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CAPITOLO 32.

Mi alzo dalla sedia e corro verso la sala da pranzo, stando attenta a non cadere.

Il cuore mi balza in gola appena varco la soglia. Jacopo sta buttando giù tutti i piatti e i bicchieri.

«Non provare a dire che è stata colpa mia!», sbraita suo padre.

«È stata colpa tua, non mia! Quel giorno dove cazzo eri?! A scoparti una delle tue puttane? Sapevo benissimo cosa facevi», urla ancora più forte Jacopo.

«Non rivolgermi la parola in quel modo! Sei stato tu a uccidere tua madre e tua sorella! E per di più ne sei uscito illeso!».

Jacopo afferra Marco dal colletto della camicia e lo sbatte contro il muro.

«Brutto figlio di puttana. Non scaricare la colpa solo su di me!».

Alza un pugno e lo sferra sulla mascella del padre. Il sangue mi si gela.

Vado verso di lui e gli afferro un braccio.

«Jacopo, basta!», urlo.

Lui mi spinge via con un gesto brusco e mi fa perdere l'equilibrio, facendomi cadere sui cocci dei piatti e sui vetri rotti dei bicchieri.

Un dolore lancinante si infiamma il braccio. Sangue e pezzi di vetro conficcati nella carne, non vedo altro.

«Rebecca!». Carmela corre e si china vicino a me.

«Sto bene», dico alzandomi.

Poi la stanza affonda nel silenzio

Caterina ha una faccia sconvolta, Jacopo tiene ancora il padre dal colletto della camicia sporco di sangue e Carmela cerca di aiutarmi, ma rifiuto il suo aiuto.

«Vedi?». Marco emette una risata amara. «Fai del male alle persone che ami. Ucciderai anche lei, prima o poi».

«Non ascoltarlo, Jacopo». Le parole mi escono di bocca senza che io me ne accorga.

Jacopo lascia andare Marco, che si pulisce il sangue dalla bocca e si allontana da lui.

Mi fissa il braccio e mi fissa. I suoi occhi sono freddi, non sono più quelli del ragazzo che amo. Mettono paura.

Distoglie lo sguardo ed esce dalla stanza.

«Se Jacopo fa del male alle persone che ama, ha preso tutto da lei. Che lo sappia!», esclamo rivolta a Marco.

Esco dalla sala da pranzo per rincorrere Jacopo, ma lui è già uscito in cortile.

«Aspettami!», urlo, ma Jacopo non si volta.

«Ho detto di aspettarmi!».

Apre la portiera della macchina, sale e mette in moto.

«Jacopo!».

Parte senza ascoltarmi.

Mi viene da piangere, in parte per via del dolore al braccio che continua a tormentarmi, in parte per la situazione drammatica che sto vivendo.

«Cara, fatti medicare». Carmela spunta dietro di me con il suo sorriso caldo.

«No, grazie. Ora devo andare. Grazie di tutto».

Prima che lei possa rispondere, comincio a camminare velocemente verso l'uscita.

«Rebecca!», urla Carmela.

Esco dal cancello e mi lascio alle spalle la grande abitazione. Ecco, racchiuderà per sempre un altro ricordo, ma questo sarà brutto, triste e drammatico.

Il sangue continua a uscire, ma lo pulisco con il vestito. Sembrerò una pazza, a vagare di sera, sola, insanguinata e con il braccio ferito.

Mi siedo su una panchina illuminata da un lampione e metto il braccio sotto il fascio di luce.

Faccio un respiro profondo e tolgo un pezzo di vetro.

Un lamento di dolere esce dalla mia bocca.

«Dai, Rebecca, ce la puoi fare», mi incoraggio.

Afferro un altro pezzo di vetro e lo tolgo, ma questa volta le lacrime iniziano a rigare il mio viso.

Continuo, finché non tolgo l'ultimo pezzo.

Ormai sto piangendo dal dolore, ma devo cercare Jacopo.

Mi alzo e continuo a camminare, ma i piedi mi fanno troppo male per colpa dei tacchi. Sia maledetto chi li ha inventati.

Pensa, Rebecca, pensa. Dove può essere Jacopo?

Senza neanche accorgermene, sono davanti al suo bar preferito.

Spero di trovarlo.

Spingo la pesante porta ed entro. Una puzza di alcol e fumo invade immediatamente le mie narici.

Mi fermo e mi tolgo i tacchi e con lo sguardo cerco il mio ragazzo.

I miei occhi si soffermano su un tipo con i capelli neri, seduto su uno sgabello rosso e con un bicchiere vuoto in mano: l'ho trovato.

Mi avvicino, ma noto subito una ragazza con la mano sulla sua gamba.

La gelosia mi assale, ma la respingo. Devo pensare a lui.

«Jacopo». Gli poso la mano sulla spalla, e quando lui alza lo sguardo verso di me, il cuore mi balza in gola. Per la seconda volta in questa sera.

Ha gli occhi rossi, e l'azzurro che amo è quasi svanito.

«Oh! Guarda chi c'è!». Il suo alito puzza di alcol.

«Andiamo a casa, dai», lo supplico.

«Non se ne parla! Lucrezia ti presento Rebecca, la mia ragazza!».

La donna si gira e mi guarda. Anche lei ha gli occhi rossi.

«Piacere, io sono Lucrezia, la sua ex scopamic...». Non fa in tempo a finire la frase che Jacopo la interrompe.

«Zitta, idiota. Poi Rebecca si offende». Inizia a ridere insieme a Lucrezia.

Si stanno prendendo gioco di me. La voglia di piangere è tanta.

«Mi offendo se non vieni con me a casa», replico con tono acido.

Alza una mano e mi tocca una guancia, ma mi ritiro subito.

«Non fare l'arrabbiata, piccola».

«Non fare l'arrabbiata? Il mio braccio sta perdendo sangue da almeno un'ora per colpa tua! Ho dovuto camminare da sola per strada per venire a cercarti! E ora che sono qui ti trovo ubriaco insieme a una delle tue troiette! Questo è troppo! Andiamo via!», urlo e tutti si girano a guardarmi.

So che ho sbagliato a rinfacciargli tutto ciò che ha fatto questa sera, ma se lo merita.

«No», sbotta lui girandosi verso il balcone.

«Bene, allora mi farò accompagnare da uno di questi ragazzi», dico sconfitta.

Mi guardo intorno cercando il ragazzo meno ubriaco del bar.

«Fai come cazzo ti pare», borbotta Jacopo.

Mando giù questo boccone amaro e mi dirigo verso un ragazzo dai capelli rossi che sta bevendo una lattina di tè.

«Ehi, scusa. Non so se hai sentito, ma avrei una cortesia da chiederti», dico imbarazzata.

«Ciao, in realtà non ho sentito nulla perché stavo leggendo. Quale sarebbe la cortesia?», chiede alzando la testa dal libro.

«Ma tu?!». Alzo leggermente la voce.

«La ragazza incazzata con il mondo intero!». Sorride.

«Potresti darmi un passaggio fino a casa? È urgente», lo supplico.

«Certo, andiamo».

Raccoglie il suo libro e la sua giacca e usciamo dal bar.

Jacopo non mi ha degnata neanche di uno sguardo.

«Aspetta! Come mai hai il vestito pieno di sangue?! E il braccio? Ti porto in ospedale!». Si agita buttando la sua roba dentro la macchina.

«Ehi, frena, frena! Sto bene. È solo sangue!».

«Sali, che fa freddo». Tira un sospiro di sollievo e mi fa salire in macchina.

«Scusa se ti sporcherò il sedile di sangue».

«Tranquilla! Puoi dirmi cos'è successo?».

È molto cortese, tutto il contrario di Jacopo.

«Una cena andata male Come mai sei qui?».

«Ci lavoro», risponde.

«E tu? Ragazza incazzata con il mondo intero?».

«Ancora con questo soprannome? Io ci abito». Rido.

«Mi chiamo Alessandro».

«Piacere, Rebecca».

«Dove devo andare?», chiede.

«Al semaforo a sinistra e poi a destra e vai sempre dritto», rispondo.

Restiamo in silenzio finché non arriviamo davanti al mio palazzo.

«Grazie del passaggio», dico aprendo la portiera e scendendo.

«Rebecca, aspetta».

«Dimmi».

«Questo è il mio numero e questa è la tua sigaretta». Mi porge un biglietto da visita e una sigaretta.

«Perché la sigaretta?», chiedo confusa.

«Te ne dovevo una». Mi fa l'occhiolino e parte.

Sorrido al ricordo di quando ci siamo incontrati.

Guardo il biglietto da visita che ho in mano. Uno studio fotografico. Lavora in uno studio fotografico.

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