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CAPITOLO 1.

Considero deboli le persone che trovano un pretesto per poter scappare dai loro problemi, ma ora che sono passata dall'essere forte all'essere debole ho capito che questa è la via più facile.
Pensavo che sarei stata in grado di superare tutti gli ostacoli che la vita voleva impormi, ma sono arrivata al punto di evitarli e lasciarmeli alle spalle. Ormai ho smesso di lottare da tempo e ho raccolto tutte le forze che mi sono rimaste per poter iniziare una vita nuova: è l'unica cosa che mi resta da fare.
La luce del sole filtra dalla finestra, e mi costringo ad alzarmi dal letto. Poso i piedi sul pavimento freddo e fisso le pareti spoglie della mia stanza.

Ho pensato a lungo a come sarebbe stato questo giorno: grigio. "Grigio" è la parola giusta per descriverlo.

La casa è silenziosa, si sentono solo i passi di mia madre che vanno da una parte all'altra della cucina. È sempre stata contraria al mio trasferimento, nonostante mi abbia appoggiata in tutte le scelte che ho fatto.

Mi alzo dal letto e, svogliatamente, mi dirigo in bagno. Ho un aspetto orribile: non ho chiuso occhio tutta la notte a causa dei pensieri. Mi lavo i denti e mi sciacquo il viso meccanicamente, senza pensarci.

Mi asciugo con un asciugamano perfettamente piegato accanto al contenitore dello spazzolino e del dentifricio e, non appena alzo la testa, la figura minuta di mia madre mi guarda attraverso il riflesso dello specchio.

Rimane in silenzio, senza dire una parola. So che ha molte cose per la testa che non vuole dire per evitare di alimentare la mia confusione.

«A cosa stai pensando?», le chiedo guardandola negli occhi e cercando di cogliere le sue emozioni. Dopotutto gli occhi sono lo specchio dell'anima.

«Ti ho lasciato la colazione sul tavolo», risponde. Evita la mia domanda ed esce dal bagno.

Non riesco a non sentirmi in colpa. La lascerò sola, scappando da tutto come una codarda.

Ritorno nella mia stanza e prendendo gli ultimi vestiti che non ho messo in valigia. Mi cambio velocemente. Faccio dei respiri profondi mentre raccolgo i capelli in una coda alta. Sin da piccola mi hanno sempre fatto i complimenti per i miei capelli castani e i miei occhi verde smeraldo.
Do un'ultima occhiata alla stanza nella quale da piccola giocavo con le bambole e da adolescente passavo le notti insonni, ed esco lasciandomi alle spalle un altro pezzo del mio passato.

«Rebecca, hai finito di fare colazione?».

«Sono appena scesa in cucina».

Seguo l'odore di frittelle che proviene dal piatto sul tavolo e mi siedo. Ne afferro una alla Nutella e la taglio lentamente. Sembra che il mio corpo voglia rimanere qui, mentre la mia mente non vede l'ora di andarsene.

Durante questi tre mesi di vacanza ho riflettuto a lungo, ma pare che non sia servito a nulla: sto per lasciare tutto e andare via, ma non riesco ancora a capire veramente cosa significhi tutto questo.

«Ora hai finito?», chiede mia madre entrando in casa e abbassandosi la zip della giacca.

Annuisco e metto il piatto sporco e le posate nel lavello.

«Devi caricare qualcos'altro?», domando sperando di avere ancora un po' di tempo.

«Ho messo in macchina l'ultimo scatolone proprio ora».

Guardo i miei piedi scalzi: è arrivato il momento che tanto temevo.

«Non devi andartene per forza. Possiamo trovare una soluzione insieme».

«Hai pronunciato questa frase milioni di volte e non è mai cambiato nulla. Partire è la cosa migliore da fare».

«Non è cambiato nulla perché non ci siamo impegnate abbastanza. Insieme capiremo come fare».

«Mamma, basta. Ne abbiamo già parlato. So che non vuoi che me ne vada, ma non posso fare altrimenti».

«Mi preoccupo per te, tutto qui. Nessuna madre al mondo vorrebbe che la propria figlia se ne andasse di casa per ragioni come le tue».

Rimango in silenzio e cerco di convincermi che ciò che sto facendo sia davvero la soluzione giusta.

«Mettiti il cappotto e andiamo. Non voglio arrivare in ritardo all'incontro con l'agente immobiliare», dice mia madre. Poi esce e sale in macchina.

Sospiro e prendo la mia giacca dall'attaccapanni.

Guardo la strada vuota attraverso la finestra: ero davvero convinta che qualcuno venisse a salutarmi?

Sono poche le persone che mi sono rimaste affianco: mia mamma, la proprietaria della libreria in cui lavoro e il mio amico d'infanzia Ivan.

Speravo che almeno Ivan mi stesse accanto in questo giorno così importante, ma come posso biasimarlo? Il padre ha avuto un impegno di lavoro all'estero e ha portato con sé la famiglia.

«L'agente immobiliare ci starà aspettando; dobbiamo fare in fretta», dice mia mamma non appena salgo in macchina.

Mi allaccio la cintura in silenzio e mi metto le cuffiette. Alzo il volume al massimo e lascio che I Found degli Amber Run mi rilassi.

Tengo gli occhi chiusi durante tutto il viaggio: non voglio vedere questo posto.

«Rebecca, svegliati. Siamo arrivate».

Apro gli occhi di scatto e impiego qualche secondo per capire che siamo giunte a destinazione e che la mia playlist è finita ormai da un pezzo.

Scendo dalla macchina e mi stupisco di quanto faccia freddo a settembre.

«Buongiorno!», ci saluta educatamente l'agente immobiliare.

È una signora giovane, avrà una trentina d'anni. Il suo aspetto è sempre stato impeccabile, non ha ami avuto niente fuori posto o in disordine. Odiato le persone che appaiono sempre perfette. Le persone che pensano più all'aspetto esteriore che a quello interiore. Ho sempre odiato le persone come mio padre. Le trovo prive di contenuto.

Mentre saliamo le scale, l'agente immobiliare racconta a mia madre di quanto sia tranquilla questa palazzina, cosa di cui dubito, dato che ci troviamo vicini al centro di Torino.

«Queste sono le chiavi dell'appartamento, del garage, dell'ingresso del palazzo e della cantina». Sorride cordialmente e si volta per aprire il portone della mia nuova casa.

Sbuffo pensando al tempo che impiegherò a memorizzare le varie chiavi.

«Se avete bisogno di una mano a portare gli scatoloni e le valige, posso chiamare un ragazzo dell'impresa traslochi».

«Siamo in due, ce la possiamo fare», risponde educatamente mia madre.

«Entrate pure».

Una volta dentro, l'agente immobiliare accende le luci e chiude la porta alle sue spalle.

«Non vi faccio fare il tour della casa, perché ormai la conoscete». Si concede una piccola risata e poi torna seria. «Dobbiamo definire le questioni burocratiche, signora Gaetani».

«Sì, certo. Mi dica dove firmare».

Mia madre prende in mano la biro e guarda attentamente i fogli, e prima che posi la penna sull'ultima pagina del contratto, mi dirigo verso la camera che ho scelto.

Quando l'ho vista la prima volta, mi è piaciuta subito: è abbastanza grande, con un'enorme finestra che affaccia su un parco. È molto luminosa e ha le pareti bianche, un colore neutro che trasmette calma e allo stesso tempo una sensazione di vuoto. Eppure oggi, appena apro la porta, c'è qualcosa che non mi torna: la stanza è il disordine allo stato puro. Ci sono dei vestiti maschili sparsi sul pavimento, dei libri scolastici sparpagliati sulla piccola scrivania e le lenzuola del letto a terra.

«Scusatemi se vi interrompo, ma in questa casa non dovrei abitarci solo io?», chiedo appoggiata allo stipite della porta.

«Tesoro, ma che stai dicendo?».

«Il figlio del proprietario deve essere tornato», dice l'agente immobiliare.

«Tornato per un controllo, giusto?», domanda mia madre visibilmente agitata.

«"Controllo"? Non ho parlato di controlli, l'altra volta...».

«Allora cosa intende quando dice che "deve essere tornato"?».

Assisto in silenzio alla conversazione e prego che non vada tutto all'aria.

«Come sapete, questa casa appartiene a un grande imprenditore, che l'ha messa in affitto qualche anno fa quando il figlio, ormai maggiorenne, ha deciso di andarsene. Adesso, però, il ragazzo è tornato in città e si è sistemato qui, per cui il proprietario ha deciso di affittare solo una stanza, non l'intero immobile. Chiedo scusa, ma il contratto che state firmando parla chiaro... D'altronde a questo prezzo cosa vi aspettavate di trovare?», spiega l'agente.

Sbarro gli occhi e guardo mia madre che si appoggia al bancone della cucina.

Questa situazione è inverosimile.

«Quindi mia figlia dovrà convivere con uno sconosciuto?».

Temo che da un momento all'altro possa svenire.

«Non sempre, signora».

«Non sempre? Non c'era scritto sul contratto che Rebecca dovesse condividere l'appartamento con qualcuno!».

«Gliel'ho detto l'altro giorno al telefono, ma purtroppo credo che abbia frainteso!».

«Sa che le dico? Al diavolo il contratto e la sua agenzia. Io e mia figlia ce ne andiamo».

Afferra la sua borsa e viene verso di me, sento i tacchi delle sue scarpe che picchiettano fastidiosamente sul pavimento.

«Andiamo, Rebecca». Mi afferra per un braccio e mi strattona incitandomi a uscire, ma rimango ferma.

Non sarà certo un equivoco a impedirmi di rifarmi una vita.

«No, mamma. Voglio restare», dico con la testa abbassato e lo sguardo puntato sulle mie scarpe.

«Cosa? Io non ti lascerò da sola con uno sconosciuto, per di più lontana da me. Non se ne parla!».

Fisso i suoi occhi iniettati di rabbia e paura e mi sento divisa a metà: una parte di me vorrebbe tornare a casa; l'altra vorrebbe rimanere.

«Signora Carla, mi ascolti. Le posso assicurare che questo ragazzo non darà nessun fastidio. Sono in ottimi rapporti con il padre, il quale mi ha assicurato che suo figlio non è quasi mai in casa, se non la notte per dormire», interviene l'agente.

Mia madre sospira rassegnata, mi guarda e mette le mani sul mio viso.

«Tesoro, sei in questa situazione per colpa di tua padre. Non voglio che un altro uomo rovini ciò che stai iniziando a costruirti da sola».

«Non succerà, mamma. Ormai ho diciotto anni e so badare a me stessa. Non permetterò a nessun altro di privarmi della mia felicità», dico a bassa voce.

«Sei sicura?».

Annuisco.

«Va bene». Mi bacia sulla fronte, poi si rivolge all'agente immobiliare: «Firmiamo il contratto».

La signora mi porge la penna e mi invita a firmare, felice e sorridente (forse più per aver concluso un altro affare che per aver assistito a una scena affettuosa tra madre e figlia).

«Spero che la tua permanenza in questa casa sia piacevole, Rebecca». L'agente immobiliare raccoglie le sue scartoffie mentre sistemo sul pavimento l'ultimo scatolone. Per fortuna in questo condominio c'è l'ascensore!

«Grazie, signora...». Non ricordo il suo nome, d'altronde l'ho sempre chiamata "l'agente immobiliare".

«Chiamami Ada».

Sorrido cordialmente mentre mi abbasso la zip della giacca. Con tutto questo trambusto non mi sono neanche ricordata di toglierla.

«Tra un'ora ho un altro appuntamento, quindi chiederei alla signora di seguirmi in ufficio per gli ultimi chiarimenti sulla modalità di pagamento».

«Certo», risponde mia madre.

«Per qualsiasi cosa sai dove trovarmi. Avremo sicuramente occasione di vederci». Ada mi saluta con un sorriso ed esce chiudendo dietro di sé la porta.

«Vuoi che resti qui con te fino all'arrivo del ragazzo?»

«Vai pure, non preoccuparti. Poi hai sentito Ada: il ragazzo viene a casa solo per dormire, quindi potrebbe arrivare tardi», rispondo dondolandomi sui talloni.

«Chiamami non appena puoi».

Mi abbraccia forte e mi bacia entrambe le guance prima di andarsene con un'espressione afflitta.

Non ci posso credere: finalmente inizierò a costruirmi una nuova vita.

Sorrido nel salotto della mia nuova casa.

Da dove comincio? La casa mi sembra così vuota, ora che mia madre e Ada se ne sono andate.

Mi siedo sul divano di pelle nera e mi guardo attorno. Ho sempre pensato che chiunque abbia arredato questa casa, avesse buon gusto.

Le pareti del salotto, della cucina e del bagno son color grigio chiaro, mentre quelle delle due camere sono bianche.

Sono rimasta delusa dal fatto che dovrò prendermi l'altra camera, quella che mi piace di meno.

"Troverò un modo per farmela piacere", dico a me stessa prima di alzarmi e prendere uno scatolone.

Attraverso il corridoio e mi fermo davanti alla camera del mio coinquilino. Chissà come sarà.

Se suo padre è un imprenditore, sarà sicuramente un figlio di papà. Sarà uno di quei ragazzi con le camicie sempre stirate e in ordine, i pantaloni stile chino, gli occhiali con le lenti spesse quanto il fondo di una bottiglia e i capelli perfettamente in ordine.

"Sfigato", penso.

A giudicare dalla camera, però, non sembra un tipo molto ordinato.

Porto gli scatoloni nella mia stanza, li apro uno a uno e tiro fuori i pochi oggetti che ho portato con me. Nessuna foto. Voglio troncare con il passato, e i ricordi non sarebbero serviti a molto. Anzi.

Sto sistemando libri e oggetti vari sullo scaffale, quando sento il mio telefono che squilla in cucina.

Corro nell'altra stanza, è sul tavolo, lo afferro sicura di leggere il nome di mia madre sul display. Invece no, è una videochiamata su Skype di Ivan. Rispondo subito, sono felice di poterlo sentire.

«Che aspetto orribile che hai!», dice non appena mi vede attraverso la fotocamera del cellulare.

«Ciao anche a te», ridacchio.

«Volevo chiamarti stamattina, ma ho pensato che saresti stata indaffarata con il trasloco».

«Ho dormito durante tutto il viaggio per recuperare le ore di sonno».

Intanto torno in camera.

«Ti sei già sistemata?», chiede buttandosi sopra il letto della sua camera d'albergo.

«In realtà stavo aprendo gli scatoloni proprio ora... Anzi, ti dispiace se continuo?».

Metto il telefono sulla scrivania in modo che lui possa continuare a vedermi mentre svuoto gli scatoloni.

«Come sta andando in Francia?», gli domando.

«Inizio a odiare l'accento francese, ma Parigi non mi dispiace! Dovresti vedere quanto sono belli i ragazzi», dice ridacchiando.

«Ti ricordo che hai un fidanzato, Ivan».

«Non c'è bisogno che me lo ricordiate tutti», sbuffa in tono scherzoso. «A proposito, perché hai deciso di cambiare stanza? Dalle foto che mi hai inviato l'altra volta non sembrava così».

«L'altra è occupata dal mio coinquilino», rispondo mentre apro il secondo scatolone e mi lego i capelli in una coda alla buona.

«Aspetta, hai detto "coinquilino"?», urla.

«Sì! Non vivrò da sola... o almeno non sempre».

«Non sempre?».

«Il mio coinquilino è il figlio del proprietario di questo appartamento e quando torna in città verrà ad abitare momentaneamente qui».

«Quindi vivrai con un ragazzo!», urla entusiasta.

«Con un ragazzo che neanche conosco. L'idea non mi piace molto, ma non ho avuto scelta. Mia madre voleva riportarmi a casa».

«Sai cosa significa vivere in casa con un ragazzo che non conosci?».

«Significa che dovrò condividere la casa con qualcuno», rispondo ironicamente.

«Non dire stupidaggini! Potrai iniziare la tua nuova vita da qui. Chissà, magari ci sarà dell'intesa tra voi due...».

«O magari no. Iniziare una relazione è l'ultimo dei miei pensieri, soprattutto in un momento come questo». Mi fermo un attimo e prendo in mano il telefono.

«Ripensa a quello che ti ho detto. Ora devo andare a una mostra d'arte. Ti chiamo stasera, se riesco».

Mi manda un bacio e chiude la videochiamata.

Forse non ha tutti i torti.

Scuoto la testa e sbuffo: devo mettere tutto in ordine.

Mi butto a peso morto sul letto, sfinita. Nel giro di qualche ora ho svuotato gli scatoloni e le valigie: ora la camera sembra meno vuota.

Guardo l'ora: le tre del pomeriggio. Non ho nemmeno pranzato e mi è venuto un certo languorino.

Apro il frigo (più per curiosità che nella speranza di trovarci qualcosa) e vedo solo lattine di birra...

Deve passare davvero poco tempo in casa, questo ragazzo.

Mi ricordo che quando io e mia madre siamo venute qui la prima volta per vedere l'appartamento, abbiamo pranzato in una piadineria; quindi indosso la giacca, prendo le chiavi di casa ed esco.

Dovrò imparare a fare le cose che prima faceva mia madre: chiudere la porta di casa a chiave ogni volta che esco, fare il caffè ogni mattina, fare la lavatrice, le pulizie....

È strano quanto una decisione possa stravolgere la vita. Sono ufficialmente entrata nel mondo degli adulti.

Non appena esco dal palazzo, una folata di vento mi fa andare i capelli davanti alla faccia.

Mi stringo nel mio cappotto e a passo svelto raggiungo la piadineria. Appena entro, il profumo dei salumi e dei formaggi mi fa sentire sollevata.

«Buongiorno», saluto educatamente.

«Salve, vuole già ordinare?». La signora bionda dietro la cassa mi rivolge un sorriso caloroso, quasi come se mi conoscesse da una vita.

«Credo che prenderò una piadina con rucola, prosciutto crudo e squacquerone».

«Sono cinque euro e cinquanta».

È abbastanza caro qui, ma almeno i prodotti che usano per cucinare le piadine sono freschi. Prendo lo scontrino e seduta su uno sgabello inizio a guardare le persone attraverso la vetrina.
Il parco è vuoto. Con l'arrivo del freddo i bambini vorranno giocare in casa al caldo. I marciapiedi sono colmi di persone. C'è chi sta correndo verso un taxi, chi sta aspettando il pullman alla fermata e chi sta parlando al telefono.
Non so quanto tempo mi ci vorrà per abituarmi a vivere in una città grande come Torino. Troppi negozi, il viavai continuo di macchine, le strade piene di persone... Questo tipo di vita non è adatto a me.
Nella vecchia casa passavo le giornate chiusa in camera a leggere e ad ascoltare musica. Uscivo raramente, solo per andare a scuola e in una piccola libreria dove lavoravo.
Invece ora dovrò farci l'abitudine.

«La sua piadina è pronta». La signora dietro la cassa mi distoglie dai miei pensieri, porgendomi la piadina.
La ringrazio, saluto ed esco dal locale.

Cammino velocemente per rientrare prima possibile nel mio appartamento: sto morendo di fame e il profumo della piadina non mi aiuta.
Entro in casa e pronuncio un "ciao" nella speranza che il ragazzo misterioso sia arrivato, ma l'appartamento è vuoto. Non vorrei svegliarmi nel cuore della notte con uno sconosciuto in casa.
Mi tolgo la giacca e mangio sul divano, guardando un programma in tv. Senza che neanche me ne sia resa conto, si sono fatte le quattro di pomeriggio. E ora cosa faccio?
Potrei iniziare a cercare un lavoro, dopotutto devo pur guadagnarmi i soldi in qualche modo. Prendo il pc che ho lasciato sopra la scrivania e vado su Google. Torino offre molte opportunità di lavoro, ma non so proprio da dove iniziare, dato che ho poca esperienza.
Provo a guardare se le librerie nei paraggi hanno bisogno di personale, ma pare che nessuna di queste sia in cerca di personale. Provo con i bar, ma la maggior parte di questi cerca persone con esperienza, e io non ho mai lavorato in un bar.
L'unica opzione che mi è rimasta è il centro commerciale. Troverò sicuramente un negozio che ha bisogno di qualcuno. Clicco sul sito del centro commerciale più vicino e scorro le info dei vari negozi finché trovo un annuncio di un negozio di abbigliamento.
Deve essere la mia giornata fortunata.
Salvo il link nella barra dei preferiti e poggio il pc ancora acceso sul piccolo tavolino ai piedi del divano.
Riaccendo la tv e dopo aver fatto zapping tra i vari canali mi addormento.

L'avviso di una videochiamata in arrivo su Skype mi fa svegliare di soprassalto. Rispondo
«Non mi rispondevi al telefono, quindi mi sono preoccupato», dice Ivan senza neanche salutarmi.

«Mi sono addormentata sul divano», ribatto sbadigliando.

«Con il pc acceso, ovviamente. Non mi stupisco».

Ridiamo entrambi.

«Com'è andata oggi?», chiedo incuriosita mentre spengo la tv e cerco una posizione più comoda sul divano.

«La mostra è stata noiosa. Non vedevo l'ora di uscire da quel posto. Poi abbiamo cenato in un ristorante di lusso e ho dovuto mangiare cose strane. Mi manca mangiare la pizza insieme a te, sai?».

«Anche a me manca. Qui mi sento sola, non conosco nessuno».

«Guarda il lato positivo: nessuno conosce te e tantomeno il tuo passato. Sarà
più facile farsi degli amici nuovi».

Annuisco, le sue parole mi confortano, ma poi ripenso a ciò che mi ha detto poco prima.
«Hai detto cena?», chiedo confusa.

«Sì, sono le otto passate».

«Ho dormito per più di quattro ore?».

«Non mi stupisco neanche di questo».

Rispondo con una linguaccia e scoppio a ridere.

«Come ti immagini il tuo nuovo coinquilino? Sono curioso», continua lui.

«Sinceramente non lo so. Da quanto ho capito, suo padre è un imprenditore abbastanza ricco. Spero che non sia un figlio di papà; non riuscirei a sopportarlo».

«Un ragazzo perbene e viziato. Solo a pensarci mi vengono i brividi».

«Non dirlo a me».

«Questa cosa mi emoziona!».

«Vorrei fossi qui».
Lo penso veramente. L'idea di conoscere questo ragazzo mi agita.

«Appena torno in Italia verrò a farti visita, promesso».
Prima che possa rispondere sentiamo entrambi un rumore di chiavi proveniente dalla porta di casa.

«È arrivato», dico spaventata.

«Ti chiamo domani», replica Ivan chiudendo la chiamata.
Chiudo il pc e lo appoggio sul divano.
Mi alzo pensando a cosa potrei dire per presentarmi: "Ciao! Mi chiamo Rebecca e sarò la tua nuova coinquilina". No, troppo banale.
"Ehi! Sono Rebecca e d'ora in poi abiteremo insieme!". Non se ne parla. "Ciao, mi chiamo Rebecca". Semplice, ma può andare. Sento la porta richiudersi e vedo la luce del corridoio accendersi.
Cammino lentamente verso il corridoio e noto l'ombra del ragazzo che si toglie la giacca. «Ciao», dico facendomi coraggio.
Il ragazzo caccia un urlo e si gira con gli occhi sgranati. Mi guarda.
«Non era mia intenzione spaventarti», lo tranquillizzo non appena lo vedo.
Non sembra affatto un figlio di papà. È alto e muscoloso, a giudicare dalle braccia. Ha la carnagione chiara, quasi cadaverica, ma i capelli sono scuri; neri, direi. Indossa una maglietta a maniche corte e dei jeans, entrambi neri.

«Che ci fai qui?», chiede appoggiandosi al muro e tenendosi una mano all'altezza del petto. Ha un'infinità di anelli alle dita.

«Ci abito», rispondo guardandogli attentamente il viso. Mi si mozza il respiro:
i suoi occhi sono color ghiaccio; ha un piercing dorato all'estremità delle labbra rosa e carnose.

«Abiti qui?», domanda guardandomi come se avessi detto la più grande sciocchezza al mondo.

«Sì, mi sono trasferita in questo appartamento proprio oggi».

«Ora capisco perché Ada mi ha scritto quel messaggio».

Sorrido imbarazza, probabilmente sono diventata tutta rossa dalla vergogna.

«Io sono Jacopo e tu?». Mi porgendo la mano e aspetta che la stringa.

L'afferro titubante.
«Rebecca».

«Hai detto che vieni da Villanova d'Asti, giusto?», mi chiede Jacopo, poi prende un boccone di pasta.

«Giusto». Bevo un sorso d'acqua.

«Non l'ho mai sentita».

Scuoto la testa. «È poco conosciuta».

Sentiamo un rumore di chiavi e ci giriamo entrambi.

«Davvero sei stato fuori tutta la notte?», chiede Jacopo al ragazzo che è appena entrato.

«A quanto pare», risponde l'altro con tono freddo.

«Lei è Rebecca, la nuova coinquilina», dice Jacopo. «Dividerà la stanza con te».

Non ci capisco nulla.
«Lui abita qui?», chiedo.

«A volte», replica Jacopo.

«Ma Ada non me lo ha detto». Rimango a bocca aperta: non è possibile.

«Perché lei non lo sa», risponde.

«Merda! Hai già messo la tua roba nella mi stanza?», sbotta l'altro ragazzo.
Sento le mie guance andare a fuoco.

«Io...». Ma non riesco a finire la frase.

«Ci penso io». Jacopo si alza dalla sedia e va verso la camera.
«Vittorio, ti cedo la mia camera».

«Dici davvero, amico?», domanda Vittorio.

Sento Jacopo annuire.

«Grazie. Rebecca, giusto?».

Faccio cenno di sì con la testa e vedo Vittorio entrare nella camera-ora-non-più-di-Jacopo.

«Vittorio è un tipo strano», mi confessa Jacopo rientrando in cucina.
Sorrido educatamente.
«Vado in bagno», dice; poi lo vedo sparire dietro l'angolo.

Mi alzo dalla sedia e metto i piatti e i bicchieri nel lavello.
Cerco di aprire l'acqua del rubinetto, ma non esce niente.
«Ma che diavolo...?». Sbuffo e continuo a cercare di far uscire l'acqua dal rubinetto.

«Serve una mano?», chiede Vittorio venendomi a fianco.

«Non esce l'acqua», rispondo.

«Prova a scuotere il rubinetto. Di solito facciamo così».

Ci provo, ma non succede nulla.

«Qual è il problema?», chiede Jacopo.

«Solita storia: il rubinetto», risponde Vittorio.

Jacopo si avvicina a me, continuo a strattonare il rubinetto finché l'acqua fuoriesce bagnando Jacopo.
Il suo sguardo è a dir poco pieno di rabbia.
Esce dalla stanza senza dire una parola.

«L'hai fatto arrabbiare. Te la farà sicuramente pagare».

Merda.
Mi passo la mano tra i capelli: non è un buon inizio.

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