a Reck non importava. Tanto ad abbracciare il sasso non era stato lui e, di conseguenza, non sarebbe stato lui nemmeno a farsi male.
Ritornò a fare ciò che aveva intenzione di fare precedentemente. Si inoltrò nella foresta e sorpassò la miriade di tronchi che si pararono davanti a lui. Nel passare, tendeva una mano verso di loro e li sfiorava. Non sapeva nemmeno lui perché lo stava facendo: non aveva un debole per la consistenza rugosa e coriacea delle cortecce, non l'aveva mai avuto. Eppure lo fece.
Quando raggiunse quel qualcosa di strano di cui si era accorto prima, neppure la sua irremovibilità - riacquistata recentemente dopo un periodo di confusione e sofferenza interiori, - riuscì a non fargli scappare almeno un verso. E questo verso infatti sfuggì alle sue labbra, che si socchiusero in un lievissimo: «Oh...».
Si trovavano su un promontorio. Gliel'avevano detto - cioè, gli avevano detto che si trovavano vicino all'oceano e che stavano attraversando un'altura, - ma lui non aveva inteso il senso delle loro parole. E ora davanti a lui si srotolava un'immensa distesa d'acqua che rifletteva i bagliori di Everen in un punto lontano, dove il chiarore si concentrava al centro e si illanguidiva estendendosi, dove la luce punteggiava la superficie con il suo luccichio. Andò più in là e si fermò sull'orlo del promontorio, sedendocisi. Sotto di lui, le piccole macchie luminose di una città senza mura testimoniavano la presenza di qualcuno che viveva accanto a quella maestosità chiamata oceano, e in quell'attimo Reck pensò che, se aveva intrapreso quel viaggio, era solo per via di quella gente. Voleva che trascorresse la propria esistenza pacificamente, che invecchiasse senza lo spettro di una guerra potenzialmente fatale. E per far ciò era costretto a individuare quella bambina e a proteggerla. Lo sapeva, ma ancora sperava che ci fosse un altro modo. Non era bravo con i bambini.
«Mi sa che hai ragione.»
Reck si voltò. Una ragazza sui vent'anni, bionda, con occhi che a contatto con la luce diurna dovevano essere azzurri, gli si stava avvicinando. Era stretta in un mantello scuro il cui cappuccio lasciava libere solo poche ciocche dei suoi capelli. Aveva un bel sorriso in viso, valorizzato dalla pelle chiara e dalle labbra, rese più rosse da qualcosa (forse da una mistura di qualche frutto rossastro).
«Non senti freddo?» gli chiese lei in Aruan, sedendosi accanto a lui. «Non dovresti avere niente sotto la maglia.»
«Non ho niente infatti» rispose Reck. Tornò con lo sguardo sulla città; non troppo distante da essa, l'ampio estuario di un fiume sfociava nell'oceano. «Tu non sei un po' troppo giovane per stare fuori a quest'ora?»
«Ho ventuno anni, caro mio» fece lei. «Posso fare quel che mi pare e piace.»
Reck assentì, ma in realtà non gli interessava. Bastava che quella ragazza lo lasciasse da solo. Non voleva compagnia. Avrebbe voluto solo una persona al suo fianco, in quel momento, ma era impossibile e lo sapeva bene.
«Non ti piaccio, vero?»
«Non ho preferenze» disse Reck. «Ora non vorrei essere né con te né con nessun altro. Mi sei indifferente.»
«Ah, bello a saperlo.»
Ci furono istanti silenti. D'un tratto la ragazza si alzò, gironzolò nei dintorni e si sedette nuovamente vicino a lui, soltanto dall'altro lato. Adesso lo sguardo di Reck, se avesse voluto posarsi sulla città o sul fiume, avrebbe incontrato la figura di lei. Respirò adagio, in modo misurato. Doveva mantenere la calma. Doveva mantenere la calma o sarebbe scoppiato.
«Non ti interessa sapere cosa significava quel "mi sa che hai ragione"?» gli domandò lei.
L'aveva forse detto? «No.»
«Ma neanche un po'?» proseguì lei.
«Cioè, bellezza, se ha detto no, vuol dire che non gli interessa. Non credi?» intervenne qualcuno in un Aruan non troppo sciolto.
Reck lo riconobbe subito, seppur non si fosse girato: Nathair. Quel ragazzo che aveva tanto odiato fin dal primo attimo in cui aveva aperto bocca. Su una cosa aveva ragione: erano gli opposti di un oggetto studiato con meticolosità. E a Reck andava bene così. Anzi, ringraziava il cielo che non fosse come quell'individuo. Lo detestava così tanto che, se non fosse stato così importante per la loro "missione", lo avrebbe già gettato da quel dirupo.
«Ma non badare a lui. Ci viaggio insieme da qualche giorno e ho capito che si tratta di una persona con cui è difficile fare conversazione. Io sono tutto il contrario. Piacere...» continuò la voce.
«So come ti chiami, Nathair» lo anticipò lei.
«Lo... lo sai?»
«Certo» fece lei. «E so anche che lui si chiama Reck.»
Reck scattò in piedi. Si girò e si avvicinò alla ragazza. Le puntò un dito contro; quasi si pentì di aver dimenticato la sua spada al campo. «Sai un po' troppe cose, per i miei gusti. Come ne sei venuta a conoscenza?»
«Tranquillo, amico» gli consigliò Nathair, passando una mano fra i capelli scompigliati dal sonno. «Forse li ha sentiti mentre parlavamo, prima di andare a riposare.»
«Non c'era nessuno. Ne sono sicuro.»
La ragazza sorrise e invitò i due ad andarsi a sedere. Nathair obbedì subito, mentre Reck aspettò che anche lei fosse seduta per farlo.
«Guarda, ti avviso che a me le cose a tre non piacciono» precisò Nathair. «Volevo solo metterlo in chiaro» soggiunse.
«Non sono questi i suoi intenti, ragazzo» fece Reck. «Perché non ci dici il tuo, di nome?»
«Ma certo» rispose lei. «Mi chiamo Linda.»
Nathair corrugò la fronte e spalancò le palpebre. «Linda? E' un nome terrestre.»
Linda stette per parlare, ma Reck la precedette: «Verso est ci sono molte persone con nomi terrestri.»
«Avete ragione entrambi» si intromise lei. «E' vero, più in là ci sono molti nomi terrestri, ma il motivo per cui mi chiamo così è proprio perché provengo dalla Terra.»
Nathair la prese per le spalle. «Sul serio?» chiese quasi speranzoso.
«Sì.»
«E... quando sei...», si fermò, «"arrivata" in Aruan?» concluse in inglese.
Lei gli rispose e lui riformulò la domanda. Linda sollevò un angolo della bocca e aprì due volte una mano e una volta l'altra. «Avevo quindici anni. Sei anni della mia vita li ho passati qua.»
«E come sei arrivata?»
«Un portale mi ha trasportato qui mentre mi trovavo in camera mia.»
Reck voleva dire qualcosa, ma Nathair gli fece segno di tacere e di attendere il suo turno. Davanti a lui c'era qualcuno che aveva dovuto vivere il suo stesso frangente ed era comprensibile che volesse ottenere delle risposte, ma quella Linda era sospetta, risvegliava tutti i sensi di Reck, che gli urlavano di non fidarsi.
«E puoi dirmi un'altra cosa?» proseguì Nathair.
Lei annuì.
«Sai forse cosa succede a quelli che rimangono là?»
Un'ombra di dispiacere le velò gli occhi. «Sì, lo so. Ma non è bello.» Entrambi fissarono Nathair: lui per vedere la sua reazione e lei forse per avere il consenso per seguitare il discorso. Dopo un po' ricominciò: «Loro si dimenticano di te. Semplicemente. I tuoi oggetti spariscono, così come ogni tua traccia sulla Terra. Eri in un elenco scolastico? Non ci sei più. Avevi una cartella con roba personale sul computer? Sparita. C'erano delle fotografie tue in casa? Scomparse. E potrei continuare per molto tempo. Per questo coloro che arrivano qui sono persone che non hanno mai influito molto. Di solito c'è un criterio nella magia dei portali mutevoli.»
«Quindi... tu mi stai dicendo che...», aveva parlato in inglese, probabilmente non aveva la forza di tradurre il tutto in Aruan.
«Sì, loro non si ricordano di te. E' come se tu non fossi mai esistito. Mi dispiace, anche io ci sono rimasta male.»
«Non dispiacerti» fece Nathair, tirando su con il naso. «Dopotutto è meglio così. Non soffriranno e forse la mia assenza cambierà le loro vite.»
Lei sorrise. «Probabilmente sì.»
«Ora, però, tocca a me» intervenne Reck. Si alzò e guardò Linda più sprezzante che poté. «Dimmi perché conosci i nostri nomi.»
Lei ridacchiò. Deglutì e mise una mano sotto il mantello.
«Stai ferma» le disse Reck, ma non servì a niente. «Stai ferma!» ripeté, ma lei non si arrestò. Allora Reck agì fulmineo: le afferrò il polso, immobilizzandole il braccio. Solo quando notò che non tentava di liberarsi, la lasciò andare. «Cosa stavi prendendo?»
«Se mi dai il tempo di prenderlo, te lo faccio vedere» rispose lei, inarcando le sopracciglia come se si sentisse offesa.
Reck acconsentì. Linda rovistò sotto il mantello ed estrasse un oggetto che colpì Reck dritto al cuore. L'uomo percepì un indicibile dolore attanagliarlo e insieme a esso un desiderio irrefrenabile di lambire quella cosa che lei stava appoggiando a terra. Pensava che fosse andato distrutto e non sapeva come fosse possibile che ce l'avesse lei, ma non gli importava: davanti a lui c'era il bracciale di Nimniail, il lascito dell'elfa. Si inginocchiò e lo carezzò, e il suo rivestimento in oro gli parve quasi la pelle di lei. Allora chiuse gli occhi, si godette il momento e sentì una lacrima bagnargli una guancia. Fu in quell'istante che si riprese. Si asciugò con il dorso della mano, prese il bracciale e rivolse a Linda lo sguardo più carico d'odio che aveva nel suo repertorio.
«Non sei contento?»
«Lo sarei stato di più se me lo avesse dato qualcuno che conoscevo. Dove l'hai trovato?»
«Vuoi veramente saperlo?» chiese lei.
Reck annuì. Era sicuro, voleva saperlo.
Linda dischiuse le labbra e si preparò a parlare. Tuttavia non lo fece. Si girò preoccupata verso la foresta, come se stesse soppesando ogni movimento - foglie, erba, eccetera - nell'attesa di qualcuno. E questo qualcuno, a un certo punto, lo udì anche Reck. Il passo era irregolare, quasi claudicante. Non aveva alcuna remora nel farsi sentire. Lynn.
«Vorrei dirtelo, ma devo andare.» Si alzò, lanciò un'occhiata ai piedi del precipizio e aggiunse: «Ricordati, Reck. Non è il mondo. Non è il mondo ciò che tu cerchi.»
Prima che Reck potesse ribattere qualsiasi cosa, Linda spiccò un salto. In poco scomparve, nella sua caduta. Sia Reck che Nathair si sporsero per vedere che fine aveva fatto: non c'era più. Non c'era nemmeno il suo corpo.
«Chi era quella che si è buttata?» esclamò Lynn in apprensione.
Nella voce aveva una nota di terrore, che però mascherava abbastanza bene.
«La conosci?» chiese Nathair.
«Si chiama Linda» disse Reck.
Lynn indicò loro di accostarla. «Questo posto non è più sicuro. Partiamo subito.»
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