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CAPITOLO 15

«Bene! Ora dimmi cosa devi dirmi!», esclamo buttandomi sul divano di peso. Che dolore... ma perché l'ho fatto?

«N-non sono sicuro di volerlo fare», dice Jacopo balbettando.

Jacopo che si comporta da insicuro? Questa mi mancava.

«Dimmelo», insisto.

«Non è facile, cazzo!», sbraita lui.

«Sono stufa di questa situazione. Non credi che ne abbia passate già abbastanza? Eh?! Quindi ora me lo dici. Punto!».

«Scusami», replica sedendosi vicino a me sul divano.

Lo guardo e lo incito a parlare.

«Io e Lorenzo facciamo parte di un brutto giro. Be'... spacciamo. O meglio: io ho smesso, ma sono coinvolto in questa situazione quanto Lorenzo. Cinque mesi fa abbiamo iniziato a frequentare un pezzo grosso del giro. Io non sapevo minimamente chi fosse, conoscevo solo il suo nome». Fa una lunga pausa e continua: «Roberto Gaetani. Lo conosci anche tu, è vero? Certo che lo conosci. Insomma, lui ci aveva assunti per fare uno dei suoi lavori, promettendoci una ricompensa molto sostanziosa. Noi abbiamo accettato, ma Gaetani non ci ha mai pagati. A quel punto ho deciso di lasciar perdere e di cambiare vita, ma Lorenzo no, lui è ancora arrabbiato. Ha fatto tutta questa merdata per vendicarsi di Gaetani. E riguardo ad Alessia, lei è stata costretta: Lorenzo paga le cure mediche a sua madre».

Lo ascolto in silenzio, sconvolta, scombussolata. Non ho la forza di reagire.

Jacopo spacciava?

Lorenzo ha costretto Alessia a farmi questo?

Roberto Gaetani? Mio padre? Lui è ancora vivo?!

«Mio padre è morto quando avevo tredici anni», dico in un sussurro.

«No, Rebecca. È vivo e vegeto», risponde abbracciandomi.

Quindi mia madre mi ha mentito per tutti questi fottuti anni!

«I-io non so che dire... Non ho mai contato nulla per mio padre... Mia madre mi ha mentito per tutto questo tempo... Basta... Non ce la faccio più». Vorrei piangere, ma le lacrime non scendono.

Basta con tutta questa storia, basta veramente. Merito di essere felice.

«Ti amo, Rebecca. Ti amo», dice Jacopo lasciandomi un bacio casto sulle labbra.

«Ti amo, Jacopo».

Un mese dopo

«Che vuoi, testa di cazzo?», dico al ragazzo che ho davanti.

«Fai meno l'acida, ragazzina. Volevo solo fare conversazione con te», risponde.

Credo di non averlo mai visto a scuola, o forse sì, ma molto probabilmente ho ignorato completamente la sua presenza.

Ha i capelli ricci e biondi, occhi color caramello ed è un po' più alto di me.

«Senti, Riccioli d'oro, non chiamarmi ragazzina. Ed evapora subito. Grazie».

Solo io trovo i dementi nel cortile della scuola?!

«Christian. Mi chiamo Christian». Sbuffa sonoramente.

«Non ti ho chiesto come ti chiami. Riccioli d'oro andava più che bene».

Accelero il passo per raggiungere il cancello della scuola, ma Christian mi afferra per un polso e mi fa girare.

«Lasciami subito o ti tiro un pugno».

Ma si può sapere che vuole questa specie di troglodita con un cespuglio biondo in testa?!

«Aggressiva, la ragazza». Sorride.

Ma che cazzo ride?!

«So essere anche violenta». Quanto vorrei tirargli un pugno sul naso.

Due braccia forti mi circondano la vita. Conosco quel tocco. Conosco quelle braccia.

«Che succede qui?», chiede Jacopo lanciando un'occhiataccia al ragazzo che continua a stringermi il polso.

«Riccioli d'oro non se ne vuole andare», rispondo sorridendo al ragazzo che ho davanti.

«Riccioli d'oro ci chiami tuo pa...». Non fa in tempo a finire la frase che gli tiro un pugno in faccia.

Mi sono fatta male alla mano, ma ne è valsa la pena.

«Non ti permettere di nominare mio padre, stronzo!», urlo contro a Cristiano, Christian o come si chiama!

«Piccola, è meglio se andiamo a casa». Jacopo mi afferra per un braccio e mi porta in macchina.

La mano continua a farmi male, ma se penso a quello stronzo di prima mi viene voglia di scendere dall'auto e dargli un altro pugno.

Jacopo non dice nulla per tutto il viaggio, la cosa mi rattrista molto. Di solito ci raccontiamo quello che abbiamo fatto durante la giornata, ma stavolta il silenzio ci divide.

Scendo dalla macchina, prendo lo zaino e con passo spedito mi dirigo verso le scale del palazzo.

Una volta in casa, mi tolgo le Globe dai piedi e vado in cucina.

La porta sbatte, Jacopo è entrato.

Mentre sto cercando qualcosa da mangiare sento due mani che mi afferrano i fianchi e mi fanno girare.

«Hai un livido sopra la mano. Ti fa male?», chiede Jacopo a pochi centimetri da me.

Dopo tutto questo tempo mi fa sempre lo stesso effetto.

Piccoli brividi percorrono il mio corpo al suono della sua voce.

«Non tanto. Ma ne è valsa la pena», rispondo guardando i suoi occhi azzurri.

«Sei una cattiva ragazza». Inizia a lasciare baci umidi sul collo. «La mia cattiva ragazza». Succhia la pelle alla base del collo. Domani avrò un bel segno violaceo.

«Quanto cazzo mi ecciti quando fai l'acida». La sua dolce tortura continua.

Le sue mani vagano sotto il mio maglione nero.

Le mie, invece, affondano nei suoi capelli e li tirano.

Gemiamo entrambi.

Finalmente le sue labbra sono sulle mie e le nostre lingue danzano insieme.

«Ti voglio», mi sussurra all'orecchio.

«Sono tua», rispondo ansimando.

Mi prende in braccio e mi porta nella nostra camera, senza smettere di baciarmi.

Inizia a togliermi i jeans strappati e io gli tolgo i jeans e la maglietta.

Sento la sua erezione spingere sul mio punto più debole e mi scappa un gemito.

Jacopo si alza per prendere un preservativo e io impreco contro di lui. Perché non si muove?

«Dovresti prendere la pillola. Voglio sentirti meglio. Pelle contro pelle, non separati da una pellicola», dice infilandosi il preservativo.

«Hai ragione, ma ora muoviti», rispondo azzerando la distanza che si era creata tra noi, baciandolo.

Entra velocemente dentro di me, finalmente mi sento piena.

Le spinte si fanno più veloci ed esplodiamo entrambi di piacere.

Si sdraia accanto a me mi abbraccia.

«Ti amo», sussurra lasciandomi dei baci sulla schiena.

«Anch'io».

Il tempo scorre e io mi devo preparare per andare a lavorare.

«Devo andare da Chiara in negozio», dico alzandomi e recuperando i vestiti sparsi per la stanza.

«A che ora torni?».

«Alle nove finisce il turno», rispondo pettinandomi i capelli.

«Allora faccio un salto con Giorgio».

Annuisco ed esco velocemente di casa lasciandogli un bacio a stampo.

Salgo in macchina e in un quarto d'ora raggiungo il centro commerciale e mi dirigo verso il negozio di abbigliamento maschile in cui lavoro.

«Buongiorno, scura!», urlo a Chiara appena entro nel negozio.

«Buongiorno, bionda!», risponde lei.

«Ma io non sono bionda!», esclamo ridendo.

«E io non mi chiamo "scura"». Si unisce alla mia risata.

Parliamo del più e del meno, quando dei clienti entrano nel negozio.

«Scusami, potresti dirmi se avete un giubbotto di pelle nera?», mi chiede uno dei ragazzi.

«Sì, ovvio dimmi solo la ta...». Appena alzo la testa mi blocco.

«Tu?!», diciamo insieme.

«Che palle! Anche qua ti devo vedere?!», esclamo seccata.

«A quanto pare. Allora, piccola, ce li hai i giubbotti?», domanda con un sorriso malizioso.

«Forse non ti è bastato il pugno di oggi. Ne vuoi un altro?».

«Allora è stata lei a tirarti il pugno. Che bambina aggressiva», si intromette uno dei suoi amici.

«Senti, coso, tu non hai voce in capitolo, quindi è meglio se non parli». Lo fulmino con lo sguardo.

«Se vuoi un giubbotto, vai a cercare nell'ultimo scaffale a sinistra», dico a Riccioli d'oro.

Senza neanche dirmi grazie, mi supera e va verso lo scaffale.

Dopo dieci minuti buoni viene alla cassa per pagare.

«Sono venticinque euro e ottanta, ma per te facciamo trenta», dico con un sorriso, porgendogli lo scontrino e la busta.

«Cosa?! No! Mi rifiuto di pagare trenta euro!», urla.

I suoi amici soffocano una risata. Sono soddisfatta.

«O paghi, o te ne vai senza giubbotto», ribatto freddamente.

Lui sbuffa e mi butta sul bancone trenta euro.

«Vaffanculo», mi dice.

«Grazie e torni a trovarci!», gli urlo con un sorriso stampato in faccia.

Mi diverto a fare la stronza.

Forse lo sono un po' troppo, ma è giusto così. 

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