Capitolo XIV
Visione
Raccontato da: Thial e Violet.
Il freddo la aggredì in un istante, appena andò a dormire. Un momento prima si trovava sul suo letto, sotto alle pesanti coperte decorate con gli arabeschi reali, e ora era in balìa di una tempesta. Era su una zattera dal legno umido, quasi completamente spoglia; aveva solo un palo al centro. Ma nient'altro. Nulla per governarla. Nulla per impedire che la sua sorte fosse affidata del tutto al destino. Sopra di lei, il cielo temporalesco tuonava la sua ira. Sulla sconfinata superficie d'acqua che la circondava, le creste ondose orlate di schiuma si innalzavano minacciose, facendo ondeggiare la zattera.
Era vestita come se stesse ancora dormendo: l'abitino da sera, di uno splendore argenteo, si stava bagnando, colpito dagli schizzi dei flutti che si frangevano contro i tronchi legati assieme. E nello stesso attimo il vento le ghiacciava le membra come un soffio che aveva attraversato paesaggi congelati, sepolti dalla neve, devastati dal gelo. E la sentiva, l'eredità di questo paese gelato; la sentiva incunearsi all'interno del suo corpo e penetrarle le ossa.
Si strinse nelle spalle, mentre un'altra miriade di gocce le raggiungeva il viso, che ora percepiva rigato dalle lacrime. La zattera sobbalzò e Thial perse l'equilibrio, andando a sbattere con la testa. Poco dopo si alzò. Si massaggiò il capo, e intanto non riusciva a smettere di piangere. Notando che non sarebbe riuscita a rimanere in piedi per ancora molto tempo, decise di aggrapparsi al palo centrale, che le fornì una languida salvezza.
Cosa stava succedendo? Perché era lì e non nella sua camera, nel suo caldo rifugio dove aveva tentato di allontanare il dolore di quegli ultimi giorni?
Un'onda altissima si elevò abbastanza da sommergere l'intera chiatta, e per un attimo Thial credette di star per morire. E forse lo voleva veramente. Lo spettro glielo aveva detto, pensò. Glielo aveva fatto desiderare, e ora stava accadendo. Forse era proprio quello che era giusto capitasse. Oppure no. Infatti, dopo che l'onda si fu abbattuta su di lei, Thial - e ciò che le permetteva di non affrontare la burrasca a nuoto - riemerse, tossendo. Era viva. Sentiva i capelli fradici aderenti al volto.
All'incontrollabile rabbia di quell'oceano si aggiunse anche la potenza rovente del fuoco. Quest'ultima si manifestò in alcune fiammate che affiorarono dall'acqua come ruggiti di mostri marini che accerchiavano il suo galleggiante. La prima fu così vicina che a Thial, che abbracciava il palo, venne l'idea di lasciarlo per mettersi in una posizione più sicura, ignorando che senza quel sostegno sarebbe probabilmente caduta in mare. Tolse una mano, mentre l'ambiente si surriscaldava e il freddo precedente si volatilizzava, ma appena capì che ci sarebbe voluto poco per finire fuori dalla zattera, la rimise come la teneva prima.
Era nell'Esephymir? Chissà. Dopotutto nessuno conosceva l'aspetto del regno dei condannati alla dannazione eterna e quello poteva benissimo esserlo. Forse questo stava a significare che non sarebbe morta. Se si trovava veramente laggiù, doveva già esserlo. Eppure le lingue infuocate che si estendevano verso l'alto e facevano piombare quel posto in un inferno incandescente la spaventavano a tal punto da non farla muovere. Era immobilizzata, e tremava, e l'alternarsi di folate gelide e vampate roventi le faceva girare la testa. Le uscì del sangue dal naso.
Allora Thial notò che si stava formando qualcosa. Il fuoco si mosse come un essere vivente, con movimenti quasi simili a quelli di un serpente. Si diresse verso destra, e così fece anche quello che si trovava dietro di lei, sorpassandola senza nemmeno toccarla. Anche la zattera andò verso destra, e i flutti cessarono di increspare la superficie acquea. Così Thial poté osservare il miracolo compiersi.
Davanti a lei, le fiamme stavano costruendo un gigantesco edificio rassomigliante a una di quelle grandi cattedrali di Isvatten. Un ampio portone si stava delineando, così come stava facendo l'immenso rosone sovrastante e la struttura gotica dietro. Le pareva un rogo che aveva assunto le sembianze di un luogo di culto. Temette di essere lei, quella che sarebbe stata giustiziata all'interno di quella sorta di incedio ordinato e quasi cosciente.
La zattera si fermò una volta che Thial fu giunta dinanzi a un altare. Era un tavolo rettangolare che si trovava dopo tre lunghi scalini, tutto rigorosamente fatto di fuoco. Su di esso, Thial distinse la figura di un calice e quella di una specie di vassoio con le estremità poste più in alto del vassoio stesso. La bambina aveva lo sguardo fisso su quegli oggetti di un rosso accecante, e intanto il pianto la faceva ancora singhiozzare.
Trasalì quando vide il calice sollevarsi, quasi fosse stato preso da qualcuno. Ma lì non c'era nessuno. Nessuno eccetto lei.
L'oggetto si inclinò nel verso opposto a quello in cui si trovava Thial e da esso uscì un liquido nero, molto probabilmente vischioso, che si riversò in acqua e la tinse del suo colore. Allora apparve una voce roca. Sembrò risuonare dal fondo della cattedrale, qualche metro dietro l'altare. Recitava una nenia che fece danzare le fiamme. Parlava una lingua che Thial non conosceva. O almeno a lei parve di non conoscerla. Le parole della sua litania, infatti, divennero pian piano sempre più chiare, e alla fine Thial le riconobbe tutte.
«Ashtarud.»
Redimiti.
«Ashtarud verha.»
Redimiti dal peccato.
Una pausa. Un presentimento di morte che la asfissiava; quasi un nodo alla gola, che sembrava espandersi, raggiungere ogni debolezza del suo corpo, distruggerlo lentamente, divorarlo senza pietà. Poi, un brivido.
«Ashtarud verha, salika wenyar.»
Redimiti dal peccato, la morte è vicina.
«Ashtarud verha, salika wenyar. Heta novineb krdu. Karakao rah irrub krdu.»
Redimiti dal peccato, la morte è vicina. Il buio ti assolve. Il sangue degli innocenti ti contagia.
Un'altra pausa. Una risata. Una fitta lancinante alla testa. Thial lasciò il palo legnoso e si prese il capo fra le mani, urlando come una forsennata. Ripeteva cose come: distruzione, patibolo, tramonto, anima frantumata, vita insanguinata. Se ne rese conto solo quando l'emicrania la abbandonò. Iniziò a piangere ancora più di quanto stesse facendo prima.
«Troza hodot, srodud versake kredu enteriaste.»
Divino dolore, schiavizza la tua discepola.
E il dolore ascoltò il comando. Thial si contorse per via di indicibili sofferenze. Scattò in piedi e barcollò; poi rovinò sul legno, e fu come se fosse atterrata su un campo di spine avvelenate. Strillò. Pregò ogni dio esistente di far cessare tutto quello, in un modo o nell'altro. E in effetti ogni sensazione svanì, e la piccola si ritrovò a sorridere.
Ma la pace durò poco. Una presenza maligna, che si aggirava nell'aria come il demone della sfortuna, la esortò a rimettersi in piedi. Fu faticoso, ma ci riuscì. Non l'avesse mai fatto. Davanti a lei c'era uno specchio più alto di lei. Su di esso vide sé stessa. Contemplò l'altra lei crescere, cambiare, diventare grande. Otto, nove, dieci, forse undici anni. E già non si riconosceva più. Si fece una bella ragazza: i capelli biondi ma più scuri di quelli che aveva ora, gli zigomi alti ma non troppo duri, gli occhi azzurri, le curve ben formatesi. Poi la pelle dell'altra lei prese a marcire. Nerastra, in decomposizione, si staccò in pezzi che planarono dolcemente su un immaginario terreno mostrato dal riflesso, su cui l'immagine di lei si poggiava. Thial si portò le mani al volto, tastandosi, controllando che non si stesse veramente trasformando in un cadavere putrido e immondo, richiamato dalla tomba per svolgere chissà quale traviato compito. Eppure non fu quella visione a impaurirla davvero. Furono gli occhi dell'altra lei a farlo, e furono loro perché, in mezzo a quell'imputridirsi, mantenevano la loro maestosa e fredda bellezza, avvelenata da uno sguardo arcigno che, nonostante il calore, le provocò spasimi gelidi lungo tutto il corpo.
«Yvadti bredu kehiel. Kruvas freu, fredu niarra tarha.»
Flagellatele l'anima. Raggiungimi, mia giovane sposa.
Thial volle parlare, ma la sua gola era così arida da impedirglielo. Volle gesticolare, ma i suoi muscoli erano paralizzati. Volle pensare, ma la sua mente era ferma. L'unica cosa di cui ebbe coscienza per alcuni attimi fu il vuoto. Un vuoto abissale, senza tempo, una trappola privata di ogni nome. Allora si riprese.
«Chi sei tu?» pianse. «Sei forse lo spettro? Sei lui?»
«Unnaharax iv murdao» rispose la voce.
Il maggior tesoro di tutto il mondo.
*****
Violet si rigirò nel letto. Era da più di un'ora che provava ad addormentarsi, ma non ci riusciva. C'era qualcosa che le impediva di assopirsi e lasciarsi andare ai quei bei sogni dove lei e Thial giocavano insieme come qualche settimana prima. Doveva esserle successo qualcosa, pensò, quando era stata male. Non si comportava più come faceva precedentemente. Ora rifiutava persino di uscire dalla propria camera. Una volta Violet era andata a portarle del cibo: aveva fatto in tempo a vedere uno spiraglio formarsi e a passare il pasto del giorno a Thial, che la porta si era richiusa con un tonfo così sonoro che la bambina aveva temuto di avere qualche danno alle orecchie.
Cos'era che non la faceva dormire? Forse il pensiero della sorella? Non era l'unica ipotesi plausibile, però: anche l'opprimente silenzio di quella casa poteva aver contribuito. Si era abituata agli schiamazzi notturni di Isvatten, e adesso quella quasi totale assenza di suono la inquietava un po'. Un po' troppo, a dir la verità. Si era messa anche a sperare che sotto alla finestra apparisse un ubriacone armato di bottiglia, con gli occhi stanchi e le palpebre pesanti, e che questi iniziasse a urlare a squarciagola, e a cantare, e a ridere senza controllo. Ma era impossibile, e lo sapeva bene. Non c'era nulla nei dintorni di quella residenza. Il posto più vicino era sulla costa e loro erano in montagna.
D'un tratto udì qualcosa. Era strano: dapprima le parve un pianto, poi uno strillo, poi di nuovo un pianto. Quella flebile modulazione la fece rabbrividire nonostante fosse sotto le sue spesse coperte. Era così triste... e nel contempo così addolorata e frustrata. Era tanto insolita e coinvolgente, che Violet sentì un'irrefrenabile voglia di andare a vedere cosa fosse. No, non posso farlo - si disse inizialmente. In seguito, però, la sua curiosità schiacciò e soffocò la vocina che le consigliava di rimanere lì dov'era, e Violet si decise che era meglio controllare.
Si mise a sedere sul letto. Il freddo la assalì all'istante, facendole rizzare i pochi, sottilissimi peli. Qualcosa le suggerì di tornare là sotto, al caldo, al sicuro; ma questo qualcosa perse la sua influenza quando il suono si ripresentò: allora Violet ebbe fegato e infilò le soffici pantofole. Era pronta.
Si alzò. Prese una delle caramelle che aveva rubato dalla cucina la sera prima e se la mise in bocca, sciogliendola con la saliva. Allora uscì dalla sua camera e si diresse verso sinistra. Ora sentiva tutto più chiaramente. Sembrava qualcuno che stava affogando nelle proprie lacrime. E la voce... Le pareva che quel tono fosse della sorella. Thial? Perché piangeva?
«Violet» mormorò qualcuno, e la bambina trasalì, voltandosi verso i quadri appesi alle pareti e piantando gli occhi in quelli dei ritratti dei suoi antenati. «Allontanati, è pericoloso.»
Thial? Violet era sempre più certa che si trattasse di sua sorella. Stava ancora male? Doveva andare ad aiutarla, pensò. Non aveva senso rimanere lì a girovagare come un'anima irrequieta. Quindi si recò da lei, ma quando arrivò alla sua camera, vide la porta aperta e, dietro di essa, la finestra spalancata grazie a cui si insinuava nella residenza un'aria gelida. Violet si strinse nella veste che usava per dormire, e si rimproverò mentalmente di non aver preso qualcosa con cui coprirsi. In quel momento, però, non le importò più di tanto: Thial aveva la precedenza su tutto.
«Thial?» la chiamò sussurrando. «Thial, sei qui?»
Thial non rispose. Anche quello strano pianto era scomparso. Non c'era più alcun rumore. Così Violet pensò di guardare dentro alla stanza. Sporse la testa per vedere se Thial era nel suo letto: non solo non c'era, ma sembrava che fosse passato un uragano e avesse sconvolto ogni cosa.
I cassetti dei mobili erano vuoti e gli oggetti che prima - probabilmente - contenevano erano riversati a terra, alcuni rotti, altri interi ma danneggiati. Le coperte erano state tirate giù: l'orlo destro vicino ai piedi del letto sfiorava il pavimento e ondeggiava adagio per via del vento che circolava e che andava ovunque. Sul materasso c'era un simbolo a lei sconosciuto: un cerchio che racchiudeva una sorta di falce che veniva conficcata in un petto umano. Attorno a esso c'erano delle parole:
Rah. Hodot. Salika. Verha. Ydva.
Non si chiese nemmeno cosa significassero. Sapeva a malapena l'inglese e lo svedese; che non si pretendesse da lei di sapere una lingua simile. Dopotutto aveva cinque anni, quasi sei; non era mica una letterata di cinquant'anni che passava tutto il tempo sui libri.
Il pianto tornò. Violet si girò, uscì dalla stanza e guardò verso destra: proveniva dalla sala principale, ora ne era sicura. E c'era qualcos'altro che glielo confermava: per terra, solchi che parevano fatti da un carro con ruote laviche erano indirizzati proprio dov'era l'origine di quel suono. Violet seguì le striature e non fu sorpresa quando notò che si interrompevano poco prima del portone che precedeva la sala d'ingresso. Protese le mani verso l'alto cercando di arrivare alle grosse maniglie dorate. Quando le afferrò, tirò con tutta la forza che aveva in corpo. Il portone si socchiuse, lasciandole appena lo spazio sufficiente a farla entrare.
Entrò. Là, uno spesso strato di neve ammantava ogni cosa. Non ogni cosa, in realtà. Al centro c'era una bambina rannicchiata, che si dondolava e teneva il capo affondato tra le ginocchia. Quella bambina era Thial. Non erano solo i capelli biondissimi e il vestitino a dirglielo: era l'istinto. La sorella stava ripetendo qualcosa nei suoi lugubri mormorii. Violet si chiese come Thial riuscisse a sopportare quell'incredibile gelo. Si avvicinò di qualche passo, fermandosi quando si accorse che le pantofole sprofondavano e la neve le toccava i piedini scalzi. Ebbe un brivido lungo la gamba, che poi si propagò alla schiena.
«Garrud u itam, salika» diceva Thial, e ogni tanto emetteva una lieve risata.
Violet riconobbe una delle parole che aveva letto prima: salika.
All'improvviso Thial alzò la testa, fissando con occhi sbarrati Violet. C'era il terrore nelle sue pupille. Violet non aveva mai visto uno sguardo terrificato, eppure sapeva alla perfezione che quello di Thial non era solo terrificato, ma esprimeva un timore che avrebbe fatto impazzire chiunque.
«Dov'è la morte?» domandò Thial.
Violet ebbe paura di rispondere, e infatti non lo fece.
«Violet, non nascondermi le cose. Dov'è la morte? Dimmelo!»
Il timbro vocale era inconfutabilmente suo ma nel contempo aveva un che di diverso, quasi estraneo alla sorella, come se avesse parlato un'altra lei.
Violet deglutì. «Io...» sussurrò. «Io...» ripeté mentre sentiva le sue guance inumidirsi.
«Violet, parla! Dov'è quella maledetta morte? Dov'è? Dov'è? Dov'è? Dov'è?!» strillò Thial; i muscoli del viso contratti fino all'inverosimile.
«Io non lo so, Thial» disse Violet, passandosi sotto il naso il dorso di una mano.
Per un attimo ebbe la tentazione di scappare. Non era così coraggiosa da affrontare una situazione simile, e lo sapeva bene. Così si voltò; le grida della sorella che si effondevano riempiendole le orecchie. Violet serrò le palpebre, sperando che l'oscurità potesse smorzare in parte quegli strilli ininterrotti. Ma nel buio andò a sbattere contro qualcuno. Aprì gli occhi.
Una faccia mostruosa la guardava di sghimbescio, con un sorriso ebete dipinto sulla pelle grigiastra. Giganteschi bitorzoli la ricoprivano interamente e due zanne appuntite partivano dagli angoli della bocca e salivano fino a conficcarsi ai lati del naso, dove due rivoli di sangue di un colore tra il rosso e il nero sgorgavano, andando a depositarsi sul rigonfiamento del labbro superiore.
«Kredu salika!» ruggì l'abominio. «Kredu salika!»
Violet si girò ancora: gli occhi di Thial si erano tinti di un bianco folle e la neve aveva incominciato a volteggiare in circolo, quasi ci fosse un ciclone all'interno della sala.
«Kredu salika!» disse Thial, ridendo come non mai.
E la stessa cosa ripeté il mostro dietro di lei, che aveva infilato sotto la veste di lei le sue mani dotate di lunghe unghie adunche.
Allora Violet urlò. Urlò finché la sensazione della presenza del mostro non sparì. A essa si sostituì quella di qualcun altro, qualcuno che Violet riconobbe subito: Isolde. Si voltò e la vide davanti a sé; il biancore che caratterizzava il suo viso la faceva somigliare a un cadavere. Si buttò tra le sue braccia, piangendo come quando aveva scoperto che sua madre non sarebbe più ritornata.
«Cosa succede a Thial, Violet?»
La bambina scosse il capo. Non lo sapeva. Se lo avesse saputo, glielo avrebbe detto subito, senza tentennare; ma non lo sapeva proprio.
«Ekedti salika! Ekedti salika!» ripeteva Thial.
Isolde si staccò da Violet e, dopo aver tratto un profondo respiro e aver socchiuso le palpebre, si avventò su Thial, immobilizzandola. Sollevò il più possibile il mento e trascinò via Thial, lasciando Violet da sola. La neve scomparve in un secondo e un denso silenzio gravò sul luogo. Violet scorse dei fiori appassiti sul pavimento, esattamente dove si trovava prima Thial. Mosse un passo in avanti. Si fermò. E se fosse accaduto qualcos'altro, una volta presi quei fiori? Racimolò tutto il coraggio che possedeva e continuò la sua avanzata. Qualcuno, però, la bloccò. Era Isolde.
«Ora si va a dormire, Violet. E non devi dire nulla di tutto ciò a tuo padre. Hai capito?»
Violet guardò qualche altro attimo i fiori, poi si arrese. Forse la calma che l'aveva indotta ad abbandonare il suo letto non era poi così male.
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